Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-12-2010) 14-02-2011, n. 5366 Omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 4.2.2008 il Tribunale di Monza, in composizione monocratica, assolveva G.G. e C.D.A. dal delitto di omicidio colposo in cooperazione tra loro, in danno del feto ( D.A.) di M.A. perchè il fatto non sussiste.

In particolare, secondo il capo d’imputazione, era loro ascritto il delitto di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perchè, con cooperazione colposa tra di loro, cagionavano la morte del feto (a termine) di M.A. (con gravidanza già oltre il termine: 41 + 2 e 41 + 3 settimane): fatto commesso per colpa consistente in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonchè nella violazione delle regole proprie della scienza ed esperienza medica del settore, perchè, in qualità entrambi di medici ginecologici, in servizio presso l’ospedale di (OMISSIS) (il G. la mattina del (OMISSIS) ed il C. la mattina del (OMISSIS);, dopo avere sottoposto a monitoraggio fetale M.A. avevano effettuato una errata interpretazione dei relativi tracciati cardio- tocografici ed hanno omesso di disporre il ricovero della donna; in particolare:

il G. (in data (OMISSIS)) aveva omesso di classificare il tracciato di grado "intermedio" (in relazione al livello di tachicardia fetale evidenziato) e, di conseguenza, aveva omesso di disporre il ricovero della M. al fine di eseguire più stretti controlli e monitoraggi e di verificare con maggiore puntualità lo stato di benessere del feto;

il C. (in data (OMISSIS)) aveva, a sua volta, erroneamente interpretato il tracciato (che presentava ancora evidenti segni di tachicardia fetale e, a quel punto, imponeva il ricovero della gestante e la sottoposizione della stessa ad uno stretto e continuo monitoraggio clinico e strumentale) e, di conseguenza, omesso di disporre il ricovero della M., rendendo in tal modo impossibile una diagnosi precoce dei segni di sofferenza fetale che, nelle 24 ore successive, avrebbero portato alla morte del feto per grave sofferenza ipossica endouterina (In (OMISSIS)).

Il Tribunale rilevava profili di colpa, riconosciuti da tutti i consulenti delle parti, ad eccezione di quelli della difesa, in ordine alla condotta del Dr. C. che il (OMISSIS), in considerazione di una paziente giunta a 41 settimane e 3 giorni e che la tachicardia fetale, se pur non grave, persisteva dal giorno precedente, non aveva tenuto una condotta prudente che avrebbe richiesto un immediato ricovero ed indurre farmacologicamente il travaglio di parto o di controllare il tracciato cardiotocografico dopo poche ore, senza attendere il giorno successivo, allorchè il tracciato, eseguito ancora a livello ambulatoriale, presentò una brachicardia grave con riduzione della variabilità e fu indicativo di sofferenza fetale gravissima che determinò la morte del feto sei ore dopo la nascita. Analoga condotta colposa motivatamente (per via di talune omesse considerazioni dei periti circa il protocollo dell’Ospedale di (OMISSIS)) ravvisava il Tribunale, a differenza di quanto ritenuto dai periti, in relazione alla condotta del dr. G., per aver omesso più accurati accertamenti a fronte di una tachicardia che non si sapeva da quanto persistesse e dunque necessitava di un controllo a distanza di poche ore (e non a 24 ore come da lui prescritto) per verificare se si trattasse di anomalia transitoria e cioè benigna ed, in caso contrario (come poi si era verificato), avrebbe dovuto trarre le conseguenze indicate dai periti per il C., sino ad anticipare l’eventuale induzione al parto quantomeno entro il mattino successivo. Peraltro, come rilevato dai periti, non eseguì il controllo sul colore del liquido amniotico e non valutò attentamente la sintomatologia della paziente che accusava malessere ed atteso che lo stesso imputato aveva asserito di averla visitata più per tranquillizzarla che per informarla compiutamente della situazione e per valutare l’eventuale induzione al parto.

Non solo, il G. aveva omesso, altresì, di trarre qualsiasi valutazione sul mutato quadro clinico rispetto al tracciato, del tutto regolare, del 19 gennaio, che, poichè risalente ad oltre 48 ore, necessitava di una verifica per valutarne la persistenza peraltro già confermata dalla durata dello stesso tracciato del 21 gennaio 2002 ed attese le riconosciute maggiori attenzioni derivanti dalla non transitorietà della pur moderata tachicardia fetale.

Era certo, sulla scorta dei dati clinici e peritali, che la piccola D.A. era deceduta dopo 6 ore dal parto per "grave sofferenza ipossico-ischemica perinatale e sindrome di inalazione di liquido amniotico mecomiale", complicanza insorta prima della nascita e probabilmente in epoca successiva al 19 gennaio, ma già in atto sicuramente al 21 gennaio e quindi "da diverse ore ad alcuni giorni prima della nascita", intendendosi con tale espressioni da "8/12 ore a 2/3 giorni".

Inoltre:

– la causa dell’inalazione di meconio (feci) andava individuata, in termini di alta probabilità e razionalità logica, in una condizione di infezione endoamniotica (corioamnionite), come suggerito da univoci riscontri anche se non obiettivamente documentabile sulla base di dati clinici e autoptici;

– l’infezione in parola non poteva ragionevolmente essere diagnosticata in assenza di segni clinici materni ed in presenza di una lieve tachicardia che, rilevata per la prima volta, il 21 gennaio 2002, non assumeva carattere patologico e tale da imporre precauzioni diverse e che soltanto le conoscenze cliniche acquisite dopo l’evento portavano ad una lettura di quel tracciato come indicativa della infezione endoamniotica, che, in quanto non sempre trasferibile al feto o alla gestante, non poteva essere analizzata;

– il monitoraggio della gravidanza era stato eseguito secondo le indicazioni delle Linee guida per il monitoraggio delle gravidanze post-termine e la politica seguita presso l’Ospedale di (OMISSIS), di attendere la 42A settimana prima di ricoverare e indurre le pazienti, non era di per sè censurabile, anche se la maggior parte degli autori raccomandava, pur in assenza di evidenze, la induzione a 41 + 3/4 giorni e questa era la condotta utilizzata dalla maggior parte dei centri ostetrici di riferimento italiani;

– i tracciati cardiotocografici eseguiti il 21 ed il 22 gennaio e cioè nei giorni precedenti il ricovero (23 gennaio) non potevano definirsi di per sè "patologici", ma una attenta lettura degli stessi, confrontati con quelli precedenti, avrebbe dovuto far riconsiderare ai medici il caso clinico nel suo complesso e, vista l’epoca di gravidanza raggiunta (rispettivamente 41+2 e 41+3), il persistere della tachicardia fetale avrebbe dovuto suggerire un atteggiamento clinico più prudente, disponendo, il 21 gennaio, la ripetizione della registrazione quello stesso giorno dopo 4/8 ore e, il 22 gennaio, il ricovero della paziente e l’eventuale induzione al parto nel pomeriggio o quantomeno un monitoraggio cardiotocografico intensivo nelle ore successive;

– il tracciato del giorno 23 gennaio era assolutamente patologico e la decisione di eseguire il taglio cesareo fu corretta come altrettanto corretto fu l’intervento di tutti i sanitari intervenuti detto giorno; se il travaglio fosse stato indotto il giorno precedente (il 22 gennaio, ma anche il 21 gennaio) probabilmente le contrazioni avrebbero fatto precipitare la condizione di equilibrio instabile in cui si trovava il feto, evidenziando in modo inoppugnabile una sofferenza fetale e il taglio cesareo sarebbe stato eseguito in anticipo, questo avrebbe consentito la nascita di un feto vivo, in condizioni di "sofferenza" minore rispetto a quelle che si sono documentate nel tracciato del giorno successivo, ma ciò, molto probabilmente, anzi in maniera del tutto credibile dal punto di vista razionale e logico, non avrebbe assolutamente impedito il grave danno cerebrale riscontrato e l’evento, in termine di alta probabilità, sarebbe risultato comunque infausto con una maggiore aspettativa di vita di 12/24 ore.

