Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 27-01-2011) 14-02-2011, n. 5387

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’appuntato dei carabinieri D.A. in servizio presso la Compagnia Carabinieri di Sesto San Giovanni, fu tratto a giudizio immediato davanti al Tribunale di Monza per rispondere dei delitti di: A) corruzione propria continuata per aver compiuto atti contrari ai doveri di ufficio consistititi nell’agevolare presso il comune di (OMISSIS) D.M.N. nella revoca del divieto di espatrio annotato sulla sua carta di identità, nell’interporsi presso il commissariato di p.s. di Cinisello (anche attraverso l’ispettore D.S.) per il rilascio del passaporto al D. M., nell’eseguire più interrogazioni dell’archivio informatico dell’Arma sul conto di tale A.C., legato da rapporti di affari con il D.M., nonchè nel porsi a disposizione di costui per incombenze riguardanti i rapporti con le forze dell’ordine, ricevendone "compensi solo in parte accertati, quali l’autovettura di cui al capo seguente"; B) ricettazione di una autovettura Volvo SW ricevuta nel novembre 2002 dal D.M., risultata provento di furto denunciato dal possessore B. A. il (OMISSIS).

Con sentenza in data 20.9.2005, il Tribunale di Monza dichiarò D.A. responsabile del reato di corruzione propria continuata e del reato di incauto acquisto del veicolo Volvo, così giuridicamente qualificato la contestata ricettazione, e lo condannava – concessegli le circostanze attenuanti generiche – alla pena di anni 2 mesi 4 di reclusione.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame e la Corte d’appello di Milano, con sentenza in data 10.10.2006, in riforma della decisione di primo grado, assolse l’imputato perchè il fatto non costituisce reato.

A seguito di ricorso del Procuratore generale presso la Corte territoriale, la Corte di Cassazione con sentenza 18.2.2009, annullò la sentenza d’appello con rinvio in relazione al delitto di corruzione continuata.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza in data 21.12.2009, confermò la sentenza di primo grado in relazione al delitto di corruzione continuata determinando la pena in anni 2 mesi 2 di reclusione.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in quanto è stata ritenuta l’esistenza di un rapporto sinallagmatico fra condotte contrarie ai doveri d’ufficio e dazione ricevuta. Non sono stati correttamente valutati i dati di fatto: i presunti favori si sono svolti nell’arco di diversi mesi e sono consistiti in mere attività materiali, tanto che nell’imputazione si contesta la violazione dei doveri d’ufficio e non il compimento o l’omissione di atti. La Corte territoriale ha riunito condotte avvenute in contesti temporali diversi e svincolati fra loro; in particolare ha riunito l’attività volta ad ottenere alcuni moduli per una nuova carta d’identità e la consulenza per il pagamento di multe ostative al rilascio, avvenute nel (OMISSIS), con la ricezione di un’autovettura avvenuta nel (OMISSIS) e comunque prima della consegna del nuovo passaporto.

La Corte d’appello ha ritenuto che non vi fu la vendita perchè non vi è prova cartacea del pagamento ed ha affermato il totale asservimento di D. a D.M. in base all’immediata disponibilità dell’imputato al rintraccio di A., trascurando che tale attività avvenne soprattutto nell’interesse di D. in conseguenza della ricezione dell’auto rubata e la necessità di chiarire la situazione.

Fino all’ultimo episodio di interpello dei sistemi informatici, D. non avrebbe posto in essere alcun atto contrario ai doveri d’ufficio. La telefonata n. 27 del 19.11.2002 ore 19.37 (trascurata dalla Corte territoriale) dimostrerebbe che non vi era fretta e non vi fu pressione per il rilascio di quanto richiesto da D..

Anche la sottoscrizione delle fotografie presso l’abitazione dell’imputato alla presenza di D.S. non sarebbe illecita.

Nei fatti avrebbe dovuto perciò essere ipotizzato al più il reato di cui all’art. 318 c.p., in quanto l’unico atto contrario, l’interpello dei sistemi informatici, era dettato da esigenze di autodifesa in ragione dell’avvenuto fermo del veicolo rubato appena ricevuto.

Erroneamente è stata ritenuta la continuazione in quanto comunque si sarebbe in presenza di un unico episodio corruttivo, essendo stata unica la dazione di un bene.

Il ricorso è manifestamente infondato ed in parte (quella relativa alla continuazione) inammissibile perchè il motivo non era stato dedotto in appello.

Va anzitutto ricordato, come già evidenziato dalla 6A Sezione penale di questa Corte nella sentenza di annullamento con rinvio, che i giudici di primo grado avevano ritenuta raggiunta la prova dell’antigiuridico contegno professionale dell’imputato nel "favorire" le esigenze del D.M. sulla base dei contenuti discorsivi delle conversazioni intercorse tra i due protagonisti della vicenda corruttiva nonchè dei servizi e accertamenti svolti e riferiti dall’ispettore di p.s. R. ( D. personalmente recatosi presso l’ufficio anagrafe del comune e presso l’ufficio passaporti del commissariato di polizia di Cinisello Balsamo, sino ad organizzare il 13.11.2002 un incontro presso la propria abitazione tra il D.M. e l’ispettore di polizia D.S.A. del detto ufficio passaporti, nel corso del quale questi provvedeva ad autenticare le fotografie del D.M. ed a ricevere la documentazione occorrente per il rilascio del passaporto), dall’altro ispettore di polizia A. (osserva un incontro il (OMISSIS) tra il D.M. e tale S.M., formale intestatario della vettura Volvo consegnata al D., finalizzato a concordare la versione resa dallo stesso S. in sede di indagini, secondo cui il D. gli avrebbe corrisposto in pagamento dell’auto la somma di Euro 12.000,00, versione che lo stesso S. chiarirà poi essere mendace), dall’ispettore D. S., esaminato ai sensi dell’art. 210 c.p.p. (conferma d’essersi recato a casa dell’imputato per prelevare i documenti per il rilascio del passaporto al D.M.), nonchè sulla base della ricostruita dinamica dell’acquisizione della vettura Volvo da parte del D., asseverante il mancato pagamento del veicolo.

Con riguardo a siffatta acquisizione il Tribunale giudicava difettare idonea prova della consapevolezza da parte dell’imputato dell’origine furtiva del mezzo, potendosi configurare a suo carico unicamente l’ipotesi di cui all’art. 712 c.p., avendo egli motivo di sospettare l’illecita o non limpida origine del veicolo, non fosse altro perchè cedutogli senza versamento di alcun prezzo da un soggetto come il D. M. a lui noto per essere stato ripetutamente inquisito per reati contro il patrimonio.

Le tesi svolte nel ricorso coincidono con quelle svolte nell’appello avverso la sentenza del Tribunale di Monza, in cui si deduceva l’insussistenza dei due reati e segnatamente del reato di corruzione, sia perchè il D.M. aveva pieno diritto alla revoca del divieto di espatrio ed al rilascio del passaporto, sia perchè egli si era limitato a fornirgli un semplice ausilio "consulenziale" senza venir meno ad alcun dovere funzionale del proprio personale ufficio, le interrogazioni al terminale sul conto dell’ A. (persona da cui il D.M. asseriva di aver ricevuto la Volvo a lui ceduta) essendo dettate – ancorchè, in ipotesi, abusivamente svolte – soltanto dalla sua preoccupazione per la provenienza del mezzo e dal suo interesse nel non vedersi coinvolto in eventuali contesti di riciclaggio o ricettazione della vettura.

Con la sentenza emessa il 10.10.2006, poi annullata, la Corte di Appello di Milano, accogliendo le prospettazioni difensive dell’appellante D., ha riformato la sentenza di primo grado e lo ha assolto da entrambe le imputazioni ascrittegli con la formula del fatto non costituente reato, adottata per la condotta di corruzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, i dati probatori non consentendo di "considerare pienamente provata l’ipotesi corruttiva contestata all’imputato", sulla scorta dei seguenti argomenti:

