Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-01-2011) 14-02-2011, n. 5384

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, con sentenza in data 18 febbraio 2009, confermava la condanna pronunciata dal Tribunale di Napoli il 21 luglio 2000 alla pena di anni sei di reclusione e lire sei milioni di multa nei confronti di M.C., dichiarato colpevole di estorsione ai danni di L.M., di estorsione continuata ai danni di C.A. e di minaccia per costringere L.M. e P.A. a commettere un reato. Nei confronti dello stesso M. il Tribunale aveva dichiarato estinti per prescrizione tre reati di usura di cui due contestati come commessi ai danni dei predetti L. e C., a favore dei quali, costituitisi parti civili, l’imputato era stato condannato al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.

La Corte di Appello dichiarava inammissibile l’impugnazione dell’imputato relativamente alla richiesta di assoluzione dai delitti di usura, ai sensi della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10, comma 2, anche se riteneva di dovere esaminare le censure espresse dalla difesa appellante sulle condotte di usura, posto che tali vicende delittuose costituivano la premessa logica e fattuale per ritenere sussistenti le condotte di estorsione e l’azione di minaccia. Il giudice di appello, sulla base delle dichiarazioni rese dai testi, ritenuti attendibili, e della documentazione acquisita, concludeva nel senso della sussistenza delle usure contestate e dei conseguenti reati di estorsione e di minaccia.

Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo mancanza o manifesta illogicità della motivazione, nonchè violazione di legge in relazione all’art. 629 c.p.. Il ricorrente evidenzia l’esistenza di divergenze e contraddizioni nelle dichiarazioni delle persone offese C. e B. e lamenta che la sentenza impugnata abbia attribuito tali contraddizioni ad una generica difficoltà di espressione o di comprensione; si duole, ancora, che la sentenza abbia dato un significato "astruso dalla logica processuale" al dubbio del consulente tecnico circa l’improbabilità che a fronte di un prestito di lire 12.000.000 le parti offese abbiano versato 145.000.000. Per quanto concerne il ritenuto stato di indigenza delle persone offese, il ricorrente denuncia che la sentenza impugnata non ha tenuto in considerazione l’atto di compravendita di un immobile da parte della sig.ra B. per L. 60.000.000 nelle circostanze di tempo di cui all’imputazione. Con riferimento alla vicenda riguardante la parte offesa L., il ricorrente lamenta ancora la mancanza di argomentazioni da parte del giudice di appello in merito alle divergenze delle dichiarazioni testimoniali segnalate dalla difesa e, in generale, denuncia la mancanza di motivazione sulle deduzioni difensive contenute nell’atto di appello.

Altro difensore dell’imputato deduce: 1) illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., della L. n. 46 del 2006, art. 10, nella parte in cui stabilisce l’inappellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di proscioglimento.

Il difensore ricorrente osserva che la possibilità per il p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento, riconosciuta con sentenza n. 26 del 2007, determina una disparita di trattamento a danno dell’imputato, il cui interesse è ravvisabile nelle conseguenze negative che la legge fa conseguire ad una sentenza di proscioglimento rispetto ad una di assoluzione piena.

2) assoluta mancanza di motivazione in ordine ai motivi concernenti le richieste di assoluzione dai delitti di usura, nonchè violazione di legge per aver dichiarato inammissibile l’appello in questione. In particolare, il ricorrente lamenta che la Corte si sia servita della valutazione negativa che del materiale probatorio relativo a tali capi di imputazione aveva fatto il primo giudice.

3) errata applicazione della legge penale in relazione al vecchio testo dell’art. 644 c.p., nonchè mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dei delitti di usura.

Il ricorrente denuncia che la sentenza impugnata non abbia dato risposta alla doglianze difensive in merito alla sussistenza dello stato di bisogno della persona offesa e sia incorsa in errore, arrivando ad affermare che costituisce stato di bisogno l’accrescimento della partecipazione all’azienda, allo scopo di favorire maggiori guadagni.

Il ricorrente, inoltre, lamenta che la sentenza impugnata abbia spiegato le contraddizioni nelle dichiarazioni delle persone offese, segnalate dalla difesa, con l’avanzata età dei dichiaranti, indicando riscontri generici nella documentazione ritrovata, che, invece, sarebbero smentiti dalla ricostruzione tecnica offerta dalla difesa. In data 28 settembre 2010 sono stati depositati motivi aggiunti.

Con un primo motivo vengono indicate le prove che, secondo la difesa, non sarebbero state esaminate dalla Corte di Appello. Con riferimento all’usura ai danni di C. e B., il difensore indica la documentazione dalla quale risulterebbe che il M. aveva effettuato numerosi pagamenti mai a lui rimborsati, mentre la parti offese avevano effettuato un acquisto di immobile corrispondendo il pagamento in contanti. Con riferimento all’usura ai danni di L., il difensore afferma la "mostruosità logica" della sentenza nel punto in cui ritiene che lo stato di bisogno potesse individuarsi nella necessità di portare a termine una speculazione imprenditoriale; aggiunge che la Corte di Appello si sarebbe disinteressata di tutte le argomentazioni difensive, che dimostrerebbero l’inverosimiglianza della tesi accusatoria e la inconciliabilità di essa con la documentazione difensiva.

Con un altro motivo il difensore sostiene che la sentenza impugnata, con riferimento al delitto di estorsione avrebbe dovuto chiarire se la minaccia di mettere all’incasso il titolo della persona offesa riguardasse la somma prestata o la quota di interesse non pagato, poichè solo nel primo caso potrebbe configurarsi il delitto contestato.
Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.

Deve essere preliminarmente esaminato il motivo di ricorso con il quale si solleva questione di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., della L. n. 46 del 2006, art. 10, nella parte in cui stabilisce l’inappellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di proscioglimento. Sul punto la Corte Costituzionale si è già pronunciata con la sentenza n 85 del 2008, che ha dichiarato "l’illegittimità costituzionale della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603 c.p.p., comma 2, se la nuova prova è decisiva". Dalla motivazione della citata sentenza si desume, peraltro, che, se la limitazione dei poteri di appello dell’imputato avverso le sentenze di proscioglimento, sancita dal novellato art. 593 c.p.p., comma 2, debba essere rimossa, ciò non significa che l’appello non sia soggetto alla verifica di sussistenza del requisito di cui all’art. 568 c.p.p., comma 4, deve cioè essere configurabile un interesse all’impugnazione ovvero l’idoneità della pronuncia del giudice ad arrecare un "significativo pregiudizio" all’imputato. Nel caso di specie, tale pregiudizio non può ravvisarsi, poichè alla declaratoria di prescrizione dei reati di usura, pronunciata in primo grado, non è direttamente connessa alcuna responsabilità civile, la quale è conseguente alla condanna per il delitto di estorsione, la cui premessa logica e fattuale, come esattamente rileva la sentenza impugnata, certamente è consistita nei reati di usura dichiarati estinti per prescrizione, ma sul punto la difesa ha avuto modo di esplicarsi ampiamente anche in questa sede, come è dimostrato dai motivi di ricorso che concernono, proprio, la sussistenza di una usura che rende configurabile il delitto di estorsione per il quale il M. è stato condannato.

Gli altri motivi di ricorso sono manifestamente infondati per la parte in cui contestano l’esistenza o la illogicità di un apparato giustificativo della decisione, che invece esiste e non è manifestamente illogico; non consentiti per la parte in cui pretendono di valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete.

Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30/4-2/7/1997, n. 6402, Dessimone, riv. 207944).

I motivi proposti tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione ampia ed esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento, esaminando in modo specifico e puntuale tutte le deduzioni difensive. In particolare, la sentenza impugnata analizza le contraddizioni e le incongruenze rilevabili nelle dichiarazioni dei coniugi B. e C. per concludere che esse sono più apparenti che reali ovvero che sono giustificabili e che, comunque, non inficiano l’attendibilità degli stessi, considerati anche i riscontri documentali; mentre, per quanto riguarda la osservazione del consulente tecnico del P.M. che fosse "strano" che le persone offese avessero pagato L. 145.000.000 a fronte di un assegno originario di L. 12.000.000, la sentenza impugnata fornisce una giustificazione che emerge da una dettagliata ricostruzione dei fatti (pag. 10 della sentenza impugnata).

Per quanto riguarda le condotte poste in essere in danno di L. M. e P.A., la Corte di Appello, sulla base delle testimonianze assunte e dei riscontri documentali, conclude nel senso che "le dichiarazioni delle persone offese non presentano difformità, contrasti, incongruenze o carenze suscettibili di essere apprezzate per insinuare il minimo dubbio sull’attendibilità delle stesse".

Anche la censura di violazione di legge con riferimento alla sussistenza dello stato di bisogno è manifestamente infondata, poichè la sentenza impugnata chiarisce che "tanto i coniugi B. – C., gestori di un distributore di benzina, quanto l’imprenditore L.M., furono indotti a ricorrere al prestito del M. da gravi difficoltà economiche connesse alla rispettiva attività commerciale e/o imprenditoriale, non certo per ottenere il superfluo". Con riferimento al C. la sentenza impugnata fa riferimento alle "notevoli difficoltà economiche determinate dalla rilevante contrazione degli introiti del distributore di benzina per cause connesse al terremoto dell’80", mentre per quanto concerne il L., la stessa sentenza, in contrasto con quanto affermato dalla difesa circa la utilizzazione del prestito per una speculazione imprenditoriale, chiarisce che, attese le pessime condizioni della società LIMA, "la mancanza di un intervento, che doveva passare attraverso l’acquisto da parte del L. delle quote di maggioranza della LIMA, avrebbe, a dire del L. e del P., compromesso in modo irrimediabile gli investimenti fatti dal primo". D’altro canto, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato in materia il seguente principio di diritto: "In tema di usura, lo stato di bisogno preso in considerazione dal precetto penale può essere indifferentemente determinato da cause incolpevoli oppure da vizi, prodigalità o altre colpe inescusabili, poichè la norma persegue la finalità di colpire l’usuraio quale persona socialmente nociva, che non cessa di essere tale quale che sia la natura o la causa del bisogno del creditore, e sussiste quand’anche l’offeso abbia inteso insistere negli affari al di fuori di ogni razionale criterio imprenditoriale" (Sez. 2, 23 gennaio 1997, n. 1311, Settineri, rv.

207122; Sez. 2, 12 novembre 2001, n. 4882, Maione, rv. 220658). Per quanto riguarda, infine, la sussistenza del delitto di estorsione, la Corte di Appello puntualizza in modo inequivocabile che "il M., in diverse occasioni, per poter incassare le rate di interessi, non esitava a minacciare di passare all’incasso i titoli di cui era in possesso". Il ricorso, dunque, deve essere rigettato, con la conseguenza della condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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