Dette valutazioni e conclusioni portavano all’assoluzione degli imputati ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p. perchè non rigorosamente provato il nesso causale posto che, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base delle acquisite conoscenze scientifiche e dell’evolversi del caso clinico in esame, non si era accertato, con il necessario rigore, che, ipotizzandosi come realizzata dai medici che visitarono la paziente il 21 ed il 22 gennaio 2002 la diversa condotta esplicitata nel capo di imputazione (eseguendo un più attento monitoraggio e/o ricoverando la gestante sino ad anticipare l’induzione al parto al 22 gennaio 2002, come sostenuto anche dai consulenti del P.M. che hanno ritenuto corretto l’intervento del primo ginecologo), l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore. La Corte di Appello di Milano, adita dal P.M. e dalle parti civili, con sentenza in data 8.6.2009, in riforma della predetta sentenza del locale Tribunale, affermava la penale responsabilità di G.G. e C.D. in ordine al reato loro ascritto e, con circostanze attenuanti generiche, li condannava alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio in favore delle parti civili.

Riteneva la Corte che la tesi assolutoria, fondata sull’ipotesi secondo cui la sofferenza del feto derivava da una corioamionite e quindi da una sofferenza cronica, non fosse adeguatamente riscontrata (ed anzi fosse una mera ipotesi) e quindi non potesse affermarsi l’irrilevanza di un comportamento positivo volto a determinare, correttamente e in via anticipata, la nascita della neonata.

Rilevava che, anche a voler accettare l’ipotesi fatta propria dal primo Giudice, non si riusciva, in definitiva, a comprendere come si potesse affermare che nemmeno un intervento, corretto e lecito, eseguito il 21 gennaio, avrebbe potuto evitare l’evento, tanto che lo stesso Dott. Ch. aveva evidenziato che la situazione in cui si era trovato il feto il giorno (OMISSIS) era da ritenersi molto diversa da quella della sera del 22 gennaio.

La Corte prendeva in considerazione ai fini dell’individuazione della responsabilità dei professionisti imputati i seguenti elementi:

– il 19.1. il feto non presentava alcun sofferenza, mentre la bambina aveva cominciato a trasmettere un primo messaggio di aiuto con il tracciato cardiotocografico del 21.1, ed aveva confermato tali segnali di sofferenza evidenziati il 22.1, con il successivo tracciato;

– la sofferenza fetale era risultata ancora contenuta il 21 e il 22, mentre si era aggravata proprio tra il 22 e 23 gennaio, giorno in cui il tracciato aveva evidenziato un situazione patologica: pertanto era evidente che la condizione del feto era precipitata in un momento successivo alla visita di entrambi i due professionisti, per cui un loro intervento utile e tempestivo (dal momento che secondo quanto emerso, il ricovero eseguito il 22 avrebbe consentito di diagnosticare precocemente i segni di sofferenza fetale, che si erano poi manifestati nell’arco delle successive 24 ore) avrebbe salvaguardato il benessere fetale, con l’induzione del parto naturale o con un taglio cesareo. Invero, al di là dell’accertamento della causa della sofferenza fetale, ciò che rilevava era stabilire quando fosse iniziata la sofferenza fetale e se la stessa potesse essere rilevata, in quanto dal momento che la causa della morte era stata individuata nell’ingestione di meconio – e tra l’altro la presunta corioamnionite non provocava in via diretta la ingestione di meconio- la causa della suddetta sofferenza verosimilmente era stata determinata da un qualunque possibile fatto meccanico di soffocamento.

Lo stesso perito nominato dal Giudice, nella relazione scritta evidenziava che la causa della morte poteva essere identificata nella grave sofferenza ipossico-ischemica e sindrome da inalazione di liquido amniotico meconiale.

Tale complicanza era "insorta prima della nascita come suggerito dal riscontro di grave bradicardia fetale al tracciato cardiotocografico, nonchè dall’estrema gravità del quadro clinico presente al momento della nascita".

