Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 27-01-2011) 14-02-2011, n. 5417 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

. IZZO Gioacchino che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo

La Corte di appello di Milano, con decreto in data 12 maggio 2010, confermava il decreto del Tribunale di Milano – sezione misure di prevenzione – in data 30 settembre 2009, impugnato da C. A., nella qualità di amministratore unico della società Sci Zanoro con il quale veniva respinta l’istanza di revoca della confisca, di cui al decreto del Tribunale di Milano, in data 17 marzo 2006, dell’immobile denominato "Villa Kismet", formalmente intestato alla Sci Zanoro, sul presupposto della sua riferibilità al patrimonio di P.G..

Proponeva ricorso per cassazione il difensore del C., quale amministratore unico della Sci Zanoro, deducendo i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per violazione di legge, in relazione alla L. n. 55 del 1990, art. 14 e della L. n. 1423 del 1956, art. 1, nn. 1 e 2, non potendo applicarsi la confisca essendo venuti meno i presupposti per ritenere il P. soggetto socialmente pericoloso, a seguito delle archiviazioni di due procedimenti penali, non potendo qualificarsi l’attività del predetto quale "usuraria" e non potendo farsi luogo a confisca in mancanza di un’attività delittuosa che integri una delle figure di reato previste dalla L. n. 575 del 1965, art. 1, soggetta alla L. n. 1423 del 1956, art. 1, commi 1 e 2, in mancanza di accertamento che bene sia provenuto di tali reati, commessi prima dell’acquisizione del bene.
Motivi della decisione

1) Lamenta, sostanzialmente, il ricorrente,che avrebbe dovuto essere accertata una pericolosa specifica e qualificata di P. G., in base alle disposizioni richiamate, con la relativa dimostrazione dell’utilizzo dei proventi dell’usura per l’acquisto del bene confiscato e non, invece, una generica pericolosità dovuta a frequentazioni di personaggi appartenenti a compagini di tipo mafioso, così come ritenuto dalla Corte territoriale. Va, preliminarmente, rilevato che in tema di misure di prevenzione patrimoniali, l’abrogazione della norma derogatoria di cui alla L. n. 55 del 1990, art. 14, disposta dal D.L. n. 92 del 2008, art. 11-ter, conv. in L. n. 125 del 2008, ha determinato la riespansione dell’area di operatività della L. n. 152 del 1975, art. 19, comma 1, e, per l’effetto, l’estensione delle disposizioni della L. n. 575 del 1965 (cosiddetta pericolosità "qualificata") alle persone indicate nella L. n. 1423 del 1956, art. 1, nn. 1 e 2, (cosiddetta pericolosità "generica"), che siano dedite a traffici delittuosi o che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, senza che rilevi l’elencazione anelastica e restrittiva degli specifici reati indicati dalla disposizione abrogata. (Sez. 1, Sentenza n. 8510 del 05/02/2009 Cc. (dep. 25/02/2009) Rv. 244399;

Sez. 2, Sentenza n. 33597 del 14/05/2009 Cc. (dep. 01/09/2009) Rv.

245251).

In attuazione di tale orientamento si è affermato, da parte delle Sezioni Unite, che il rinvio enunciato dalla L. n. 152 del 1975, art. 19, comma 1, (disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) non ha carattere materiale o recettizio, ma è di ordine formale nel senso che, in difetto di una espressa esclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell’atto-fonte, in sostituzione, modificazione o integrazione di quelle originarie; ne consegue che, accanto alle misure di prevenzione personali, pure quelle patrimoniali del sequestro e della confisca possono essere applicate nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi perchè abitualmente dediti a traffici delittuosi, o perchè vivono abitualmente – anche solo in parte – con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento (Sez. U, Sentenza n. 13426 del 25/03/2010 Cc. (dep. 09/04/2010) Rv. 246272).

Quindi, le misure di prevenzione, al pari delle misure di sicurezza, possono essere applicate anche quando siano previste da una legge successiva al sorgere della pericolosità sociale, in quanto le stesse non presuppongono uno specifico fatto di reato, ma riguardano uno stato di pericolosità attuale cui la legge intende porre rimedio (Sez. 6, Sentenza n. 11006 del 20/01/2010 Cc. (dep. 22/03/2010) Rv.

246682).

La L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 14 prevedeva l’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale di cui alla L. n. 575 del 1965 anche con riferimento ai soggetti indicati nella L. n. 1423 del 1956, art. 1, nn. 1 e 2, quando l’attività delittuosa da cui si riteneva derivassero i proventi fosse una di quelle previste dagli artt. 600, 601, 602, 629, 630, 644, 648 bis e 648 ter c.p., ovvero quella di contrabbando. Secondo la giurisprudenza, tale norma aveva carattere di specialità rispetto alla L. 22 maggio 1975, n. 152, art. 19, comma 1, che, nel prevedere che "le disposizioni di cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575 si applicano anche alle persone indicate nella L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 1, nn. 1 e 2" e comportava la piena equiparazione, ai fini delle misure di prevenzione patrimoniali, tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi per essere abitualmente dediti a traffici delittuosi o per vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (Cass. Sez. 1, 11 dicembre 1989 n. 3253; Sez. 1, 21 gennaio 1993 n. 226; Sez. 1, 29 novembre 1993 n. 5166). La ratio del citato art. 14, secondo tale interpretazione, era quella di restringere il margine di operatività delle misure di prevenzione patrimoniali, al fine di migliorarne la funzionalità, concentrando l’attività di indagine sui casi più gravi. La L. 24 luglio 2008, n. 125, art. 11 ter, nell’abrogare la L. n. 55 del 1990, art. 14, ha fatto rivivere nella sua pienezza l’operatività della norma generale dettata dalla L. n. 152 del 1975, art. 19, mai modificata o abrogata, ma rimasta sempre in vigore nella sua formulazione originaria; sicchè, in virtù di tale abrogazione, le misure di prevenzione patrimoniali previste dalla L. n. 575 del 1965 sono nuovamente applicabili, senza alcuna restrizione, a tutti i soggetti compresi nelle categorie delle persone pericolose, contemplate alla L. n. 1423 del 1956, art. 1, nn. 1 e 2 (Cass. Sez. 1, 26-5-2009 n. 26751; Sez. 1, 4-2-2009 n. 6000).

Nè può dubitarsi dell’applicabilità della nuova normativa anche in relazione alle situazioni pendenti, dal momento che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la confisca non ha natura di pena sui generis o di pena accessoria, ma di misura di sicurezza;

con la conseguenza che ad essa non si applica il principio di irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 2 c.p. e art. 25 Cost., ma quello della legge vigente al momento della decisione, fissato dall’art. 200 c.p.p. (Cass. Sez. 1, 26-5-2009 n. 26751; Sez. 6, 28-2-1995 n. 775). Ciò comporta che le misure di prevenzione, al pari delle misure di sicurezza, possono essere applicate anche se previste da legge successiva al sorgere della pericolosità sociale, in quanto, come già evidenziato, la misura di prevenzione non presuppone un fatto specifico costituente reato, ma concerne uno stato di pericolosità attuale, alla quale la legge intende porre rimedio (Cass. Sez. 1, 16-2-1987 n. 423). Va, quindi, esclusa l’operatività, per le misure di prevenzione, del principio di irrevocabilità, in quanto trattasi di misure fondate sulla pericolosità del soggetto da applicarsi in base alla legge vigente.

Non ha pregio, pertanto, l’assunto difensivo, secondo cui, ai fini della valutazione della legittimità della confisca, non si dovrebbe tener conto dello ius superveniens, rimanendo la fattispecie regolata dalla vecchia disciplina dettata in materia, e specificamente dalla L. n. 55 del 1990, art. 14. 2) Con riferimento alla sussistenza del requisito della pericolosità, per orientamento giurisprudenziale costante, nel procedimento di prevenzione il ricorso per Cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 10, richiamato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3 ter, comma 2; ne consegue che in tema di sindacato sulla motivazione è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poichè qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dalla L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 9, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Cass., Sez. 2, 3 febbraio 2000 n. 703, ric. Ingraldi e altro; Sez. 1, 21 gennaio 1999 n. 544, ric. Barbangelo 1^;

Sez. 2, 6 maggio 1999 n. 2181, ric. Sannino; 12 novembre 1999 n. 3560, ric. Drigo; Sez. 8^, 9 luglio 2002 n. 35758, ric. Manni).

Nel caso di specie non si rinviene il vizio radicale di motivazione.

Il decreto impugnato è corredato di motivazione adeguata, attinente alle questioni proposte con l’appello, e logicamente coerente, nel quadro di un ragionamento unitario, articolato in argomentazioni saldamente connesse sulla base di concetti razionalmente ordinati ed espressi.

Non ci si trova, quindi, in concreto di fronte a un caso di motivazione inesistente o puramente apparente, sicchè il primo limite posto dall’art. 4 cit, relativo alla possibilità di ricorso per Cassazione esclusivamente per violazione di legge, viene ad essere pienamente operativo. A questa premessa di carattere generale deve aggiungersi quella derivante dai limiti tipici del sindacato di legittimità, che non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica della sentenza e non può, quindi, estendersi all’esame e alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti alla causa, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto al quale la Corte di Cassazione non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa (Cass., Sez. U., 2 luglio 1997 n. 6402, ric. Dessimone; Sez. 3^, 12 febbraio 1999 n. 3539, ric. Suini; Sez. 3^, 14 luglio 1999 n., ric. Paone;

Id., 12 novembre 1999 n. 3560, ric. Drigo; Sez. 7^, 9 luglio 2002 n. 35758, ric. Manni).

Con riguardo a questi due limiti va esaminato il motivo di ricorso, con cui di deduce, sotto il profilo della violazione di legge, l’assenza di motivazione in ordine alla pericolosità specifica e qualificata, ossia un vizio specifico di motivazione in relazione alla previsione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) e non alla L. n. 1423 del 1956, artt. 125 e 4. In particolare il ricorrente contesta la mancanza di dimostrazione dell’utilizzo dei proventi dell’usura per l’acquisto del bene confiscato, al fine dell’applicazione della misura, confermata dal Giudice d’appello. Il motivo suddetto incontra pertanto la limitazione, posta dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 10, al solo vizio di violazione di legge e dev’essere perciò dichiarato inammissibile.

D’altra parte la valutazione in concreto della pericolosità costituisce una questione di fatto, il cui accertamento – secondo quanto si è detto – esorbita dal controllo di legittimità. Infatti la censura del ricorrente riguarda l’apprezzamento da parte della Corte d’appello sulle fonti dell’accertamento della pericolosità del P. avendo evidenziato come il curriculum vitae del prevenuto risultava ricco di episodi e fatti comprovanti legami con persone inserite in ambienti criminali e associazioni di stampo mafioso (pag.

3-23 del decreto del Tribunale), evidenziando come l’archiviazione del relativo procedimento non inficiava la consistenza delle frequentazioni, dei fatti e delle condotte riferibili al P. in ordine al loro significato in termini di pericolosità. La manifesta infondatezza dei motivi, essendo stato il ricorso prodotto, con riguardo alla prima censura, dopo la pronuncia della Cassazione a Sezione Unite che aveva già definito la questione in senso sfavorevole al ricorrente, impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *