T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 04-02-2011, n. 1034 Silenzio della Pubblica Amministrazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con il ricorso, meglio indicato in epigrafe, le Signore A. e A.M. hanno chiesto che il Tribunale dichiari l’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma rispetto alla domanda del 26 febbraio 1997 volta ad ottenere l’emissione del provvedimento di inservibilità delle aree espropriate e di loro proprietà ubicate nel Comune di Roma in via Flaminia Vecchia n. 829/A.

Premettono le ricorrenti di essere aventi causa dei Signori Guerrino M. e Margherita di Mascio, comproprietari di un appezzamento di terreno con sovrastante fabbricato sito in Roma in via Flaminia Vecchia n. 829.

Riferiscono che, con decreto n. 5572 del 30 maggio 1967, il Prefetto della Provincia di Roma decretava l’espropriazione del predetto terreno – in esecuzione del piano particolareggiato n. 120 comprendente la zona tra la via Cassia Antica, via Cassia Nuova e via Flaminia – ed autorizzava il Comune di Roma alla occupazione immediata; cosa che avveniva in data 14 dicembre 1996, data in cui alcuni incaricati del Comune di Roma stendevano il verbale di consistenza nel quale, sottolineano le ricorrenti, "è precisato che l’esproprio è finalizzato alla costruzione di un tratto della via Raffaele Cappelli" (così, testualmente, alle pagg. 1 e 2 del ricorso introduttivo).

Soggiungono le ricorrenti che, non essendo stata realizzata la suddetta opera ed essendosi limitato il Comune ad occupare solo pochi metri di terreno per realizzare un pozzetto fognario, in data 26 febbraio 1997 esse presentavano domanda alla Regione Lazio ed al Comune di Roma per ottenere la retrocessione dei beni espropriati, previa dichiarazione di inservibilità dei predetti beni.

Raccontano le ricorrenti che il Comune di Roma, in data 2 febbraio 2000, manifestava la propria disponibilità ad addivenire alla richiesta retrocessione precisando nel contempo che, non potendosi escludere un futuro utilizzo dell’area da parte dell’Ente, proponeva "la stipula di un atto d’obbligo con il quale, in caso di nuova procedura ablativa, le ricorrenti avrebbero dovuto impegnarsi ad accettare a titolo di indennità di esproprio una somma non superiore a quella da corrispondere per la retrocessione" (così, testualmente, a pag. 2 del ricorso introduttivo), che veniva stimata con successivo atto del 7 giugno 2000 in Lire 72.000.000.

Lamentano le ricorrenti che, in seguito ad indagini tecniche dalle stesse affidate ad un professionista, emerge che l’area occupata non corrisponde a quella prevista nell’originario progetto di esecuzione della strada e che la valutazione di stima operata dal Comune non aveva tenuto conto di aspetti peculiari e caratteristiche dei beni oggetto dell’operazione. Si dolgono inoltre le ricorrenti che, nonostante le suindicate discrasie siano state opposte al Comune quest’ultimo, con nota del 14 giugno 2001 prot. n. 5700 ribadiva la propria disponibilità alla retrocessione al prezzo già indicato.

Da qui il proposto ricorso tendente a far dichiarare illegittimo il comportamento mantenuto nella specie dal Comune di Roma, con condanna di quest’ultimo anche in solido con la Regione Lazio al risarcimento dei danni subiti.

2. – Si sono costituiti in giudizio la Regione Lazio ed il Comune di Roma.

Trattenuta riservata la decisione nell’udienza di merito del 28 aprile 2010 la riserva è stata sciolta nella Camera di consiglio del 13 ottobre 2010.

3. – Preliminarmente il Collegio deve scrutinare la questione di giurisdizione in ordine alla domanda proposta dalle ricorrenti.

Anzitutto occorre individuare la normativa applicabile al caso di specie. E’ vero che la procedura espropriativa fu avviata precedentemente all’entrata in vigore del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 (testo unico delle espropriazioni), purtuttavia la questione sottoposta all’esame del Collegio ha ad oggetto la retrocessione dei beni non espropriati, procedura (nuova rispetto a quella espropriativa ormai conclusa e) mai avviata dall’Ente competente a farlo per come lamentato dalle ricorrenti proprio con l’azione proposta in questa sede: quindi la controversia è disciplinata ratione temporis dal D.P.R. n. 327 del 2001.

Quest’ultimo, in materia di retrocessione, stabilisce:

– all’art. 46 (retrocessione totale) che "Se l’opera pubblica non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità";

– al successivo art. 47 (retrocessione parziale) che "Quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità, l’espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene, già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata. In tal caso il soggetto beneficiario dell’espropriazione (…) indica i beni che non servono all’esecuzione (…) e che possono essere trasferiti, nonché il relativo corrispettivo".

4. – Va, quindi, osservato, quanto alla giurisdizione, che secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, formatosi in vigenza dell’art. 63 della legge 25 giugno 1865 n. 2359 e reiterato in relazione all’art. 46 del D.P.R. n. 327 del 2001, che riproduce nella sostanza il testo della disposizione della legge fondamentale sugli espropri, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la retrocessione totale del bene espropriato e non utilizzato nei termini dall’Amministrazione per lo scopo per il quale il provvedimento ablatorio era stato adottato, sussistendo nell’ipotesi di retrocessione un vero e proprio diritto soggettivo perfetto del proprietario ad ottenere la restituzione del bene inutilmente espropriato, come tale tutelabile davanti al giudice ordinario (in tal senso, tra le tante, cfr. Cass., SS.UU., 5 giugno 2008 n. 14826, Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2008 n. 5956, 4 luglio 2008 n. 3342, 19 febbraio 2007 n. 874; 8 luglio 2003 n. 4057 nonché TAR Campania, Napoli, Sez. V, 29 aprile 2009 n. 2206 e TAR Veneto, Sez. I, 24 aprile 2009 n. 1254).

Il proprietario espropriato, invero, nella fattispecie della retrocessione totale, è titolare di uno ius ad rem di carattere potestativo di contenuto patrimoniale, che gli consente di agire dinanzi al giudice ordinario per chiedere la pronunzia di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione dei beni espropriati acquisiti al patrimonio disponibile dell’amministrazione espropriante allorché questa non abbia portato a compimento l’opera pubblica.

Detta conclusione risulta confermata anche a seguito delle pronunce rese dalla Corte costituzionale in data 6 luglio 2004 n. 204 e 28 luglio 2004 n. 281 in relazione all’art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b) della legge 21 luglio 2000 n. 205.

Pertanto, per effetto di tali pronunce di incostituzionalità, le controversie in materia di diritto alla retrocessione totale ex art. 63 della legge n. 2359 del 1865, attualmente ex art. 46 del D.P.R. n. 327 del 2001, già pacificamente devolute all’Autorità giudiziaria ordinaria, devono nuovamente ritenersi estranee alla giurisdizione amministrativa.

5. – Al contrario, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, sulle domande aventi ad oggetto la retrocessione parziale perché, in tal caso, il soggetto beneficiario dell’espropriazione vanta un mero interesse legittimo all’accertamento dell’inservibilità delle aree espropriate ma non interamente utilizzate.

In argomento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 14805 del 24 giugno 2009, risolvendo un conflitto di giurisdizione tra il Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d’Appello di Napoli ed il Tribunale amministrativo regionale della Campania, ha affermato che in tema di retrocessione di beni espropriati, a seguito dell’introduzione della giurisdizione esclusiva in materia urbanisticoedilizia ed espropriativa da parte dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 e prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, il criterio del riparto della giurisdizione, fondato sulla natura della posizione soggettiva lesa (diritto o interesse legittimo) che assegna al giudice ordinario la domanda di retrocessione totale ex art. 63 della legge n. 2359 del 1865 e al giudice amministrativo quella di retrocessione parziale anteriore alla dichiarazione di inservibilità ex artt. 60 e 61 della legge n. 2359 del 1865, si applica solo se ciascuna domanda venga autonomamente proposta.

Qualora le stesse siano proposte congiuntamente ed alternativamente, trovano invece applicazione i principi di logica processuale per cui, nella materia di giurisdizione esclusiva, la decisione su più cause riunite o strettamente connesse aventi ad oggetto, in astratto, diritti ed interessi, spetta al giudice amministrativo, il quale, avendo cognizione su interessi e diritti, ha competenze più ampie rispetto a quelle del giudice ordinario, limitate ai diritti soggettivi. In tal caso logicamente prioritaria è la verifica dei presupposti della retrocessione parziale, ovvero dell’avvenuta realizzazione, anche parziale, dell’opera pubblica, in mancanza della quale il giudice amministrativo, rigettata la relativa domanda, deve estendere l’accertamento all’esistenza del diritto alla retrocessione totale, pronunciando anche sul risarcimento del danno da mancata utilizzazione del fondo, ai sensi dell’art. 35 del decreti legislativo n. 80 del 1998.

La sentenza citata si riferisce, quindi, ad ipotesi di domanda giudiziale avente ad oggetto tanto la retrocessione totale che quella parziale: nondimeno, nel caso posto all’esame del Tribunale la questione circa il tipo di retrocessione richiedibile dalle ricorrenti non è chiara nei suoi esatti contorni (vale a dire se totale o parziale) a causa proprio del silenzio serbato dalle Amministrazioni intimate sulla richiesta formulata fin dal 1997 dalle ricorrenti stesse.

Queste ultime, infatti, hanno evidenziato nel ricorso introduttivo che, a fronte dell’occupazione dell’intera area avvenuta nel 1966, il Comune non ha realizzato l’opera prevista nel decreto di espropriazione, espressamente "finalizzato alla costruzione di un tratto della via Raffaele Cappelli", ma avrebbe utilizzato solo pochi metri per realizzare un pozzetto fognario. Ulteriori indizi circa la riconducibilità della fattispecie al paradigma della retrocessione parziale si rinvengono nella proposta offerta dal Comune – non rispondendo specificamente alla richiesta avanzata dalle Signore M., ma eludendola, per come poi si preciserà – con la quale l’Ente, in due occasioni epistolari (per quel che risulta dalla documentazione depositata) ha manifestato la propria disponibilità ad addivenire alla retrocessione precisando nel contempo che, non potendosi escludere un futuro utilizzo dell’area da parte dell’Ente, doveva comunque essere stipulato con le proprietarie un atto d’obbligo con il quale, in caso di nuova procedura ablativa, le odierne ricorrenti avrebbero dovuto impegnarsi ad accettare a titolo di indennità di esproprio una somma non superiore a quella da corrispondere per la retrocessione; denotando così il permanere dell’interesse dell’Ente ad utilizzare in tutto o in parte l’area per la realizzazione di interventi di interesse pubblico, seppur non temporalmente predeterminati.

La documentazione versata in atti testimonia, quindi, che l’opera progettata non è mai stata (totalmente o parzialmente) realizzata, mentre continua, pur essendo da tempo decaduta la dichiarazione di pubblica utilità, la detenzione illegittima da parte del Comune, il quale, ripetutamente invitato a disporre la retrocessione dei suoli, non ha mai attivato il relativo procedimento. Oggetto della domanda, secondo la prospettazione dei ricorrenti, è dunque la restituzione dei beni inutilmente trasferiti all’amministrazione in ragione della realizzazione di un’opera pubblica che ha avuto una parziale esecuzione di scarsa consistenza rispetto al progetto che ha costituito all’epoca (figurativamente) il primum movens della procedura ablatoria subita dalle odierne ricorrenti.

6. – Circoscritto, quindi, l’ambito della domanda proposta dalle Signore M. nel ricorso introduttivo del presente giudizio ed identificata la stessa nella richiesta di dichiarazione giudiziale di illegittimità del silenzio serbato dalle Amministrazioni destinatarie della istanza con la quale si chiedeva di adottare l’atto principale della procedura di retrocessione, vale a dire il provvedimento di inservibilità delle aree espropriate, occorre ora verificare, tenuto conto di quanto si è sopra osservato in tema di riparto di giurisdizione sulla retrocessione, se sia ammissibile la proposizione di una domanda processuale di silenzioinadempimento in siffatta materia.

Sotto un primo profilo va detto che, in via generale, è inammissibile il ricorso proposto avverso il silenzio rifiuto serbato dall’Amministrazione su una istanza di retrocessione dell’area espropriata per la realizzazione di un’opera pubblica mai realizzata, atteso che la situazione giuridica soggettiva effettivamente posseduta da chi domanda la retrocessione dell’area espropriatagli per la realizzazione di un’opera pubblica mai realizzata e da costui concretamente fatta valere in giudizio (individuata alla stregua del c.d. petitum sostanziale) ha consistenza di diritto soggettivo pieno di natura patrimoniale, attribuitagli direttamente dagli art. 46 ss. del D.P.R. n. 327 del 2001 (ma nulla sposterebbe con riguardo alla normativa previgente rispetto al ridetto Testo unico), da ritenersi indegradabile a causa dell’interposto silenzio; il suo riconoscimento, infatti, prescinde dall’intermediazione di provvedimenti amministrativi ed il relativo esercizio non è schermato da atti autoritativi bensì regolato sulla base di meri comportamenti materiali cui risulta estranea ogni forma di esercizio della funzione amministrativa e suscettivi di mero accertamento.

Sotto altro versante, al contrario, in caso di retrocessione parziale, è ammissibile l’attivazione della procedura di silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall’art. 2 della legge 21 luglio 2000 n. 205, sulla richiesta rimasta inevasa ed avente ad oggetto la pretesa alla retrocessione di fondi espropriati conseguente alla solo parziale realizzazione dell’opera pubblica programmata, sussistendo il dovere dell’amministrazione di provvedere, come è avvenuto nella vicenda qui descritta e relativa al presente contenzioso, tenuto conto che, in assenza di risposta da parte degli Enti compulsati dalla richiesta all’epoca avanzata dalle odierne ricorrenti, non può che darsi per fondata la prospettazione da queste rappresentata circa una utilizzazione parziale delle aree interessate dall’espropriazione (alcuni metri per la realizzazione di un pozzetto fognario).

D’altronde e come è noto, al fine di ritenere sussistenti i presupposti di cui al rito del silenzioinadempimento (oggi art. 21 bis L. 1971/1034) sono essenziali (ma sufficienti) i seguenti presupposti: l’interesse dell’istante al provvedimento, l’identificazione di un oggetto determinato, la competenza dell’organo adito, le altre condizioni procedimentali eventualmente previste dalla legge.

7. – L’illegittimità dell’inerzia dell’Amministrazione competente a svolgere la procedura di retrocessione in ordine all’istanza presentata dagli interessati al fine di veder affermato il proprio "diritto" alla retrocessione, nelle due formule legislativamente indicate in "totale" o "parziale", si manifesta sicuramente nella vigenza delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 327 del 2001 e ciò anche qualora si facesse applicazione del regime previgente rispetto al T.U. del 2001, atteso che:

A) in ipotesi di retrocessione totale di cui all’art. 63 della legge n. 2359 del 1865 ed oggi dell’art. 46 del D.P.R. n. 327 del 2001 – che si rinviene qualora l’area destinata all’esecuzione dell’opera pubblica prevista nella dichiarazione di pubblica utilità e nel successivo decreto di esproprio sia rimasta completamente inutilizzata per mancata totale realizzazione dell’opera quale complessivamente programmata, o qualora quest’ultima sia stata eventualmente sostituita con un’opera del tutto diversa, tale da stravolgere radicalmente l’assetto del territorio originariamente previsto – sussiste un vero e proprio diritto soggettivo del proprietario alla restituzione del bene ed azionabile dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2003 n. 4057). Sussistendo quindi, in capo agli interessati, una posizione soggettiva di diritto, non potranno trovare applicazione gli stilemi tipici dell’esercizio di potestà autoritativa da parte dell’Amministrazione coinvolta né, conseguentemente, le disposizioni della legge n. 241 del 1990 e gli strumenti di tutela ad essa connessi approntati dall’ordinamento, in primis l’azione nei confronti del silensioinadempimento;

B) nei casi retrocessione parziale e non totale (artt. 60 e 61 della legge n. 2359 del 1865 e art. 47 del D.P.R. n. 327 del 2001), in quanto si chiede di provvedere alla dichiarazione di inservibilità delle aree espropriate (nella specie ubicate nel Comune di Roma in via Flaminia Vecchia n. 829/A, distinte in catasto al foglio 235, particelle 58 e 96, di mq. 270 circa, per come documentalmente dimostrato dalle ricorrenti ed indicato nel decreto di esproprio e nel verbale di consistenza), è in relazione all’atto di diffida che si configura l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere con la conseguenza che non sono ravvisabili nella specie elementi preclusivi all’ammissibilità del ricorso.

