Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 13-01-2011) 11-02-2011, n. 5301

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 19-10-2006 il Tribunale di Grosseto ha dichiarato S.M. colpevole del reato di cui all’art. 337 c.p., e S.P. colpevole del reato di cui all’art. 336 c.p., così riqualificati i fatti originariamente contestati ai due imputati e, concesse ad entrambi le attenuanti generiche, li ha condannati alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni morali in favore delle costituite parte civili, liquidati per ciascuna di esse in Euro 1.000,000.

Con sentenza in data 24-10-2008 la Corte di Appello di Firenze ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado nei confronti di S.M. per violazione dell’art. 521 c.p.p., ed ha ordinato la trasmissione dei relativi atti al Tribunale di Grosseto, confermando invece la decisione impugnata nei confronti di S. P..

Entrambi gli imputati hanno proposto personalmente ricorso per cassazione.

S.M., con un unico motivo, deduce che la Corte di Appello non avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e disporre la trasmissione degli atti al Tribunale, ma avrebbe dovuto dare atto della insussistenza del reato, in quanto la condotta del prevenuto è stata provocata da un comportamento arbitrario dei due pubblici ufficiali. Sostiene, infatti, che questi ultimi, in occasione dell’accertamento effettuato, hanno tenuto un comportamento estremamente arrogante e vessatorio, fino a procedere, per due violazioni di scarsissima rilevanza alla normativa che regola l’attività di pesca, alla ispezione del baule della macchina del M., della busta in cui erano contenuti cibi e delle borse personali delle due donne presenti. Nella specie, pertanto, secondo il ricorrente, trova applicazione la scriminante speciale prevista dal D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4; il che impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

S.P., con un primo motivo, lamenta l’erronea applicazione dell’art. 336 c.p., e l’illogicità della motivazione. Sostiene che l’unico teste che ha riferito in ordine al contenuto della telefonata oggetto della contestazione è la persona offesa Si., in quanto il teste D., che era in macchina con quest’ultimo al momento della comunicazione telefonica, non è stato in grado di riferire le parole pronunciate dall’imputato. Orbene, a prescindere dalla credibilità della persona offesa, dalle dichiarazioni della stessa rese emerge che la minaccia proferita non era diretta a strappare il verbale e, quindi, a costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario al suo ufficio. Nella specie, di conseguenza, non sussiste il reato di cui all’art. 336 c.p..

Con un secondo motivo il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della scriminante prevista dal D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4, proponendo censure identiche a quelle formulate da S. M..
Motivi della decisione

1) Il ricorso proposto da S.M. è inammissibile per carenza dell’interesse ad impugnare richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4.

La Corte di Appello, nel rilevare che il giudice di primo grado non si è limitato a dare all’imputazione una diversa qualificazione giuridica, ma ha sostanzialmente modificato la condotta descritta nel decreto di citazione, pronunciando condanna per un fatto diverso da quello originariamente contestato, in accoglimento dello specifico motivo di gravame proposto dall’appellante ha annullato la sentenza di primo grado e disposto la trasmissione degli atti al Tribunale di Grosseto.

Orbene, appare evidente che l’imputato non può ritenersi portatore di un interesse concreto e attuale all’impugnazione di una pronuncia che egli stesso aveva espressamente sollecitato e che, attraverso la rimozione dal mondo giuridico della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal giudice di primo grado, ha evitato il passaggio della stessa in giudicato. E’ intuitivo, al contrario, che le questione di merito prospettate nel ricorso potranno essere fatte valere dall’imputato nel nuovo giudizio, nell’ambito del quale il medesimo avrà ampia possibilità di difesa.

2) Il primo motivo di ricorso proposto da S.P. è inammissibile.

La Corte di Appello, con motivazione esente da palesi vizi logici, ha ritenuto attendibili, in quanto circostanziate e coerenti, le dichiarazioni rese dalla persona offesa Si., dalle quali si evince che l’imputato, il 23-5-2004, chiamò sul cellulare il predetto teste chiedendogli di strappare i verbali di contravvenzione redatti il giorno precedente a carico del figlio M. e che, all’obiezione del Si. di non poter sopprimere un atto pubblico, replicò che la guardia era folle, che l’avrebbe rovinata, che l’avrebbe fatta ammazzare. Siffatte dichiarazioni, secondo i giudici di merito, hanno ricevuto riscontro nella deposizione del teste D., il quale, trasportato in auto dal Si. al momento della telefonata del S., ha ricordato che nel corso del colloquio il Si. aveva risposto con tono fermo all’interlocutore che mai avrebbe potuto strappare un verbale compilato e, al termine della conversazione, si era mostrato notevolmente a disagio; il che, come è stato evidenziato nella sentenza di primo grado, la cui motivazione si integra e si salda con quella di appello, viene a smentire in modo perentorio la versione difensiva, secondo cui l’imputato non avrebbe mai chiesto al pubblico ufficiale la soppressione del verbale.

La condotta dell’imputato, come sopra ricostruita, è stata correttamente ricondotta dai giudici di merito nel paradigma del reato previsto dall’art. 336 c.p., essendo evidente che le minacce rivolte per telefono dal S. erano dirette a costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai suoi doveri di ufficio, quale quello di sopprimere un atto pubblico.

Ciò posto, si osserva che il ricorrente, attraverso la formale denuncia di violazione di legge e vizi di motivazione, mira sostanzialmente ad ottenere una rivisitazione del materiale probatorio, di cui offre una interpretazione alternativa rispetto a quella compiuta dalla Corte di Appello.

Ma, come è noto, esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di procedere a una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30-4-1997 n. 6402); nè il giudice di legittimità può sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, in quanto il suo compito è solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. Sez. Un. 29-1-1996 n. 930).

2) Analoghe considerazioni valgono con riferimento al secondo motivo del ricorso in esame.

Il giudice del gravame, con motivazione esente da macroscopiche incongruenze logiche, ha escluso che, in occasione dei fatti per cui si procede, i due pubblici ufficiali abbiano tenuto un comportamento arbitrario, dando atto che la diligenza dai predetti mostrata nell’accertamento dei fatti e nella ricerca del materiale di pesca vietato non prevaricò nè sulle condizioni psicofisiche degli astanti nè sulla libera accettazione degli stessi di mostrare i contenitori di cui erano in possesso. In modo del tutto corretto e consequenziale, pertanto, nella specie è stato negato all’imputato il riconoscimento dell’invocata scriminante di cui al D.Lgs. n. 2688 del 1944, art. 4.

Orbene, il ricorrente, nell’insistere nel sostenere di aver reagito ad atti vessatori ed arbitrari dei pubblici ufficiali, propone ancora una volta sostanziali censure di merito, con le quali mira ad ottenere una rinnovata valutazione delle emergenze processuali, non consentita in questa sede.

4) Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo fissare per ciascuno di essi in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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