Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 20-01-2011) 10-02-2011, n. 5037 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I.T.D. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe con cui la Corte di appello, in accoglimento del solo gravame del procuratore generale, riformava la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto lo I. colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis: per l’effetto, rideterminando inpeius la pena in conseguenza della riconosciuta (già in primo grado) applicazione della recidiva ex art. 99 c.p., comma 4.

Il ricorrente lamenta il diniego dell’attenuante della collaborazione ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, sul rilievo che il rinvenimento della droga era stato reso possibile dalle proprie dichiarazioni collaborative, non condividendo l’assunto della Corte di merito che, invece, aveva ascritto tale rinvenimento alla sola iniziativa della p.g. operante.

Lamenta, poi, il riconoscimento delle condizioni di applicabilità della recidiva, che si assume non obbligatoria anche nelle ipotesi di cui all’art. 99 c.p., comma 4.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Quanto attiene al diniego dell’attenuante della collaborazione vi è da rilevare la correttezza giuridica e l’insindacabilità dell’apprezzamento sul punto operato dal giudicante. Va ricordato, in proposito, che l’attenuante della collaborazione prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, in forza della quale sono diminuite dalla metà a due terzi le pene per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando l’autorità nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei reati, presuppone l’esistenza di un concreto e determinante contributo nel neutralizzare la produzione di nuovi danni o di ulteriori delitti come conseguenza dell’attività criminosa già posta in essere, ovvero una collaborazione con l’autorità di polizia o con quella giudiziaria che consenta a tali organi di giungere all’individuazione di grossi o abituali fornitori o alla scoperta ed alla sottrazione di importanti risorse in capitali, sostanze ed attrezzature aventi attinenza con la produzione, il traffico e l’uso di sostanze stupefacenti.

In proposito, è affermazione pacifica quella secondo cui, in tema di stupefacenti, il giudice deve riconoscere l’attenuante de qua solo in presenza di un comportamento collaborativo realmente utile ed efficiente. Deve trattarsi, cioè, di un contributo "completo", per quanto ovviamente a conoscenza del collaborante, che si sia risolto nella sottrazione all’attività criminosa di risorse (mezzi finanziari, stupefacenti, umane), anche se non necessariamente considerevoli dal punto di vista quantitativo, e che sia risultato, in concreto, "utile" e "proficuo" nel contrasto delle attività criminose presenti o future. A tal fine, il giudice deve spiegare le ragioni in forza delle quali ritenga sussistenti tali caratteristiche, soffermandosi sulle circostanze rilevanti: in primo luogo, la completezza ed esaustività della collaborazione (il dichiarante deve aver fornito tutto il suo patrimonio di conoscenze);

in secondo luogo, le risorse in concreto sottratte all’attività criminosa (sequestri di quantitativi di sostanze stupefacenti, chiamate in correità di complici, ecc); in terzo luogo, la concreta utilità per il contrasto dell’attività criminosa determinatasi a seguito del contributo collaborativo (apprezzamento particolarmente approfondito specie quando le risorse sottratte risultassero oggettivamente non considerevoli). Il giudice, invece, deve negare l’attenuante, anche qui dovendone spiegare le ragioni, specie a fronte di un’esplicita richiesta in tal senso dell’interessato, in presenza di un contributo collaborativo incompleto o, comunque, in concreto, non definibile come utile, significativo, proficuo nell’ottica del contrasto delle attività criminose (in tal senso, di recente, Sezione 4, 13 novembre 2008, Madda; nonchè Sezione 6, 19 novembre 2008, Dauta), che, così, con affermazione qui particolarmente calzante, ha ritenuto inapplicabile l’attenuante nel caso in cui la droga sequestrata all’imputato non sia rinvenuta per suo merito ed iniziativa).

La Corte di merito ha rispettato il suddetto principio e, con argomentazioni qui non censurabili nè rinnovabili in fatto, ha negato il beneficio ritenendo che il rinvenimento della droga (su cui si è soffermata la richiesta dell’imputato) non fosse stato reso possibile in modo decisivo dall’iniziativa collaborativa del medesimo, bensì fosse frutto autonomo delle indagini.

Quanto alla recidiva la sentenza di merito si è correttamente posta nel solco di quell’orientamento ormai consolidato che interpreta "secondo Costituzione" il combinato disposto dell’art. 69 c.p., comma 4, e art. 99 c.p., comma 4, affermando così che i limiti al giudizio di bilanciamento tra le circostanze eterogenee posto dalla prima disposizione, in caso di contestazione della recidiva reiterata, trovano applicazione non automaticamente, in forza di una ritenuta obbligatorietà della recidiva reiterata, ma solo nel caso in cui il giudice abbia in concreto ritenuto sussistente la recidiva, da considerare quindi come facoltativa. Secondo tale orientamento, seguito anche dalla sentenza in rassegna, sia la recidiva pluriaggravata che la recidiva reiterata, previste rispettivamente dall’art. 99 c.p., commi 3 e 4, devono ritenersi tuttora facoltative, dovendosi escludere che le modifiche introdotte dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 (la cosiddetta legge ex Cirielli) abbiano voluto ripristinare il regime di obbligatorietà della recidiva preesistente alla riforma di cui alla L. 7 giugno 1974, n. 220. L’unica ipotesi di obbligatorietà della recidiva, introdotta dalla L. n. 251 del 2005, è piuttosto quella prevista dal successivo art. 99 c.p., comma 5, laddove si prevede un caso di applicazione obbligatoria della recidiva in relazione ad uno dei reati di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a): obbligatorietà che si giustifica con riferimento ai reati contemplati nella disposizione citata, tutti particolarmente gravi, appartenenti tendenzialmente al campo della criminalità organizzata e sintomatici di un alto indice di pericolosità. Questa interpretazione, che ha ricevuto un avallo dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 14 giugno 2007 n. 192), determina, con riguardo alla recidiva reiterata, che non vi è alcun automatismo nell’applicazione dell’art. 69 c.p., comma 4, in forza del quale, in caso di recidiva reiterata, vi è divieto per il giudice, in sede di comparazione tra le circostanze eterogenee, di procedere a giudizio di prevalenza delle eventuali circostanze attenuanti. Nel senso che, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice, a fronte della contestazione della recidiva reiterata, la ritenga concretamente e motivatamente applicabile in concreto, si procederà al giudizio di bilanciamento soggetto ai limiti di cui all’art. 69 c.p., comma 4, che vietano appunto il giudizio di prevalenza delle eventuali circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata; mentre, in caso contrario, cioè qualora il giudice non ritenga sussistente la recidiva, non vi sarà spazio per alcun giudizio di comparazione, rimanendo esclusa ogni ipotesi di elisione automatica delle circostanze attenuanti.

L’apprezzamento circa le condizioni per ritenere o escludere la recidiva, deve essere effettuato, come è noto, valutando la significatività del nuovo episodio delittuoso, sotto il profilo della pericolosità dell’imputato, in relazione alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti delitti (cfr., tra le tante, Sezione 4, 2 luglio 2007, PG in proc. Farris; nonchè, Sezione 6, 25 ottobre 2007, PG in proc. Barah).

La sentenza impugnata si pone in piena aderenza a tali principi, laddove, applica l’aumento di pena per la recidiva facendo riferimento al reato commesso dall’imputato, fondante lo status di recidivante, valutandolo quale espressione di una più marcata pericolosità dello stesso.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *