Cass. civ. Sez. I, Sent., 25-03-2011, n. 6954 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto in data 2/9 maggio 2007 la Corte d’appello di Brescia condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore della P.C.A.P. s.n.c. di De Blasi Antonino e C, della somma complessiva di Euro 7.000,00, a titolo di indennizzo del danno non patrimoniale, in conseguenza del superamento del termine di ragionevole durata di un processo fallimentare – ancora pendente al momento della domanda – aperto dal Tribunale di Milano, con sentenza in data 13 febbraio 1996, nei propri confronti (nonchè di due soci in proprio).

1.1 – A fondamento della decisione, la Corte di merito – richiamati i principi relativi all’indennizzabilità del danno non patrimoniale in favore di una società colpita nel suo diritto a una ragionevole durata del processo, e rigettata l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Amministrazione – affermava che la durata ragionevole del processo, tenuto anche conto delle lentezze derivanti dalla dispersione dei cespiti immobiliari, per altro non facilmente collocabili sul mercato, fra la Lombardia e la Sicilia, doveva essere determinata in quattro anni, in considerazione della particolare complessità della procedura, e che, pertanto, il periodo di durata non ragionevole andava stabilito in sette anni. Il danno non patrimoniale veniva quindi stimato complessivamente in Euro 7000,00, tenuto conto degli elementi del caso concreto.

1.2 – Per la cassazione di tale decreto ricorre la predetta società sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
Motivi della decisione

2.1 – Con il primo motivo viene denunciata "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3", per non aver la Corte territoriale, così non conformandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proceduto alla liquidazione senza tener conto della durata dell’intero procedimento, bensì solo del periodo successivo al superamento del termine considerato ragionevole.

2.2 – Con il secondo motivo la medesima violazione viene prospettata in relazione alla somma liquidata, utilizzandosi il parametro di Euro 1.000,00 per ciascuna annualità di ritardo, a fronte di una liquidazione operata dalla Cedu in Euro 2.065,83. 2.3 – Pertanto, denunciata in via preliminare l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nella L. n. 89 del 2001, art. 2, in relazione agli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., con particolare riferimento alla contrarietà alle previsione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e alla giurisprudenza della Cedu, viene prospettato il seguente, unico, quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: "Accerti la Suprema Corte di cassazione se vi sia stata violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6, par. 1 della Cedu, derivante dal fatto che la Corte di appello di Brescia, chiamata a pronunciarsi in ordine alla quantificazione del danno subito dalla società PCAP s.n.c. di De Blasi Antonino e C. non ha applicato i criteri di liquidazione adottati e fatti propri dalla Corte europea di Starsburgo e non ha considerato tutta la lunghezza del procedimento in questione ed enunci, a norma dell’art. 363 c.p.c., il principio dell’interesse della legge". 2.4 – La questione di legittimità costituzionale risulta infondata alla luce del diverso principio enunciato dalla Corte secondo cui "In tema di diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’indennizzo non deve essere correlato alla durata dell’intero processo, bensì solo al segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, in base a quanto stabilito dall’art. 2, comma 3, di detta legge, conformemente al principio enunciato dall’art. Ili Cost., che prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata ordinario e ragionevole, non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001, a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, e non si pone, quindi, in contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convezione europea dei diritti dell’uomo" (Sez. 1^, Ordinanza n. 3716 del 14/02/2008; 13 gennaio 2011, n. 727). Nè rileva il contrario orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto dell’art. 2, comma 3, lett. a) della citata legge; non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne (Sez. 1^, Sentenza n. 14 del 03/01/2008).

2.5 – Tanto premesso, deve affermarsi l’inammissibilità del ricorso in relazione al parametro adottato dal giudice del merito ai fini della liquidazione del danno, in quanto il quesito di diritto, a prescindere dall’unicità della sua formulazione contrastante con la pluralità dei motivi di ricorso (Cass., 23 luglio 2007, n. 16275;

Cass., 19 dicembre 2006, n. 27130; Cass. Sez. Un., 9 marzo 2009, n. 5624), non appare pertinente rispetto alla fattispecie concreta esaminata e alla ratio della decisione impugnata, risolvendosi, quindi, nella mera prospettazione di una questione giuridica.

Quanto al periodo considerato, valgano le medesime considerazioni.

2.6 – Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 600,00, oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *