Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 02-12-2010) 11-02-2011, n. 5284

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 04.11.2008 la Corte d’appello di Firenze confermava la penale responsabilità di:

– Z.G. e M.D. per il reato di cui all’art. 374 bis c.p., perchè, al fine di ottenere vantaggi nel regime detentivo del primo, rendevano, in sei circostanze, false attestazioni redatte dal secondo, medico oculista, circa il suo stato di salute;

– dello Z., altresì, per il reato ex artt. 477 e 482 c.p., per avere materialmente alterato la scheda sanitaria redatta dal Dott. I.U. e dalla D.ssa L.F., cancellando l’esito della valutazione del "visus" e inserendo invece l’indicazione "motu proprio".

Propongono ricorso i prevenuti.

Z. deduce:

– violazione di legge in relazione agli episodi di cui ai nn. da 1 a 4 dell’imputazione ex art. 374 bis c.p., consistenti sostanzialmente in valutazioni mediche, non riconducibili, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, alle fattispecie (certificazioni o attestazioni) disciplinate dalla predetta norma;

– violazione di legge in relazione agli episodi di cui ai nn. 5 e 6 dell’imputazione ex art. 374 bis c.p., stante l’irrilevanza e la sostanziale inoffensività dei falsi ivi contestati;

– vizio di motivazione in relazione agli episodi di cui ai nn. da 1 a 4 dell’imputazione ex art. 374 bis c.p., stante il carattere indiretto e non collusivo del parere di cui al n. 1 e la natura valutativa degli altri pareri, nonchè la conformità di tutti i predetti pareri ad altre risultanze tecniche;

– vizio di motivazione in relazione all’imputazione ex artt. 477 – 482 c.p., non avendo la sentenza impugnata risposto all’obiezione circa la non attribuibilità della natura certificativa al documento alterato.

M. deduce:

– la nullità del giudizio di appello, per la notifica del relativo decreto di citazione al difensore già rinunciante al mandato;

– violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al reato ex art. 374 bis c.p., ritenuto sussistente, in via generale, in contrasto con la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e, in particolare, quanto agli episodi di cui ai nn. da 1 a 4, attraverso una inaccettabile estensione della fattispecie incriminatrice anche alle "valutazioni" e nonostante la sostanziale conformità di queste ad altre risultanze e, in specie, a quelle della perizia d’ufficio, e, quanto agli episodi di cui ai nn. 5 e 6, senza una pertinente ed esaustiva risposta alle prospettazioni alternative offerte dalla difesa.
Motivi della decisione

Per quanto concerne l’eccezione processuale sollevata da M., si osserva che, a sensi dell’art. 107 c.p.p., comma 3, la rinuncia del difensore al mandato non ha effetto finchè la parte non risulti assistita da un nuovo difensore di fiducia o da un difensore d’ufficio e non sia decorso l’eventuale concessione del termine a difesa richiesto nell’interesse del nuovo difensore. Ne consegue che, non essendosi, prima della notifica del decreto di citazione, provveduto a una nuova nomina, nè di fiducia nè d’ufficio, il difensore rinunciante era ad ogni effetto titolare della difesa e legittimamente, dunque, fu destinatario della notifica suddetta. L’imputato, d’altronde, avuta notizia dell’udienza d’appello e prima della sua celebrazione, provvide alla nomina di un nuovo difensore, che fu presente all’udienza stessa (che era fra l’altro udienza camerale), onde nessun concreto pregiudizio è derivato all’esercizio delle facoltà difensive dell’imputato dalla situazione descritta, neppure in riferimento alla circostanza, denunciata in ricorso, della mancata tempestiva nomina di un difensore d’ufficio dopo la rinuncia al mandato da parte del precedente difensore.

Venendo ai motivi attinenti al delitto di cui all’art. 374 bis c.p., deve ricordarsi che, secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Cass. 6^, sent. 3446 del 5.12.95, PM in proc. Pannain;

