Cons. Stato Sez. VI, Sent., 09-02-2011, n. 868

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso di primo grado, era stato chiesto dall’odierno appellato l’annullamento dell’ingiunzione resa in data 21 febbraio 1989 dal Capo del Compartimento Marittimo di Reggio Calabria, con la quale gli era stato ingiunto di sgomberare, entro sessanta giorni dalla notifica dell’atto, un porzione di metri quadri tremilatrecento di suolo demaniale marittimo in località Caulonia (foglio 116, particella 76), occupato mediante un manufatto di metri quadri centosessanta in blocchi di cemento, adibito a bar e a deposito, una piattaforma in cemento con copertura in canne e una recinzione metallica con pali in cemento.

L’odierno appellato era insorto lamentando che il suolo in oggetto (la particella 76 del foglio di mappa 116 del Comune di Paulonia) risultava, in realtà, diviso in due parti e che la parte nella propria disponibilità non era adibita a spiaggia (era invece classificata come verde pubblico attrezzato nel programma di fabbricazione).

Ad avviso dell’interessato, il provvedimento impugnato si sarebbe fondato sull’erroneo presupposto che il terreno oggetto dell’ingiunzione dovesse interamente considerarsi come suolo demaniale marittimo, mentre al contrario, come risulterebbe da certificazioni del Sindaco depositate in atti, parte del terreno rientrerebbe nel patrimonio disponibile dello Stato.

Egli ha pertanto chiesto l’accertamento della "inefficacia" dell’ingiunzione del Capo del Compartimento Marittimo di Reggio Calabria.

Il primo giudice ha ritenuta la superfluità di ogni eventuale istruttoria ed ha accolto il ricorso.

In particolare, il TAR ha preso atto della circostanza che, con certificazioni in data 17 aprile 1984 e 28 marzo 1985, il Sindaco del Comune di Caulonia aveva attestato che la particella n. 76 del foglio di mappa n. 116 del Comune, di proprietà del demanio dello Stato, risultava divisa in due parti, in senso longitudinale: una prima parte era costituita dal lungomare (e rientrava nell’ambito del demanio marittimo), mentre una seconda parte risultava classificata come verde pubblico attrezzato nel vigente programma di fabbricazione.

Quest’ultima non poteva, quindi, considerarsi suolo demaniale marittimo ai sensi degli articoli 28 del codice della navigazione e 822 del codice civile.

Secondo il Tribunale amministrativo regionale, infatti, il carattere di bene demaniale o patrimoniale doveva attribuirsi in seguito all’oggettivo acquisto o alla oggettiva perdita degli attributi propri del bene (in quanto l’atto amministrativo, con cui la demanialità viene riconosciuta o negata, svolge una funzione meramente dichiarativa).

Ad avviso del TAR, ne conseguiva che il mutamento dello Stato dei luoghi risultava idoneo a mutare il regime giuridico dei beni senza che fosse necessario un atto amministrativo specifico e che nessun rilievo assumeva la questione della disapplicazione di atti amministrativi che avessero dichiarato o negato la demanialità di un bene.

Il Tribunale amministrativo regionale ha altresì rilevato che il provvedimento impugnato non abrebbe tenuto conto del fatto che l’area in questione era, in parte, destinata a verde pubblico attrezzato e non poteva quindi considerarsi demaniale (non era chiaro, peraltro, se le opere in esame -manufatto in blocchi di cemento, piattaforma in cemento con copertura, recinzione metallica, pali in cemento, piantagione- ricadessero interamente nell’area destinata a verde attrezzato, ovvero occupassero in parte l’area da considerarsi come suolo demaniale marittimo).

Il Tribunale amministrativo regionale ha pertanto annullato il provvedimento impugnato nei limiti in cui lo stesso aveva ingiunto lo sgombero dell’area demaniale abusivamente occupata in relazione all’ area destinata a verde pubblico attrezzato, mantenendo fermo l’obbligo dell’appellato di disporre lo sgombero nei limiti in cui le opere in questione ricadevano nell’area effettivamente appartenente al demanio marittimo.