– effettivamente l’imputato si era adoperato o interessato presso l’ufficio passaporti del commissariato di polizia di Cinisello per la revoca del divieto di espatrio e il rilascio del passaporto nell’interesse del D.M., ma la sua condotta integrava una "mera assistenza di ordine materiale fornita a una persona conosciuta anche ragioni inerenti al servizio", che senza dubbio aveva titolo a conseguire i documenti in questione; il fatto che il D. si fosse curato di procurare i moduli per le istanze occorrenti al D. M., anche giovandosi della collaborazione di colleghi della polizia, si atteggiava come "sconveniente violazione di doveri pubblici" avente rilevanza disciplinare, piuttosto che come attività volta a procurare un indebito vantaggio ad un privato; peraltro l’imputato non era munito di alcuna competenza funzionale rispetto alla istruzione e agli esiti delle pratiche amministrative riguardanti il D.M.;

– l’acquisizione di notizie anche riservate relative alla persona di A.C. si inscriveva in un contesto indiziario che impedisce di ritenere raggiunta la prova di un vero "asservimento" del D. al pregiudicato D.M. ed altresì dell’instaurarsi di un rapporto sinallagmatico tra gli atti compiuti dall’appunto dei Carabinieri e la cessione ad asserito titolo gratuito del veicolo Volvo operata in suo favore dal D.M.;

– poichè l’interessamento del D. per il D.M. aveva avuto inizio nel febbraio del 2002, cioè ben otto mesi prima della consegna della Volvo risultata rubata e che gli interventi spesi dall’imputato si erano rivelati "di modestissima importanza e concretamente ininfluenti rispetto allo scopo" di far conseguire al D.M. il rilascio della carta d’identità valida per l’espatrio e poi del passaporto, vi erano fondate ragioni per dubitare che il corrispettivo della "modesta mediazione" dell’appuntato fosse stato integrato da una autovettura di un valore (circa Euro.000,00) del tutto sproporzionato rispetto al "favore ricevuto" dal cedente;

– non vi era prova certa che la cessione della Volvo dal D.M. (o da altri per suo conto) al D. fosse avvenuta a titolo gratuito; le conversazioni telefoniche intercettate tra l’imputato e il D.M. subito dopo l’emersione del furto del veicolo allo scopo di concordare una versione della vicenda acquisiti va del mezzo e le deposizioni testimoniali talora contraddittorie sulla stessa raccolte (testi Q.L., B.A., S. M.) erano state valorizzate dai giudici di primo grado senza tener conto del fatto che D.M., il quale ignorava l’origine illecita del veicolo (tanto da aver comunicato alcuni giorni prima al D.M. di aver contattato una agenzia automobilistica per procedere all’intestazione della Volvo a suo nome), ragionevolmente si preoccupava di non essere coinvolto in una vicenda di ricettazione come possessore della vettura; in tale ambito andavano inquadrate le ricerche informatiche sul conto dell’ A., che – "sia pure con l’abuso di pubbliche funzioni" – l’imputato svolse al solo scopo di acquisire elementi sulle pregresse vicende traslative della Volvo e, dunque, nel proprio interesse piuttosto in quello del D.M..

Tali considerazioni erano già state oggetto di censura nel ricorso proposto avverso la sentenza poi annullata dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte territoriale, il quale aveva evidenziato che: 1. erroneamente la sentenza poi annullata escludeva l’esistenza di un sicuro rapporto sinallagmatico tra le vicende traslative dell’autovettura Volvo dal D.M. al D. e l’ingiustificato "aiuto" fornito dall’appuntato al primo, ponendo l’accento sul tempo intercorso tra l’iniziale "interessamento" dell’imputato e la successiva consegna del veicolo, trascurando di rilevare che in realtà l’epilogo dell’interessamento propedeutico al rilascio del passaporto, dopo l’incontro del D. e del D. M. con l’ispettore D.S. del commissariato P.S. di Cinisello (13.11.2002), e l’acquisita disponibilità della Volvo da parte del D. erano in pratica contestuali (novembre 2002), sì che fondatamente il Tribunale aveva ravvisato nella consegna del veicolo il prezzo della attività contraria ai propri doveri istituzionali compiuta dall’imputato a beneficio dell’amico pregiudicato;

2. la natura corruttiva del rapporto D. – D.M. era avvalorata dalla gratuità della cessione dell’autovettura e dagli eloquenti contenuti delle conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo periodo, intercettazioni richiamate (e riassunte) dalla sentenza di primo grado, che i giudici di appello avevano trascurato, omettendo di apprezzarne l’univoca fonte di riscontro della gratuità della consegna, che mal si conciliava con l’atteggiamento di chi, come l’appuntato D., avendo scoperto di aver acquistato (secondo la falsa versione concordata con il D.M. e da questi suggerita al teste S., la cui deposizione rivelatrice del suo iniziale falso assunto la Corte di Appello aveva trascurato) per Euro 12.000,00 un’autovettura, che dalle sue indebite verifiche informatiche era risultata oggetto di denuncia di furto da parte di B.A., e si astenne dal denunciare immediatamente l’accaduto, premurandosi invece di definire una specifica versione difensiva con il suo interlocutore e dante causa D.M.; il mancato pagamento della Volvo era, del resto, ben desumibile proprio dalla vicenda della deposizione del S. ("… non è ipotizzabile che un appuntato dei carabinieri arrivi al punto di far dichiarare il falso ad un testimone, se non per nascondere una realtà per lui compromettente": appunto la ricezione a titolo gratuito di una autovettura da un noto pregiudicato);

3. la sentenza poi annullata aveva ricondotto nell’area di un generico abuso o di una mera rilevanza di segno disciplinare l’acquisizione di notizie da parte dell’imputato sulla persona di A.C. (che avrebbe procurato la macchina Volvo al D.M.), ascrivendole al suo intento di far emergere quanto necessario per chiarire la propria posizione di presunto acquirente in buona fede del mezzo e non (o anche) all’interesse dello stesso D.M., cui pure in questo caso offri un "aiuto", questa volta con diretta violazione dei propri doveri funzionali, atteso che le emergenze processuali hanno dimostrato come – nell’ambito di non limpidi rapporti di affari stretti fra i due personaggi – alcuni mesi dopo D.M., reperito l’ A., lo abbia pesantemente malmenato (questi fu ricoverato in ospedale con lesioni guaribili in 20 giorni) per non aver saldato un debito per una ingente somma contratto in traffici concernenti autoveicoli rubati o riciclati (testimonianza dell’ispettore p.s. R.); le conversazioni intercettate rendevano palese un interessamento conoscitivo del D. M. sul conto dell’ A. (ad esempio sulle sue condizioni personali ed economiche) estraneo alla mera verifica concernente l’autovettura Volvo. 4; il fatto che D. fosse intenzionato a formalizzare il passaggio di proprietà della Volvo a suo nome poteva valere (come hanno ritenuto i primi giudici) ad accreditare l’ignoranza del D. di una illecita o irregolare provenienza del veicolo, ma non ad eludere la gratuità della consegna della Volvo ed a vanificare l’indiziario valore di prezzo della indebita condotta di corruttela dell’imputato (che doveva verosimilmente attendersi che "i suoi favori venissero ricompensati con un bene di provenienza lecita").

Tali argomenti erano stati contestati con la memoria difensiva depositata il 12.2.2009 del difensore dell’imputato, il quale aveva richiamato il passato brillante e onesto del D. in seno all’Arma e ribadito – sulla scia della sentenza poi annullata – il carattere non conduttivo dell’ausilio amministrativo prestato al D. M. (persona che all’epoca dei fatti era riabilitata e aveva diritto ad ottenere il passaporto e una carta d’identità valida per l’espatrio) e l’effettivo pagamento dell’autovettura Volvo, asseritamente avvenuto in contanti, nonchè il palese squilibrio riscontrabile tra un compenso di siffatta natura e l’aiuto prestato dal D. al D.M. (limitatosi a procurare la modulistica e ad aiutare il D.M. nel compilarla). La 6A Sezione penale di questa Corte, con la sentenza di annullamento, aveva ritenuto la motivazione della sentenza, in aperto contrasto con le risultanze del procedimento penale e frutto di una riduttiva e sincretica valutazione di tali emergenze probatorie, quanto meno sotto l’aspetto della necessaria completezza della motivazione, specie se raffrontata con la sentenza di segno contrario pronunciata dal Tribunale di Monza.

In particolare nella sentenza di annullamento era stato rilevato che:

– la mancata constatazione della contestualità temporale tra la parte più rilevante o più significativa dell’interessamento speso da D. per D.M., avvalendosi dell’autorevolezza e del prestigio della propria posizione di graduato dell’Arma presso l’ispettore di polizia D.S. (interessamento culminato nell’autenticazione "domiciliare" delle fotografie del D.M. per il passaporto presso l’abitazione dell’imputato), aveva indotto la Corte di Appello a minimizzare le valenze probatorie collegabili alla ricezione della vettura Volvo da parte dello stesso imputato;

tanto più che tali eventi erano stati scanditi da numerose conversazioni intercettate, sulle quali la Corte territoriale non aveva espresso alcun vaglio o commento, anche solo per minimizzarne l’efficienza dimostrativa ai fini della sussistenza o meno del contestato reato di corruzione;

con tale processo valutativo la sentenza poi annullata concludeva per l’irrilevanza penale dell’attività svolta dall’imputato al fine di facilitare l’ottenimento da parte del D.M. della revoca del divieto di espatrio e del rilascio del passaporto, confinandola nell’ambito di una condotta meritevole di mero apprezzamento disciplinare, ma senza indicare l’effettivo confine tra una siffatta significatività disciplinare della condotta e la sua possibile rilevanza per gli effetti di cui al contestato reato di corruzione ex art. 319 c.p.;

ai fini della configurazione di contegni di corruzione passiva propria (antecedente o susseguente) l’evenienza per cui il beneficiario corruttore abbia giuridico titolo a conseguire determinati esiti giuridici (documentali o non) e la congiunta incompetenza funzionale del pubblico ufficiale agente nel produrre interventi quei determinati risultati, aspetti pur soltanto incidentalmente evocati dai giudici di appello, costituiscono emergenze non dirimenti sia perchè non elidono del tutto la natura indebita del vantaggio conseguito dal soggetto che pur abbia diritto ad una peculiare prestazione della pubblica amministrazione, ma la consegua in violazione dei criteri organizzativi, funzionali e perfino di priorità di trattazione in vigore nel pubblico ufficio (la sentenza impugnata accenna alla possibilità per il D.M. di "evitare la rituale fila allo sportello", consentitagli dall’interposizione del D.), sia perchè la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di esclusivo perseguimento di interessi pubblici che ontologicamente sostanzia la fattispecie della corruzione non è di per sè vanificata dalla incompetenza funzionale del pubblico ufficiale agente, allorchè costui in concreto operi giovandosi comunque del suo ruolo e del suo ascendente presso terzi (ufficio anagrafe del Comune) o presso altri colleghi pubblici ufficiali (ufficio passaporti del commissariato di P.S.), ponendosi al servizio di interessi di un privato dal quale si attenda un tangibile riconoscimento, in tal modo svilendo e mistificando la personale pubblica funzione ricoperta, come sembra essere avvenuto nel caso dell’appuntato D. in base all’analisi del suo comportamento sviluppata dalla sentenza del Tribunale (pp. 15-16 sentenza Tribunale) e non sottoposta ad alcuna effettiva o puntuale critica dai giudici di secondo grado (cfr.: Cass. Sez. 6, 2.10.2006 n. 2818/07, Bianchi, rv. 235727; Cass. Sez. 6, 26.9.2006 n. 38698, Moschetti, rv. 234991: "In tema di delitti contro la P.A., la nozione di atto di ufficio comprende una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale, e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, la formulazione di richieste o di proposte, l’emissione di pareri, ma anche la tenuta di una condotta meramente materiale o il compimento di atti di diritto privato"; Cass. Sez. 6, 15.5.2008 n. 34417, PM in proc. Leoni, rv. 241081); la sentenza poi annullata aveva escluso la relazione di sinallagmaticità, richiesta per l’integrazione del reato di cui all’art. 319 c.p., tra la condotta dell’imputato e la sua conseguita disponibilità – grazie al "favorito" D.M. dell’autovettura Volvo SW in base al rilievo che le risultanze processuali non avrebbero offerto piena o convincente prova della natura gratuita della dazione dell’auto; tale ragionamento della sentenza di appello era lacunoso e contraddittorio rispetto ai dati valutativi disegnati dall’istruttoria dibattimentale di primo grado, poichè – omettendo di esaminare tali dati (primo fra tutti quello della falsità dell’addotto pagamento da parte dell’imputato della somma di Euro 12.000,00 svelata dal teste S., formale intestatario del veicolo) – aveva capovolto il thema probandum, che era invece costituito dalla totale mancanza di prova dell’effettivo pagamento della Volvo, nessun elemento avendone fornito l’imputato e nessuna traccia documentale o testimoniale non mendace essendosene rinvenuta (nè potendosi seriamente prestar fede al menzionato assunto del difensore dell’imputato, per il quale il pagamento della non irrisoria somma di Euro 6.000,00 sarebbe avvenuto in contanti); l’argomento della sproporzione ritenuta dalla Corte di Appello sussistente tra la dazione dell’autoveicolo e la modesta opera di "mediazione" o interposizione posta in essere dall’imputato (a prescindere dal mero giudizio di valore così espresso sull’antidoverosa attività del D.) apparteneva al genere degli argomenti che – come suoi dirsi – provano troppo, per evidente aporia della premessa maggiore del ragionamento, sol che si consideri che il D.M. non risultava in realtà avere a sua volta pagato il veicolo consegnato all’imputato, adducendo di averlo ricevuto dall’ A., che era legato a lui da rapporti debitori nell’ambito di comuni traffici di autoveicoli (sulle vicende della Volvo e sulla emersa postuma carenza di prova di una sua origine furtiva, ignorata al momento dei fatti da D., edotto della denuncia di furto presentata il 21.10.2002 da B., si sofferma lungamente la sentenza del Tribunale);

– riduttivo e generico, infine, era l’assunto liberatorio della sentenza di appello in riferimento alle abusive notizie, di natura informatica o non, raccolte dall’imputato sul conto di A. C.; altresì illogico, se correlato agli specifici contenuti discorsivi delle richieste di informazioni sollecitate dal D. M. all’imputato, pure rimarcate dalla decisione di primo grado;

il fatto che D. fosse rimasto sconcertato ("disorientato" lo definisce il Tribunale) nel vedersi sequestrare l’auto Volvo che era in procinto di intestare a se stesso e nell’apprendere (in quel momento) che D.M. gli aveva ceduto o fatto consegnare un veicolo rubato e che egli era interessato a chiarire la situazione del veicolo nel proprio personale interesse (soprattutto per i prevedibili risvolti in sede professionale) non faceva velo alla cumulatività delle indagini (dalla stessa Corte territoriale qualificate come abusive) con gli autonomi personali interessi del corruttore D.M., sulla base dei referenti delle conversazioni intercettate vagliate dal Tribunale ma trascurate o sottovalutate dalla Corte di Appello.

Sulla base di tali considerazioni la 6A Sezione penale di questa Corte aveva ritenuto che la lettura dei dati probatori compiuta dalla sentenza di appello era carente e priva di concreta effettualità dimostrativa della ritenuta insussistenza della contestata fattispecie di corruzione propria continuata, ancorandosi più alla suggestione di una minimalistica diagnosi della dinamica comportamentale dell’imputato, che non al concreto quadro definito dalle risultanze processuali come ripercorse dalla sentenza di primo grado e come non sottoposte ad una necessaria penetrante disamina critica (postulata, come si è chiarito, dal sovvertimento del primo giudizio di merito) da parte dei giudici di appello.

Nel ricorso vengono in buona sostanza ripetuti gli argomenti già svolti nei motivi di appello, nella sentenza poi annullata e nella memoria difensiva, già giudicati "più alla suggestione di una minimalistica diagnosi della dinamica comportamentale dell’imputato, che non al concreto quadro definito dalle risultanze processuali come ripercorse dalla sentenza di primo grado". Ne consegue la manifesta infondatezza del ricorso. La doglianza relativa alla erronea ritenuta continuazione è inammissibile perchè non dedotta nei motivi di appello, dove era anzi stata richiesta la riduzione dei relativi aumenti di pena.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile. Da ultimo il Collegio osserva che non possono trovare applicazione le norme sulla prescrizione del reato, dal momento che – secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte – l’inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla mancanza, nell’atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall’art. 581 c.p.p., ovvero alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (cfr.: Cass. Sez. Un., sent. n. 21 del 11.11.1994 dep. 11.2.1995 rv 199903; Cass. Sez. Un., sent. n. 32 del 22.11. 2000 dep. 21.12.2000 rv 217266).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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