Come è noto, infatti, in tema di espropriazione per pubblica utilità si versa nell’ipotesi di retrocessione parziale quando uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto (in tutto o in parte) la prevista destinazione; detti fondi possono essere restituiti solo se la Pubblica amministrazione abbia formalmente manifestato la volontà di non utilizzarli per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata, non essendo peraltro necessario che il relativo atto debba contenere un’espressa qualificazione di inservibilità o un riferimento agli articoli di legge.

Ciò testimonia che l’esito di retrocessione, in questo caso parziale, necessita di un preventivo procedimento che deve concludersi con un provvedimento idoneo o, al contrario, impeditivo di effettuare la retrocessione dei beni, posto che l’avviso di inservibilità è finalizzato alla retrocessione dei beni non utilizzati per la realizzazione dell’opera pubblica e che la relativa dichiarazione assolve la peculiare funzione di rendere noto, con le prescritte forma di pubblicità, l’elenco dei beni immobili (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25 novembre 2002 n. 6470).

8. – In ragione di quanto sopra, dunque, la vicenda descritta documentalmente dalle odierne ricorrenti è perfettamente sussumibile nell’alveo della previsione di cui all’art. 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241, in virtù del quale – addirittura in disparte dall’esistenza di una specifica disposizione normativa – l’obbligo di provvedere della Pubblica amministrazione rispetto ad una istanza del privato sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l’adozione di un provvedimento, cioè in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest’ultima (detto principio si trae come inevitabile precipitato di quanto affermato dal Consiglio di Stato nella nota decisione dell’Adunanza plenaria 9 gennaio 2002 n. 1).

Conseguentemente, nella specie, l’inerzia serbata dal Comune di Roma – Ente competente a chiarire se vi sono i presupposti per la retrocessione, e di quale tipo, posto che esso ha assunto la posizione di ente espropriante nella vicenda e con riferimento al decreto n. 5572 del 30 maggio 1967, mentre in essa la Regione Lazio non appare coinvolta direttamente – sulla domanda presentata fin dal 26 febbraio 1997 dalle Signore M. va dichiarata illegittima, non essendosi l’Ente locale sciolto dal vincolo obbligatorio sorto con la presentazione della suindicata richiesta (neppure con le proposte, documentate in atti, di stipulare un atto d’obbligo con le odierne ricorrenti, costituendo tale comportamento una elusione alla richiesta inoltrata dalle Signore M. e volta esclusivamente a conoscere se e in quali termini si può procedere alla retrocessione dei beni espropriati e non utilizzati dal Comune) e rispetto alla quale il Comune va condannato a provvedere con atto espresso entro il termine (ritenuto congruo dal Collegio, tenuto conto che esso dovrà essere preceduto da idonea istruttoria) di 60 (sessanta) giorni, decorrente dalla notificazione a cura di parte ricorrente o dalla comunicazione in via amministrativa, se anteriore, della presente sentenza, e con l’avviso che nell’eventualità di una persistente inadempienza, la Sezione – oltre ai seguiti previsti dalla legge per il mancato rispetto degli ordini del giudice – su istanza di parte nominerà un commissario ad acta per provvedervi successivamente all’inutile scadenza del termine qui concesso all’Amministrazione, con spese ed oneri a carico di quest’ultima. La domanda risarcitoria risulta essere, al contrario, non scrutinabile dal Collegio sia per assenza di qualsivoglia prova documentale dell’asserito danno "da disturbo" subito sia per mancanza dei presupposti per la concretizzazione, nella specie ed allo stato, di un danno "da ritardo".

Le spese del presente giudizio, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. novellato, seguono la soccombenza e vanno imputate nei confronti del solo Comune di Roma, per quanto sopra si è specificato, nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00) come da dispositivo, mentre il Collegio stima equo disporne l’integrale compensazione con riferimento alla Regione Lazio.
P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, dichiara l’obbligo per il Comune di Roma di provvedere in modo espresso e motivato (positivamente o negativamente) sulla istanza prodotta dalle ricorrenti Signore A.M. ed A.M., entro il termine di 60 giorni (sessanta), decorrente dalla notificazione a cura di parte o dalla comunicazione in via amministrativa, se anteriore, della presente sentenza, con nomina di commissario ad acta in caso di persistente inadempienza, nei termini e nei modi di cui in motivazione.

Condanna il Comune di Roma, in persona del Sindaco pro tempore, a rifondere le spese di giudizio in favore delle ricorrenti Signore A.M. ed A.M., che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.

Spese compensate nei confronti della Regione Lazio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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