Con l’appello in esame, il Ministero delle infrastrutture ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe, chiedendone la riforma: a suo avviso l’impugnata decisione ha travisato i fatti di causa, ricavando dalla certificazione rilasciata dal Sindaco di Caulonia (attestante che la particella n. 76 del foglio di mappa n. 116 del Comune, di proprietà del demanio dello Stato, risultava divisa in due parti, in senso longitudinale) l’erroneo convincimento che soltanto la parte costituita dal lungomare rientrasse nell’ambito del demanio marittimo (mentre una seconda parte risultava classificata come verde pubblico attrezzato nel vigente programma di fabbricazione).

Al contrario, il Ministero ha rilevato che l’intera particella n. 76 del foglio di mappa 116 del Comune di Caulonia costituiva area demaniale marittima, abusivamente occupata per una estensione pari a mq 2365 dall’odierno appellato.

La classificazione impressa all’area dall’amministrazione comunale (verde pubblico attrezzato) comunque andrebbe considerata illegittima e collidente con le previsioni dell’art. 822 del codice civile e dell’art. 28 del codice della navigazione.

D’altro canto l’appellato era stato condannato in passato per il reato di cui all’art. 55 del codice della navigazione ed aveva ammesso di avere abusivamente occupato l’area in questione.
Motivi della decisione

1. L’appello è fondato e merita di essere accolto, con conseguente riforma dell’appellata decisione e l’integrale reiezione del ricorso di primo grado.

Deve in proposito rammentarsi che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ancora di recente affermato il principio per cui la sdemanializzazione tacita deve risultare da comportamenti univoci e concludenti da cui emerga con certezza la rinuncia alla funzione pubblica del bene, che va accertata con rigore, e che siano coincidenti ed incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene stesso all’uso pubblico; di conseguenza essa non può desumersi dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia adibito, anche da lungo tempo, all’uso pubblico (Consiglio Stato, sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6095).

Tale giurisprudenza è coerente con quella della Corte di Cassazione, per la quale l’ordinamento non prevede ipotesi di "sdemanializzazione tacita" del demanio marittimo, attuabile solo in forma espressa mediante uno specifico provvedimento di carattere costitutivo da parte dell’autorità amministrativa competente.(Cassazione penale, sez. III, 21/05/2009, n. 25165; Cassazione civile, sez. II, 11 maggio 2009, n. 10817).

L’appellata decisione pertanto, non è condivisibile, non soltanto laddove rinviene indici di una avvenuta sdemanializzazione per facta concludentia della quale non v’è alcuna traccia processuale (se non comportamenti comunque abusivi dell’appellato), ma anche laddove pare far dipendere la sopradetta sdemanializzazione dalla volontà provvedimentale del Comune, che non ne è proprietario e non può in alcun modo disporre del bene.

Da un lato, questo Collegio ritiene di ribadire che non comporta alcuna "sdemanializzazione" il prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell’amministrazione titolare del bene demaniale (tanto meno quando sia stato commesso un abuso da parte dell’occupante abusivo, la cui condotta costituisce un illecito permanente non solo ai fini penali, ma anche ai fini amministrativi).

Dall’altro, le previsioni urbanistiche (a parte l’inderogabile principio per cui esse possono incidere sulla destinazione di un bene demaniale solo ove sia raggiunta l’intesa con lo Stato, come affermato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 novembre 1985, n. 286) riguardano unicamente le possibili utilizzazioni dell’area sotto il profilo urbanistico, ma non incidono in alcun modo sulla perduranza della natura demaniale del bene e sull’ambito dei poteri di autotutela spettanti alle autorità statali.

2. L’appello risulta pertanto fondato e va accolto, sicché – in riforma della sentenza gravata – il ricorso di primo grado va integralmente respinto.

Le spese e gli onorari dei due gradi del giudizio seguono la soccombenza e pertanto l’appellato deve essere condannato al loro pagamento in favore di parte appellante, in misura che appare congruo quantificare, avuto riguardo alla natura della controversia, in Euro duemila (Euro 2.000/00) oltre accessori di legge se dovuti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, n. 2373 del 2005 come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza del TAR per la Calabria, respinge il ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese e degli onorari dei due gradi del giudizio nella misura di Euro duemila (Euro 2000/00) oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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