Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-12-2010) 09-02-2011, n. 4611 Consegnatario e luogo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 23 marzo 2010, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Alba, Sez. dist. di Bra con la quale R.P.A. era stato ritenuto responsabile del reato di concorso in falsa testimonianza, riduceva la pena inflittagli ad anni due di reclusione e gli concedeva i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, confermando nel resto.

All’imputato era addebitato di aver ideato ed istigato la falsa testimonianza resa dalla sua segretaria C.L. nella causa civile per risarcimento danni da responsabilità professionale intentata nei suoi confronti da A.A..

In particolare, il R. aveva assistito, quale legale, l’ A. in una domanda risarcitoria, che non aveva sortito alcun esito a causa della prescrizione dei diritti di costui nei confronti della compagnia assicuratrice.

Citato davanti al giudice civile dall’ A. per rispondere dei danni cagionati per colpa professionale, il R. depositava una dichiarazione a firma del cliente di esonero da responsabilità professionale e indicava quale teste la sua segretaria C. L.. Quest’ultima, assunta all’udienza del 24 ottobre 2002, dichiarava di aver personalmente predisposto la dichiarazione liberatoria datata 7 febbraio 1996, per essere poi sottoposta dal legale alla firma del cliente.

Secondo l’ipotesi accusatoria, la teste C. aveva, su istigazione del R., dichiarato il falso in relazione alla sottoscrizione da parte dell’ A. di una dichiarazione liberatoria a favore del legale in caso di prescrizione dell’azione civile, in quanto la suddetta dichiarazione era stata abusivamente inserita su un documento in bianco firmato dall’ A. in precedenza.

2. Avverso la sentenza emessa in grado di appello e l’ordinanza dibattimentale che, nella stessa data, ha rigettato l’eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, propone ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite dei suoi difensori, deducendo:

– quanto all’ordinanza, l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in quanto il decreto di citazione per il giudizio di appello sarebbe stato notificato nelle mani del figlio dell’imputato, senza indicazione del rapporto di convivenza. La nullità conseguente non risulterebbe sanata dalla presentazione di motivi nuovi da parte dell’imputato, in quanto difetterebbe il termine minimo per comparire.

– quanto alla sentenza, la mancata assunzione di una prova decisiva, con riferimento alla perizia grafica, e l’illogicità della motivazione in ordine alla negata rinnovazione dibattimentale, volta a dimostrare l’epoca di sottoscrizione da parte dell’ A. della dichiarazione liberatoria;

– violazione degli artt. 192 e 530 c.p.p., e vizio della motivazione, in relazione al giudizio di responsabilità dell’imputato. Si denuncia in particolare la lacunosità della motivazione, per mancanza della prova della contestualità delle firme apposte dall’ A. sui fogli contenenti la dichiarazione liberatoria;

l’illogicità della motivazione, in quanto non avrebbe con convinzione spiegato il perchè costui attese sei anni per avanzare azione di responsabilità nei confronti dell’imputato; la contraddittorietà della motivazione, con riferimento alle divergenze risultanti dagli atti circa il numero dei fogli firmati dall’ A. e la relativa data, elementi sui quali il giudicante non avrebbe fornito una giustificazione plausibile;

– erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 384 c.p., commi 1 e 2, in quanto la sentenza non avrebbe riconosciuto all’imputato la esimente ivi prevista, già ravvisata a favore della C. con sentenza passata in giudicato;

– erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in ordine alla applicazione della pena, che si chiede di contenere nel minimo;

– erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in ordine alle statuizioni civili, posto che nessun danno patrimoniale avrebbe subito la parte civile mentre quello morale risulterebbe eccessivamente quantificato. In ogni caso, la quantificazione dei danni patrimoniali non avrebbe tenuto conto di quelli già liquidati per intero a favore dell’ A. nel processo a carico della C..
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Quanto alla notificazione all’imputato dell’avviso di fissazione del giudizio di appello, la dedotta nullità non sussiste, posto che il relativo decreto di citazione a giudizio è stato regolarmente notificato all’appellante nel domicilio dichiarato. Dalla relazione di notifica risulta infatti che si è dato atto del rapporto di parentela della persona consegnataria (figlio del destinatario).

Lo stato di convivenza della persona che riceve l’atto notificato deve presumersi fino a prova contraria perchè l’indicazione al riguardo fornita dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica deriva dall’apparenza della situazione e da quanto dichiarato dal soggetto che l’atto riceve. L’onere dell’eventuale, rigorosa prova contraria incombe su colui che eccepisce la irregolarità della notificazione (Sez. 3^, n. 200 del 21/11/2007, dep. 07/01/2008, Martini, Rv. 238608).

Inoltre, in tema di notificazione all’imputato non detenuto, debbono considerarsi persone conviventi dello stesso non solo le persone che anagraficamente facciano parte della di lui famiglia, ma anche quelle che, per altri motivi, si trovino, al momento della notificazione, nella casa di abitazione del destinatario dell’atto, purchè, esse, per la qualifica declinata all’ufficiale giudiziario, rappresentino a quest’ultimo una situazione di convivenza, sia pure di carattere meramente temporaneo, che legittima nell’agente notificatore il ragionevole affidamento che l’atto perverrà allo interessato (Sez. 2^, n. 02597 del 13/12/2005, dep. 20/01/2006, Di Virgilio, Rv.

233329).

In ogni caso, il ricorrente non solo non deduce la mancata o comunque menomata conoscenza conseguente alla notificazione effettuata nelle mani del figlio, ma dimostra di essere stato a piena conoscenza del contenuto dell’atto notificato, avendo proposto personalmente, in vista dell’udienza del 23 marzo 2010, i motivi nuovi di appello. Ne consegue che la notificazione, oltre ad essere in sè valida, non ha provocato nessuna lesione del diritto alla conoscenza e all’intervento dell’imputato (cfr. Corte Edu, 12/10/1992, T. c. Italia, P. 28; 18/04/2004, Somogyi c. Italia, P. 75).

2. Il motivo con il quale il ricorrente lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva costituita da perizia grafica, è infondato alla luce dei principi costantemente affermati da questa Suprema Corte, secondo i quali deve negarsi che l’accertamento peritale possa ricondursi al concetto di "prova decisiva", la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), poichè il ricorso o meno ad una perizia è attività sottratta al potere dispositivo delle parti ed è rimessa essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (tra le tante, Sez. 4^, n. 14130 del 22/01/2007, dep. 05/04/2007, Pastorelli, Rv. 236191; cfr. sent. Corte e.d.u., Bracci c. Italia, del 13/10/2005, P. 62, con la quale la Corte Europea, in relazione all’art. 603 c.p.p., ha affermato che il rifiuto di ordinare la produzione di una prova a discarico non viola l’art. 6 C.e.d.u., qualora la corte d’appello ritenga quell’atto istruttorio privo d’interesse per il procedimento, fornendo sul punto argomenti puntuali e logici).

Nel caso in esame, il giudice di appello ha respinto la richiesta di rinnovazione del dibattimento, evidenziando la superfluità dell’accertamento peritale in considerazione dell’approfondimento tecnico grafologico sul documento firmato dall’ A. già compiuto in sede civile con una consulenza tecnica di ufficio acquisita nel processo penale sull’accordo delle parti, e poi sviluppato in dibattimento con l’audizione del consulente tecnico di ufficio G. e della consulente di parte C., con ciò fornendo adeguata motivazione all’esercizio del potere discrezionale attribuitogli dalla legge.

3. Relativamente alle censure mosse alla completezza e logicità della ricostruzione dei fatti accolta dalla sentenza impugnata, va ribadito che non tutte le inadeguatezze, difformità o disarmonie, nella spiegazione della decisione del giudice, sono suscettibili di censura in sede di giudizio di legittimità, ma lo sono solamente quelle capaci di determinare esiti viziati, nella lettura o nella comprensione delle proposizioni, che siano inquadratali in almeno uno dei tre profili prospettati dal legislatore nell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (e cioè la "mancanza", la "contraddittorietà" e la "manifesta illogicità").

Orbene, al di fuori di tale ventaglio di ipotesi e di categorie di invalidità, non possono essere oggetto di valutazione censoria da parte della Corte di cassazione, ogni altra disarmonia, improprietà, scarsa congruenza, oppure ancora imperfezioni della trama espositiva o delle singole proposizioni che sostanziano e danno corpo alla motivazione, considerato anche che il controllo di legittimità si appunta – nel caso in esame – esclusivamente sulla coerenza strutturale "interna" della decisione, di cui deve essere verificata l’oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico – argomentativo.

Da ciò l’inammissibilità di tutte quelle diffuse critiche mosse nel ricorso alla motivazione le quali in parte comportano una "invasione nel merito" o hanno segnalato pretese inadeguatezze della giustificazione della decisione impugnata, prive peraltro delle notazioni sopra indicate. Invero, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito delinei effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione (ex pluris Sez. 2^, n. 7380 del 11/01/2007, dep. 22/02/2007, Messina, Rv.

235716). Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito; così come non sembra affatto consentito che possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto. Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.

Esaminata in quest’ottica, la decisione impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il giudice del merito – con motivazione esente da vizi logici e da interne contraddizioni – ha rappresentato le ragioni che l’hanno indotto a ritenere la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto ascrittogli, grazie ad una analitica ed approfondita disamina degli elementi su cui ha fondato tale affermazione.

Neppure è censurabile il rilievo, peraltro non decisivo, attribuito dalla sentenza impugnata alla circostanza che l’imputato non abbia fornito alcuna versione difensiva, poichè al giudice non è precluso valutare la condotta processuale del giudicando. Questa Corte ha invero affermato che al giudice non è precluso valutare la condotta processuale dell’imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del suo libero convincimento, ben può considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (tra le tante, Sez. 2^, n. 22651 del 21/04/2010, dep. 14/06/2010, Di Perna, Rv. 247426; Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 22/02/1993, Marino, Rv. 192469).

Non vi è inoltre alcuna contraddittorietà tra le affermazioni del consulente G. (che, secondo la difesa, non è stato in grado di stabilire la contestualità delle sottoscrizioni dell’ A.) e le conclusioni della sentenza, posto che i giudici del merito hanno ritenuto la falsità della deposizione resa dalla Ca., in quanto era risultato provato, sulla base dell’accertamento svolto dal consulente G., che le due firme, vergate con lo stesso inchiostro e con lo stesso mezzo di scrittura, erano state apposte a distanza minima l’una dall’altra, ma sicuramente non alla distanza di 28 mesi, quale risultante dalle date figuranti sulle due sottoscrizioni.

Questo aspetto risulta ampiamente trattato dalla sentenza impugnata, che ha evidenziato l’irrilevanza della tesi difensiva volta a contrastare le conclusioni tecniche del G., sostenendo – tra l’altro sulla base di indimostrate conclusioni tecniche di parte – la non contestualità delle due firme, posto che l’indagine grafologica, pur non potendo verificare la "datazione assoluta" delle firme, aveva con certezza stabilito la "datazione relativa" delle firme, ovvero che la seconda firma non era stata apposta nella data apparentemente figurante sul documento. Dato che era sufficiente a confermare la falsità del documento in esame ed a costituire quindi oggettivo riscontro alla versione dei fatti fornita dall’ A..

Sulla base di quanto ora esposto, del tutto priva di pregio è la doglianza con cui il ricorrente lamenta la inadeguata risposta del giudice di appello all’argomento avanzato nel relativo gravame, volto a dimostrare l’illogicità della tesi sostenuta in prime cure della predisposizione da parte dell’imputato di un falso esonero di responsabilità prima ancora che il suo cliente avanzasse nel 1998 pretese sul punto, posto che i giudici di merito hanno diffusamente spiegato che il thema decidendum era quello di stabilire l’epoca di apposizione delle sottoscrizioni da parte dell’ A. e non certo quella dell’abusivo riempimento con il computer da parte dell’imputato del documento, utilizzando una firma già apposta, che ben poteva essere quindi successivo.

Del pari infondato è l’assunto che i giudici di merito non avrebbero dato logica spiegazione alla circostanza che l’ A. attese sei anni prima di intentare la causa civile contro l’imputato. Tale aspetto è stato ampiamente affrontato in prime cure, la cui motivazione – adeguata e priva di vizi logici – è stata richiamata dal secondo giudice, che ne ha condiviso le argomentazioni. E’ risultato invero che l’ A. si era rivolto ad altro legale di fiducia per verificare la questione della prescrizione, che a sua volta aveva suggerito al cliente di attendere l’esito del procedimento, conclusosi nel 1998, nei confronti dell’Assicurazione per verificare l’omissione del professionista. Una volta ricevuta dall’Assicurazione la certezza del motivo del mancato risarcimento, il nuovo legale di fiducia per motivi deontologici aveva cercato di risolvere stragiudizialmente la questione, prima di intraprendere un’azione legale nei confronti del collega. La suddetta ricostruzione, ad avviso dei giudici di merito, chiariva la ragione del preteso ritardo dell’ A. nell’attivarsi nei confronti dell’imputato, che, lungi dal dimostrare dubbi sulla legittimità del propria pretesa, era imputabile a timori comprensibili di intentare una causa nei confronti di un legale che stava seguendo per suo conto una causa particolarmente delicata.

Priva di pregio è anche la doglianza relativa alle discrasie tra le affermazioni dell’ A. ed i capitoli di prova formulati dalla sua difesa in sede civile in merito al numero dei fogli firmati in bianco con doppia firma (in primo tempo, era stato indicato nella capitolazione di causa un unico foglio in bianco con doppia firma e, solo dopo una memoria del R., la difesa dell’ A. avrebbe "adeguato" le proprie allegazioni, indicando invece due fogli sottoscritti in bianco con doppia firma). Anche in tal caso, i giudici di merito hanno dato puntuale e logica spiegazione alla deduzione difensiva, rilevando che, anche a voler trarre delle conseguenze in punto di attendibilità della versione dei fatti esposta dall’ A. dalla formulazione – probabilmente non del tutto felice -da parte di un legale dei capitoli di prova, la dedotta discrasia era in realtà solo apparente, posto che il capitolo di prova presentato in un primo tempo era finalizzato al disconoscimento dell’unico documento-foglio, contenente la dichiarazione liberatoria a favore del R., sul quale pertanto si era appuntata l’attenzione della difesa dell’ A..

Quanto alle divergenze nelle versioni dei fatti rese in sede civile e penale dal padre dell’ A. sul numero dei fogli firmati in bianco, è da rilevarsi che, a parte la genericità dell’assunto (privo della necessaria autosufficienza), la questione dell’attendibilità del teste A.G. risulta ampiamente affrontata dai giudici di merito e risolta nel senso che costui in entrambe le sedi aveva dichiarato che, nell’unico incontro al quale aveva assistito presso lo studio del R., quest’ultimo aveva chiesto e ottenuto dal figlio la firma su "più fogli in bianco" con "una firma al centro e una in fondo pagina", confermando così l’unico dato rilevante nel procedimento in esame costituito dalla richiesta, soddisfatta, dell’imputato di ottenere un documento con caratteristiche compatibili con quelle che si assume falsificato.

4. Privo di pregio giuridico è anche il motivo con cui si denuncia il mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 384 c.p., commi 1 e 2.

Esattamente la Corte di merito ha affermato che nella specie non era applicabile l’esimente in parola, poichè lo stato di pericolo – per la libertà o per l’onore – era stato cagionato volontariamente dall’imputato, con la produzione nel giudizio civile della dichiarazione liberatoria a firma dell’ A. alla quale ebbe poi a seguire la sua richiesta di audizione della C. (tra le tante, Sez. 6^, n. 10654 del 20/02/2009, dep. 10/03/2009, Ranieri, Rv. 243076).

Nè l’estensione della esimente, già riconosciuta in altro procedimento alla C., può spiegare automatica influenza ai fini della punibilità del concorrente. Il risalente precedente giurisprudenziale citato nel ricorso è stato invero superato da un più recente approdo delle Sezioni unite che, nell’esaminare la questione con riferimento alla causa di non punibilità della ritrattazione, sono giunte ad opposte conclusioni, rilevando che qualora nel reato di falsa testimonianza concorra colui che ha cagionato la deposizione mendace o reticente (l’istigatore), a fronte dell’unità del fatto sul piano lesivo, sono riscontrabili addebiti soggettivi che restano sempre distintamente e diversamente graduabili e che vanno diversamente valutati (Sez. U, n, 37503 del 30/10/2002, dep. 07/11/2002, Vanone, Rv. 222346).

Nè miglior sorte ha la richiesta del ricorrente di veder applicata l’esimente di cui al secondo comma dell’art. 384 c.p., posto che la C. non si trovava in alcuna delle situazioni di incompatibilità o incapacità previste dalla legge processuale per l’assunzione dell’ufficio di testimone nel giudizio civile.

5. Non appare meritevole di accoglimento neppure la doglianza, concernente l’asserita carenza della motivazione e la violazione di legge in merito alla dosimetria della pena. La sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha illustrato gli elementi (la gravità del reato, anche in considerazione delle modalità del fatto, commesso nell’ambito peculiare di un rapporto "tradito" tra avvocato e cliente; l’incensuratezza e l’età dell’imputato) su cui ha fondato il giudizio riguardante la graduazione della pena.

6. Infondato è anche l’ultimo motivo relativo alle statuizioni civili.

Quanto al danno patrimoniale, la sentenza impugnata ha ritenuta corretta la relativa statuizione, posto che, come ritenuto dal primo giudice, la parte civile A. aveva subito un danno, a causa del reato di falsa testimonianza, per il conseguente sviamento del normale corso dell’attività giudiziaria, costituito dall’aver dovuto richiedere (sostenendone le spese) la c.t.u grafica per verificare la genuinità del documento prodotto dall’imputato.

In tal senso, già si è espressa questa Corte, affermando che il soggetto danneggiato, a causa della falsa testimonianza resa in un giudizio civile per risarcimento danni – se non vede irrimediabilmente e definitivamente compromesso il suo diritto ad ottenere il risarcimento, in quanto ha a sua disposizione l’impugnazione per revocazione per riproporre le sue pretese nei confronti di quanti gli hanno arrecato un danno ingiusto e per ottenere finalmente una "giusta" decisione nel merito – può agire invece per ottenere da coloro che hanno reso le false testimonianze il risarcimento di tutti i danni derivanti dallo sviamento dell’attività giudiziaria. Danni, questi, che se pur distinti dalle pretese originarie connesse al fatto causativo del danno originario, possono assumere anche una consistenza molto elevata in considerazione delle concrete vicende processuali (Sez. 6^, n. 10081 del 08/02/2005, dep. 15/03/2005, Nodari, Rv. 230893).

Quanto alla quantificazione del danno patrimoniale, il ricorrente sottopone a questa Corte una questione di fatto, il cui controllo, in caso di motivazione non manifestamente illogica, sfugge al giudice di legittimità, considerato tra l’altro la genericità dell’assunto, non rappresentato con la dovuta autosufficienza.

Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per la doglianza relativa all’esorbitanza del danno morale, in quanto la relativa valutazione equitativa è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e non è sindacabile in cassazione se ha soddisfatto le esigenze di ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno e ammontare dell’indennizzo: come si è verificato nel caso concreto, avendo la corte di merito valutato i patemi ed il turbamento d’animo, determinati dal reato, anche in considerazione della peculiarità della vicenda.

7. Deve infine rilevarsi che non è ancora maturato il termine di prescrizione del reato (commesso il (OMISSIS)), tenuto conto del periodo di sospensione del procedimento (dal 16 luglio 2007 al 31 marzo 2008), per il rinvio del dibattimento, disposto per adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dalle associazioni di categoria – e quindi non giustificato da un impedimento (Sez. 2^, n. 20574 del 12/02/2008, dep. 22/05/2008, Rosano, Rv. 239890).

8. Conclusivamente, per le ragioni esposte, il ricorso va rigettato e al rigetto consegue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in favore della parte civile delle spese della presente fase, che liquida in complessivi Euro 2.500, 00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè a rifondere le spese sostenute in questo grado dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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