Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-11-2010) 09-02-2011, n. 4690

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – La Corte di Appello di Genova, con la sentenza indicata in epigrafe, ha riformato limitatamente al trattamento sanzionatorio – ridotto ad anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione – quella del GUP del tribunale della sede, deliberata il 24 aprile 2009, che applicate le circostanze attenuanti generiche e quella del vizio parziale di mente, non operato l’aumento per la recidiva e riconosciuta la diminuente per la scelta del giudizio abbreviato, aveva condannato alla pena di anni otto di reclusione l’appellante P.A., siccome colpevole del reato di omicidio premeditato in danno di C.B. – come l’imputato, ricoverato presso l’istituto "don Orione" di (OMISSIS) – il quale, colpito il giorno (OMISSIS) con diverse coltellate in regione dorsale toracica e temporale e ricoverato presso l’ospedale (OMISSIS), era il deceduto il (OMISSIS), secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, "a causa delle lesioni subite". 1.1. – I giudici di appello, per quanto ancora interessa in questa sede, mentre hanno accolto, infatti, il motivo d’impugnazione relativo all’eccessività della pena inflitta all’imputato, hanno ritenuto infondate, invece, tutte le ulteriori censure mosse dalla difesa alla sentenza di primo grado, che riguardavano:

(a) il mancato riconoscimento dell’esimente del vizio totale di mente, espressamente escludendo che la consulenza acquisita mediante incidente probatorio, sulla quale sì fondava la decisione sul punto del giudice di prime cure, presentasse significative manchevolezze, evidenziando come il consulente, tenuto conto dell’anamnesi completa del soggetto e previo esame di tutta la documentazione clinica acquisita, avesse posto in luce, anche a seguito dei test eseguiti, "che l’imputato era fornito di un quoziente intellettivo rilevato su di una posizione rientrante nella norma", e che lo stesso aveva risposto coerentemente nel dialogo con il perito, dimostrandosi abbastanza orientato nella percezione della realtà;

(b) l’insussistenza di un nesso diretto tra le ferite inferte ed il decesso della vittima, avvenuto a distanza di tempo, precisando al riguardo che le conclusioni alle quali era pervenuto il consulente medico legale, secondo cui il decesso del C. era stato cagionato direttamente dalle ferite infette dal P. con il coltello, erano pienamente condivisibili, basandosi le stesse su dati oggettivi – quali la rilevazione sulla persona offesa di ben dodici ferite da punta e taglio, anche in patti dei corpo (quale il diaframma) difficili da raggiungere per provvedere alla loro sutura, e la presenza di lesioni dirette nei polmoni, che determinarono l’insorgere di edema polmonare e, quale conseguenza di questo, di polmonite da stasi – e su considerazioni tecnico scientifiche corrette, quali il rilievo che le complicanze nell’iter clinico (emiplegia destra da lesione ischemica in iperteso), se pur incidenti indirettamente sul piano causale nella determinazione dell’evento morte, non avrebbero dispiegato la loro influenza se il C. non avesse dovuto subire il ricovero.

2. – Avverso l’indicata sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’Imputato sviluppando due motivi impugnazione.

2.1 – Con il primo motivo, si deduce in ricorso la contraddittorietà della consulenza tecnica d’ufficio, lamentando in particolare il ricorrente che le conclusioni formulate dal consulente siano state recepite acriticamente dai giudici del merito, che hanno omesso di valutare adeguatamente: che il P. era pacificamente affetto da "psicosi schizofrenica", la quale aveva determinato una lunga storia clinica psichiatrica, caratterizzata da numerosi ricoveri presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura e in Ospedali psichiatrici giudiziari; che dall’esame medico-legale era emersa una "paranoia da vittimismo" e la totale assenza di partecipazione emotiva e di preoccupazione, durante il racconto dell’evento; che l’imputato era incapace di sviluppare atteggiamenti critici in merito alla propria condotta; che la sua pericolosltà sociale era permanente; che lo stesso non aveva consapevolezza della propria malattia; che nel marzo 2003 il P. era stato interdetto legalmente.

Tali elementi, sostiene il ricorrente, avrebbero dovuto condurre al riconoscimento del vizio totale di mente, del tutto incongruamente escluso in base al solo dato rappresentato dall’esito dei test sul grado d’intelligenza.

2.2 – Con il secondo motivo si deduce, altresì, la erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla ritenuta sussistenza del nesso eziologico fra le ferite ed il decesso della vittima, evidenziando al riguardo che il consulente tecnico, era pervenuto ad affermare l’esistenza di un collegamento tra la condotta dell’imputato e l’evento morte, applicando i criteri classici elaborati dalla dottrina medico legale -e cioè il criterio cronologico, quello topografico, quello di idoneità qualitativa e quantitativa, quello della continuità fenomenica e quello di esclusione, e che i giudici di merito, recependo le conclusione dell’indagine medico legale, non avevano adeguatamente valutato che agli esposti criteri tecnico-scentifici andava affiancato quello propriamente giuridico, della causalità adeguata, ritenuto dal ricorrente "unico ed indefettibile baluardo alla applicazione di criteri di causalità meramente oggettiva, ancorati alla esclusiva verifica della dipendenza causale fra azione ed evento (conditio sine qua non, causalità umana, regresso all’infinito)". Nel caso di specie, sostiene ancora il ricorrente, soprattutto in considerazione del fatto che la morte è sopraggiunta a distanza di due mesi dal ferimento, non a causa delle lesioni ma a seguito di complicanze ospedaliere, peraltro riconosciute dalla stesso perito medico-legale come indirette rispetto alle ferite e connesse a precedenti patologie sconosciute dal P., con evoluzione in rara ed imprevedibile complicanza (emiplegia destra da lesione ischemica in iperteso), andava ritenuto insussistente qualsiasi collegamento eziologico tra la condotta dell’imputato e l’evento morte.
Motivi della decisione

1. – L’impugnazione proposta nell’interesse di P.A. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata.

La sentenza della Corte territoriale, adeguatamente e logicamente motivata, resiste infatti a tutte le censure sviluppate in ricorso, che ripropongono, in definitiva, argomentazioni difensive che i giudici di merito hanno disatteso con argomentazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici.

2. – In particolare, con specifico riferimento alla ritenuta insussistenza di un vizio totale di mente, va qui ribadito il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui lo stabilire se l’imputato, riconosciuto affetto da infermità mentale, fosse al momento del fatto totalmente privo di capacità d’Intendere e di volere ovvero avesse tale capacità, ma grandemente scemata, costituisce una questione di fatto la cui valutazione, merce l’ausilio delle risultanze della perizia psichiatrica, compete esclusivamente al giudice di merito, il giudizio del quale si sottrae al sindacato di legittimità quante volte, anche con il solo richiamo alle condivise valutazioni e conclusioni delle perizie, divenute tuttavia consustanziali alla motivazione, risulti essere esaurientemente motivato, immune da vizi logici di ragionamento, garantito da una continua osservazione del soggetto, e conforme a corretti criteri scientifici di esame clinico e di valutazione (in termini Sez. 1, Sentenza n. 2883 del 24/1/1989, Rv. 180615 e più di recente Sez. 1, Sentenza n. 42996 del 21/10/2008, Rv. 241828);

principio questo che non vi è ragione di disattendere nel caso in esame, ove si consideri che la Corte territoriale ha spiegato in modo esauriente le ragioni per cui le conclusioni formulate nell’espletata consulenza tecnica dovevano ritenersi pienamente condivisibili, evidenziando la estrema accuratezza e completezza della acquisita relazione, pienamente aderente all’anamnesi del soggetto e frutto di una attenta e diretta disamina della personalità del P..

3. – Considerazioni non dissimili valgono anche con riferimento alla censura sviluppata in ricorso relativamente alla mancata esclusione di un nesso di causalità tra la condotta del P. (reiterati colpi di coltello inferti al C.) e l’evento morte della persona offesa.

Al riguardo è qui sufficiente ricordare come il vigente codice penale, nel regolare il rapporto di causalità, ha accolto il principio dell’equivalenza delle cause o della "condicio si ne qua non", secondo cui le cause concorrenti che siano da sole sufficienti a determinare l’evento sono, tutte e ciascuna, causa dell’evento stesso.

Ne consegue che il nesso di causalità può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma, rispetto alla quale la precedente sia da considerare "tamquam non esset" e trovi, nell’attività dello imputato, soltanto l’occasione per svilupparsi; cioè quando detta causa si trovi nella serie causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile (in termini, ex multis Sez. 5, Sentenza n. 5249 del 27/3/1991, Rv. 187142); eventualità questa esclusa dai giudici di merito, con due decisioni sintoniche ed integrate, che hanno evidenziato, per un verso, che le complicanze nell’iter clinico (emiplegia da lesione ischemica) costituivano solo una delle cause della morte del C. e che senza l’accoltellamento l’evento morte non sarebbe accaduto (criterio di esclusione).

Del tutto incongruo si rivela, in particolare, il riferimento alla teoria della causalità adeguata – in base alla quale, ai fini della sussistenza del rapporto di causalità, è necessario che l’agente abbia determinato l’evento con un’azione proporzionata, cioè adeguata – ove si consideri, per un verso, che è adeguata l’azione che in generale sia idonea a determinare l’effetto sulla base dell’"id guod plerumque accidit" (cioè in base a criteri di normalità valutati sulla base della comune esperienza) e che l’aver infetto al C., con un coltello, ben dodici ferite da punta e taglio, ubicate anche in parti del corpo difficili da saturare, non può certamente ritenersi condotta sproporzionata rispetto all’evento morte, per altro corrispondente a quello effettivamente perseguito dall’agente.

4. – Il rigetto del ricorso comporta le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *