Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-03-2011, n. 6981 Comunione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 635/01 il Tribunale di Vigevano, sez. stralcio, respingeva la domanda proposta da G.V. e S. B. contro B.G. e B.I. e condannava gli attori ad arretrare sul confine quella parte di edificio edificata sul mapp. 219 dei convenuti ed alle spese.

Il giudizio era stato introdotto per il ripristino di una corte comune abusivamente occupata e modificata dai convenuti che, invece, avevano dedotto la loro esclusiva proprietà.

Nel corso del giudizio, a seguito del decesso del G. e del B., erano subentrati quali eredi i figli G.F., G. e B.C.. La sentenza, impugnata da G. F. e S.B., nella resistenza di B.I., G. e B.C., veniva riformata dalla Corte di appello di Milano, con sentenza 104/05. che accertava l’illegittima violazione del diritto di comunione e condannava gli appellati al ripristino dello stato preesistente ed alle spese del grado, sul presupposto che il Tribunale aveva disatteso gli esiti della ctu, che aveva affermato la comunione del bene, affermando, invece, la esclusiva proprietà dei convenuti sulla base di una motivazione non condivisibile, in particolare non poteva condividersi l’affermazione del primo Giudice, secondo la quale la dante causa dei G. – S. "La Fratellanza s.a." non avrebbe potuto trasferire alcun diritto di comproprietà sulla corte in questione, risultando dalla documentazione che con due atti di pari data, 27.4.1970, aveva alienato il mappale 224 agli appellati ed il confinante mappale 220 agli appellanti, disponendo della propria quota di comproprietà sulla corte comune a favore dei mappali ceduti. Non era decisivo che nella divisione del 1922 il mappale 219 sia indicato come comune ai soli mappali 223, 224 e 579 a fronte del successivo atto di disposizione della quota di comproprietà.

Ricorrono i B. e la B.I. con tre motivi, resistono le controparti.
Motivi della decisione

Col primo motivo si denunziano vizi di motivazione e violazione degli artt. 1100 e 1103 c.c. in ordine al regime della comunione, limitandosi la sentenza ad affermazioni categoriche ed arbitrarie in contrasto con quella di primo grado che meritava conferma.

Col secondo motivo si deducono vizi di motivazione e violazione dell’art. 818 c.c. in ordine al regime delle pertinenze, non essendovi stata alcuna limitazione od esclusione del vincolo pertinenziale nell’atto di cessione del bene principale. Col terzo motivo si lamentano vizi di motivazione in ordine alla data di realizzazione del manufatto esistente sul sedime e violazione degli artt. 2934 e 1165 c.c..

Le censure, a prescindere dalla contestuale deduzione di vizi di motivazione e di violazione di norme di diritto, in contrasto con la necessaria specificità del motivo (Cass. 251.11.2008 n. 28066), non tengono conto della circostanza che la corte di appello è pervenuta alla decisione impugnata sulla scorta della ctu ma, soprattutto, di attività interpretativa dei titoli, con la conseguenza che andava formulata rituale impugnazione in relazione ai criteri ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c..

In particolare non risulta compiutamente censurata la deduzione di pagina nove della sentenza: Al momento della vendita "La fratellanza s.a. di mutuo soccorso" aveva i diritti di comproprietà della corte da epoca ultraventennale, per possesso incontestato e ininterrotto, e, comunque, in conformità agli stessi titoli di comproprietà. E quindi aveva pieno titolo di trasferire e di far subentrare ciascuno degli acquirenti nella medesima posizione dalla stessa occupata ( art. 1103 c.c.).

Il fatto che nell’atto di divisione del 1922 il mappale 219 sia indicato come comune solo ai mapp. 223, 224 e 579 non è decisivo a fronte del successivo atto di disposizione della quota di comproprietà legittimamente effettuato dalla alienante, nella qualità di titolare della quota oggetto di disposizione".

Ne consegue che i ricorrenti avrebbero dovuto prospettare ogni questione al riguardo, anzi tutto, in relazione all’attività ermeneutica posta in essere dal giudice a quo, relativamente a ciascuno degli atti presi in considerazione nella motivazione della sentenza, con puntuale riferimento ai singoli criteri legali d’ermeneutica contrattuale, e solo successivamente, una volta idoneamente dimostrato l’errore nel quale fosse eventualmente incorso al riguardo il detto giudice, avrebbero potuto procedere ad un’utile prospettazione delle ulteriori questioni d’erronea od inesatta applicazione d’altre norme ed istituti, dacchè la disamina di tali questioni presuppone l’intervenuto accertamento dell’errore sull’interpretazione della volontà negoziale delle plurime parti alle quali è fatto riferimento in ricorso, e non può, pertanto, aver luogo ove manchi siffatto previo accertamento d’un vizio che inficerebbe, sul punto, ab origine l’impugnata pronunzia, costituendo tale interpretazione il presupposto logico – giuridico delle conclusioni alle quali il giudice del merito è pervenuto poi sulla base di essa (Cass. 21.7.03 n. 11343, 30.5.03 n. 8809, 28.8.02 n. 12596).

E’ ben vero che i ricorrenti hanno inteso in qualche modo censurare la valutazione degli atti de quibus effettuata dal giudice a quo ed hanno, all’uopo, svolto argomenti in senso contrario, tuttavia, quand’anche vi si volesse ravvisare una, se pure irrituale, denunzia d’errore interpretativo, questa sarebbe, comunque, inidoneamente formulata ed insuscettibile d’accoglimento.

L’opera dell’interprete, infatti, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c. e segg., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come già visto, fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).

Nè può utilmente invocarsi, come sembra dai ricorrenti, la mancata considerazione del comportamento delle parti.

Ad ulteriore specificazione del posto principio generale d’ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, il legislatore ha, inoltre, attribuito, nell’ambito della stessa prima categoria, assorbente rilevanza al criterio indicato nell’art. 1362 c.c., comma 1 – eventualmente integrato da quello posto dal successivo art. 1363 c.c. per il caso di concorrenza d’una pluralità di clausole nella determinazione del pattuito – onde, qualora il giudice del merito abbia ritenuto il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti, eventualmente confrontato con la ratio complessiva d’una pluralità di clausole, idoneo a rivelare con chiarezza ed univocità la comune volontà degli stessi, cosicchè non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti – ciò che è stato fatto nella specie dalla corte territoriale, con considerazioni sintetiche ma esaustive – detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2 che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione (Cass. 4.8.00 n. 10250, 18.7.00 n. 9438, 19.5.00 n. 6482. 11.8.99 n. 8590. 23.11.98 n. 11878, 23.2.98 n. 1940, 26.6.97 n. 5715, 16.6.97 n. 5389); non senza considerare, altresì, come detto comportamento, ove trattisi d’interpretare, come nella specie, atti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non possa, in ogni caso, evidenziare una formazione del consenso al di fuori dell’atto scritto medesimo (Cass. 20.6.00 n. 7416, 21.6.99 n. 6214, 20.6.95 n. 6201, 11.4.92 n. 4474).

E’ inoltre, necessario rilevare, sia pur solo ad abundantiam, come nel motivo in esame, con il quale s’imputa di fatto alla corte territoriale l’erronea interpretazione di più interconnesse convenzioni intervenute tra le parti, non siano ritualmente riportati i testi delle stesse, la correttezza o meno della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare, ciò che costituisce un’ulteriore ragione d’inammissibilità del motivo, giacchè, in violazione dell’espresso disposto dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, non vi si riportano proprio quegli elementi di fatto in considerazione dei quali la richiesta valutazione, sia della conformità a diritto dell’interpretazione operatane dalla corte territoriale, sia della coerenza e sufficienza delle argomentazioni motivazionali sviluppate a sostegno della detta interpretazione, avrebbe dovuto essere effettuata, in tal guisa non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale(e pluribus, da ultimo, Cass. 9.2.04 n. 2394. 5.9.03 n. 13012, 6.6.03 n. 9079, 24.7.01 n. 10041, 19.3.01 n. 3912, 30.8.00 n. 11408. 13.9.99 n. 9734, 29.1.99 n. 802); non senza considerare, altresì, come l’impossibilità di rapportare le svolte censure in tema d’interpretazione della volontà negoziale delle parti all’esatto dato testuale nel quale quella volontà si è tradotta, ovviamente non surrogabile dalla lettura soggettiva datane dalla parte, comporti anche una violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4 sotto il diverso profilo del difetto di specificità del motivo. In mancanza, dunque, d’un’adeguata impugnazione, nei sensi indicati, dei giudizi espressi dalla corte territoriale in ordine agli atti ed ai rapporti con gli stessi regolati, resta ineccepibile il consequenziale riconoscimento da parte dello stesso giudice della ricorrenza nella specie del presupposto di fatto legittimante la riforma della prima decisione, giudizio operato in conformità ai fondamentali criteri legali d’interpretazione dettati dall’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, e nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito, a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune da censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalle norme stesse.

Quanto, poi, al vizio di motivazione, denunziato in tutti i motivi, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s’imputino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 debba essere intesa a far valere, a pena d’inammissibilità comminata dall’art. 366 c.p.c., n. 4 in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa;

diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quello in esame – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè può imputarsi al detto giudice d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti – come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie – da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.

Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, nè nel loro complesso nè nelle singole considerazioni, a censurare le rationes decidendi dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensì a supportare una generica contestazione con una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a quo e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ciò che non soddisfa affatto alla prescrizione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto si traduce nella prospettazione d’un’istanza di revisione il cui oggetto è estraneo all’ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni. in ogni caso, appaiono nuove od ipotetiche le censure di cui al secondo motivo mentre, relativamente al terzo, la sentenza, alle pagine nove e dieci, nell’accogliere la domanda di condanna al ripristino del cortile nello stato in cui era nel 1970, ha statuito che le costruzioni realizzate dagli appellati erano successive a tale data (vedi denunce di costruzione del 1971, doc. 8 e 9 parte appellante) e, quindi, illegittime, in quanto in violazione dei diritti degli appellanti e non coperte da usucapione, in quanto la causa era stata iniziata nel 1989.

Tale deduzione viene genericamente contestata con l’asserita inidoneità dei documenti ed il richiamo alla ctu che avrebbe affermato l’esistenza della costruzione da oltre un ventennio, senza considerare che l’elaborato può descrivere i luoghi ma non determinare con esattezza l’anno di edificazione di un manufatto e senza superare l’affermazione del controricorrente che la perizia è del 2001 e, quindi, non contrasta con l’affermazione della sentenza di una costruzione successiva al 1970.

La censura non è, peraltro, autosufficiente nè da prova di una costruzione risalente al 1955.

Donde il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in Euro 2200,00, di cui 2000,00 per onorari, oltre accessori.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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