Cass. 6^, sent. 1749 del 12.5.1999, PM in proc. Abbate), la fattispecie di cui all’art. 374 bis c.p., si riferisce a due specifiche attività documentative ("dichiarare" e "attestare") e a due specie di documenti ("certificati" e "atti"): con il certificato si dichiarano dati, fatti, situazioni, di cui si ha cognizione "aliunde"; con l’atto si attestano fatti compiuti da chi attesta o avvenuti in sua presenza, ovvero dichiarazioni da lui ricevute; in entrambi i casi l’attività è di natura documentativa. Ne consegue, in relazione alla consulenza tecnica "di parte", che nella componente in cui dichiari o attesti dati, qualità, condizioni, essa ha natura certificativa o attestativa e, pertanto, ove li riporti in modo difforme dal vero, ricade nella previsione della norma incriminatrice di cui all’art. 374 bis c.p.; per la parte, invece, nella quale svolga valutazioni e formuli pareri e giudizi, non vi rientra proprio perchè non può essere compresa nel novero dei "certificati" e degli "atti". Conseguentemente devesi escludere l’ipotizzabilità del delitto in questione, ogniqualvolta possa ritenersi che il medico consulente di parte non abbia certificato dati clinici non veri o attestato condizioni inesistenti, ma abbia operato delle valutazioni relative alla gravità delle condizioni morbose del soggetto esaminato, traendone ad es. un giudizio di incompatibilità con il regime carcerario. Gli argomenti addotti dalla Corte di merito a sostegno della ritenuta sussistenza del reato non appaiono conformi ai principi suddetti relativamente agli episodi di cui ai nn. da 1 a 4 dell’imputazione ex art. 374 bis c.p..

Benchè, infatti, in tal caso le contestazioni recate dal capo d’imputazione facciano evidente specifico riferimento, quanto alla condotta del consulente, a operazioni di tipo valutativo (relative al livello di gravità e del rischio di aggravamento della patologia oculare del soggetto e alla conseguente necessità di controlli particolarmente assidui), il giudice di merito ha ritenuto che, risultando dal complessivo contesto della vicenda un uso dell’arte medica fuoriuscente dai doverosi canoni di "scienza e coscienza", ciò basterebbe a integrare condotta punibile a sensi della norma incriminatrice in esame. Una tale dilatazione dell’ambito applicativo di questa, con la sostanziale estensione della relativa portata alle operazioni di apprezzamento e giudizio, supera chiaramente i confini di una legittima interpretazione estensiva, in quanto vanifica, in contrasto col principio di legalità, il requisito della natura dichiarativa o attestativa che caratterizza – giusta quanto sopra osservato – la condotta sanzionata. Quando il legislatore, per le attività in cui possono contestualmente intervenire sia constatazioni che pareri, ha inteso conferire rilevanza penale, in caso di "devianza", a entrambi tali profili, lo ha detto in modo chiaro e inequivoco, come dimostra la previsione di cui all’art. 373 c.p., che – è il caso qui di sottolineare – non può mai riguardare figure nominate dalla parte privata. Diverso è il discorso per gli episodi di cui ai nn. 5 e 6 della stessa imputazione. Al riguardo vengono in rilievo delle vere e proprie false attestazioni concernenti interventi terapeutici non effettuati e nessun dubbio può quindi sorgere sulla configurabilità del reato ascritto. Quanto alla concreta sussistenza dei falsi de quibus, la stessa risulta dalla congiunta lettura delle sentenze di merito e, in particolare, dall’analitica ricostruzione dei fatti compiuta dal primo giudice. Il contenuto di alcune conversazioni, riportato anche dal giudice d’appello, e la non emersione da esse di alcun elemento indicativo degli episodi di sofferenza acuti oggetto degli interventi attestati tolgono ogni dubbio al riguardo, rendendo priva di rilievo la generica doglianza del M. circa la mancata risposta alle sue prospettazioni (basate su mere ipotesi) di una ricostruzione diversa dei fatti.

La tesi poi della innocuità dei falsi, genericamente sostenuta dallo Z., è smentita dalle finalità (risultanti dagli elementi suddetti) cui erano destinati, il cui perseguimento è sufficiente per l’integrazione del reato, indipendentemente dal concreto risultato raggiunto.

Quanto infine al reato ex artt. 477 e 482 c.p., è senz’altro da respingere la tesi (assertivamente sostenuta dalla difesa) della natura privata, tipo promemoria, della scheda sanitaria alterata, non potendo dubitarsi – come già esaustivamente chiarito dal primo giudice – della sua natura di certificato, in quanto documento riportante una serie di dati clinici derivanti dall’esecuzione di esami diagnostici e valutazioni mediche, datato e sottoscritto dal sanitario pubblico, che se ne è in tal modo assunta la paternità e la responsabilità, con i conseguenti effetti probatori, in ragione dei quali del resto l’imputato ne ha fatto concreto utilizzo.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle imputazioni di cui al capo A), nn. 1, 2, 3 e 4, con rinvio al giudice di merito per la rideterminazione della pena, essendo stata la stessa determinata dal giudice d’appello in riferimento al capo A) (assunto anche come reato più grave nei confronti dello Z.) comprensivo, oltre che delle imputazioni nn. 5 e 6, anche di quelle oggi annullate.
P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e 620 c.p.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle imputazioni di cui al capo A), nn. 1,2, 3 e 4 perchè il fatto non sussiste e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze per la rideterminazione della pena.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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