Si era sostenuto che tale inalazione di meconio potesse essere stata "provocata da un condizione di infezione endoamniotica, ipotesi suggerita da alcuni riscontri (liquido amniotico maleodorante, ricovero della paziente al Niguarda con decorso febbrile)". Anche gli esperti nominati dal P.M. avevano affermato come, nel caso di specie, le cause della sofferenza fetale che avevano determinato l’ipossia del feto non erano individuabili perchè, dal punto di vista anatomico, il feto era normale "…la causa non l’abbiamo capita e non si capirà mai". Inoltre, neppure l’autopsia aveva accertato la presenza della corioamnionite.

Lo stesso perito ed i suoi collaboratori precisavano, poi, che si era trattato di fatto sub-acuto, per cui la sofferenza poteva essere cominciata diverse ore prima rispetto alla morte, ossia fino a 24-48- 72 ore prima.

La Corte osservava che (al di là delle differenze tra fatto cronico e fatto sub-acuto) anche a voler retroagire al massimo -secondo le indicazioni fornite – a 72 ore l’inizio della sofferenza, la stessa avrebbe avuto origine il 20.1.2002 (ossia il giorno dopo l’ultimo tracciato positivo ed il giorno prima di quello del 21 valutato dal Dott. G.). Alla luce di tali elementi, la Corte riteneva che non potesse nutrirsi dubbio sul fatto che un intervento eseguito il 21.1 avrebbe salvato la bambina: il giorno 21 la sofferenza del feto era in una fase iniziale (la bambina aveva già lanciato un allarme attraverso la tachicardia ma la sofferenza non aveva ancora influito sulle complessive condizioni di benessere e quindi poteva essere salvata); il 22.1 il tracciato aveva confermato l’allarme, senza evidenziare ancora gravi segni di malessere fetale.

Il 21 ed il 22, pertanto, si poteva ancora utilmente intervenire determinando la nascita di una neonata in condizioni, se non di benessere, sicuramente di notevole minore compromissione, tenuto conto degli effetti della costante necessità di respirazione e di ingestione da parte del feto avvenuti nel corso dei giorni 21 e 22 gennaio.

Sotto tale profilo la nascita anticipata avrebbe, con certezza, creato condizioni molto diverse in ordine alle possibilità di sopravvivenza della piccola (i consulenti del P.M. avevano sul punto ritenuto, con ragionevole certezza, che vi sarebbe stata un attesa di sopravvivenza prossima ad una gravidanza fisiologica).

Pertanto appariva evidente l’accertata condotta colposa di entrambi gli imputati quale causa della morte della neonata, consistita nel loro mancato intervento al momento del manifestarsi della sofferenza fetale.

Avverso tale sentenza ricorrono per Cassazione il difensore di fiducia di C.D.A. e G.G., personalmente.

G.G. deduce: l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con particolare riferimento all’art. 511 c.p.p., n. 3 e la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione con particolare riferimento agli atti del processo e alle risultanze probatorie specificatamente indicate.

Assume che, ai sensi dell’art. 511 c.p.p., n. 3, l’esame orale del perito ha valore principale ed assorbente rispetto a quello, residuale, della relazione peritale scritta e della sua lettura.

Rileva che la sussistenza della corioamnionite non era mera ipotesi, come ritenuto dalla C.A. che ne aveva rilevato l’assenza nell’elaborato peritale, bensì affermata e concretamente supportata dal perito di primo grado, Prof.ssa F., per tutta la sua audizione. Richiama anche le pagine 16 e 18 della perizia, laddove vengono svolte considerazioni sul riscontro di liquido amniotico tinto e sulla sindrome da aspirazione di meconio e le conclusioni circa la condizione di infezione endoamniotica.

Rappresenta anche il travisamento degli argomenti testimoniali resi dal perito Prof.ssa F. in relazione alla presenza della corioamnionite dalla medesima evidenziata oralmente.

Inoltre la Corte aveva individuato profili di colpa a carico del Dr. G. contrastanti con quanto riferito a pag. 19 dell’elaborato peritale e, a fronte di quanto ancora affermato dalla Prof.ssa F., circa l’ineluttabilità dell’evento morte che una anticipata induzione al parto promossa dal Dr. C. ed prima ancora dal Dr. G., avrebbe tutt’al più ritardato di alcune ore, aveva proclamato, al di là persino di quanto affermato dai periti del P.M., l’indubitabilità dell’effetto salvifico di un intervento eseguito il 21 gennaio. Nell’interesse di C.D. A. si deducono l’inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale sostanziale, l’inosservanza delle norme processuali, il vizio motivazionale in merito alla valutazione delle risultanze istruttorie.

Si denuncia, anzitutto, il travisamento delle risultanze istruttorie, che non avevano consentito di raccogliere certezze, tramite il responso dei vari periti, circa la possibilità che, intervenendo il 21 gennaio, sarebbe nato un bambino sano, potendo la situazione essere irreversibile anche a quella data, come riferito dalla prof.ssa F.. Al 22 gennaio, allorchè il Dr. C. visitò la sig.ra M., per tutti i periti, la possibilità di vita del feto era nulla. La Corte di Appello, invece di porre al centro della sua valutazione critica sulla decisione di primo grado, la corioamionite (fondamentale e dirimente in primo grado), l’aveva considerata una "mera ipotesi", non prospettata in sede di elaborato peritale, ma solo nel corso dell’esame dibattimentale, quasi che questo fosse una mera eventualità e subordinata alla valore preponderante dell’elaborato. Inoltre, diversamente da quanto asserito dalla C.A., che aveva ritenuto che la diagnosi di dimissione della sig.ra M. sconfessava la tesi della corioamnionite, la cartella clinica riportava la diagnosi "possibile corioamnionite".

Ancora, la C.A. aveva ritenuto elemento dirimente per escludere la tesi della corioamnionite il fatto che la sig.ra M. non avesse avuto uno stato febbrile: tale sintomo della predetta patologia era stato graniticamente escluso dalla Prof.ssa F..

Si ripropongono le medesime osservazioni addotte nell’interesse del Dr. G. circa l’irrimediabile compromissione della situazione clinica del feto, al momento della visita del Dr. C..

Si sottolinea che i periti avevano evidenziato che l’unica causa dell’ingestione di meconio, ovvero l’infezione intrauterina, non era riconoscibile, nè diagnosticabile dai medici.

Si evidenzia l’erroneità del ragionamento della Corte territoriale, laddove, per poter sconfessare la tesi della corioamnionite, aveva affermato che la sofferenza fetale era stata determinata da un qualunque possibile fatto meccanico di soffocamento, trascurando dati istruttori che avevano portato i periti ad affermare che il soffocamento era stato determinato dall’ingestione di meconio.

Si segnalano ulteriori errate utilizzazioni del materiale probatorio con radicale travisamento di esso e sottolineati taluni passaggi fondamentali della motivazione della sentenza impugnata sforniti di ogni supporto scientifico e probatorio.

Si evidenzia che la Corte aveva mancato di indicare gli elementi logici e scientifici in base ai quali avesse ottenuto la prova che se il feto fosse stato fatto nascere il giorno 22 gennaio, sarebbe poi sopravvissuto, e si prospetta che al dr. C. non poteva essere imputata l’eventuale e denegata omissione del Dr. G., atteso che i periti avevano tutti ritenuto che già il giorno 21 (e quindi a fortiori il 22, quando intervenne il dr. C.) la situazione poteva essere irreversibile.

E, quanto al nesso causale, la Prof.ssa F. aveva affermato che "noi non siamo in grado di dire quando è iniziata questa sofferenza" (e, a fortiori, di dire quando è divenuta irreversibile), sicchè il dubbio circa il fatto che l’omissione fosse stata condizione necessaria dell’evento doveva portare all’assoluzione ex art. 530 cpv. c.p.p., laddove la Corte aveva letteralmente "inventato" una propria verità processuale, fondata su asserzioni avulse dalle prove e congetturali. E’ stata depositata una memoria difensiva con motivi nuovi nell’interesse di C.D.A., con la quale si illustrano ulteriormente le argomentazioni già articolate e se ne evidenziano di ulteriori, sempre nell’alveo delle censure già mosse.

Anche nell’interesse delle parti civili è stata depositata una memoria difensiva, con allegata documentazione, a sostegno dell’impugnata sentenza della Corte milanese.
Motivi della decisione

Si deve immediatamente rilevare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1, l’intervenuto decorso del termine prescrizionale di sette anni e sei mesi (al 23.7.2009), previsto per il reato contestato dall’art. 157 c.p. e art. 160 c.p., u.c. (nella vigente formulazione a seguito della novella di cui alla L. n. 251 del 2005, ma parimenti in quella previgente, attesa la concessione delle attenuanti generiche), onde s’impone, non risultando cause d’inammissibilità del ricorso o periodi di sospensione per una durata utile alla data odierna, nè evidenti condizioni per addivenire ad una formula di pieno proscioglimento ai sensi del citato art. 129 c.p.p., comma 2, l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza perchè il reato ascritto è rimasto estinto per intervenuta prescrizione.

Peraltro, in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie, la prescrizione), la formula di proscioglimento nel merito può essere adottata solo quando dagli atti risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato e non nel caso di insufficienza o contraddittorietà della prova di responsabilità (Sez. 5, n. 39220 del 16.7.2008, Rv. 242191).

Ad ogni modo, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., si deve annullare la sentenza impugnata relativamente alle statuizioni civili. Infatti, premesso che le censure mosse concernono, prevalentemente, il travisamento delle emergenze istruttorie ed il vizio motivazionale, anche laddove si deducono violazioni della legge penale sostanziale o processuale, e che in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie, prescrizione), non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata dal momento che il rinvio, da un lato, determinerebbe comunque per il giudice l’obbligo di dichiarare immediatamente la prescrizione e, dall’altro, sarebbe incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento (ex ceteris: Sez. 6, n. 40570 del 29.5.2008 Rv.

241317), nel caso di specie, deve riconoscersi come avrebbe dovuto accedersi all’annullamento della sentenza per vizio motivazionale.

Ciò in quanto le argomentazioni addotte dalla Corte territoriale per ribaltare il verdetto di primo grado non sono affatto convincenti, ed anzi, alla luce della chiara e logicamente ineccepibile motivazione della sentenza di primo grado, deve ritenersi che la ritenuta colpevolezza degli imputati appare fondata su mera congettura della Corte stessa che si coglie già nell’inciso "non si riesce in definitiva a comprendere come si possa affermare che nemmeno un intervento eseguito il 21 avrebbe potuto evitare l’evento". Ora, sulla sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado (cfr. Cass. pen. Sez. 5, 17.10.2008 n. 42033, Rv.

242330 ed altre, tra cui Sez. 6, n. 6221 del 2006, Rv 233083 e Sez. Un. n. 33748 del 12.7.2005, Rv. 231769), grava un onere motivatorio rafforzato (sussistente persino nella sentenza di patteggiamento:

cfr. Sez. 5, n. 12611 del 2.3.2006, Rv. 23455), dovendo confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della propria decisione, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati.

Nessuna traccia di tale impegno motivazionale può rinvenirsi nella sentenza impugnata che si appalesa come meramente enunciativa ed emotiva.

Invero, per disattendere il Collegio peritale, la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire una analitica motivazione tecnico-scientifica che contrastasse le dimostrate conclusioni alle quali erano pervenuti i periti (tra cui: la corioamnionite, quale causa del decesso e non già mera ipotesi, attese le puntuali affermazioni della prof.ssa F. nel corso della sua audizione che vale, in ogni caso, ad esplicare ed integrare l’elaborato peritale il cui contenuto non rappresenta certo una prova cristallizzata ed intangibile nel corso della successiva indispensabile escussione del perito; la non diagnosticabilità della detta infezione; la presenza di tale patologia prima del 21 gennaio; l’impossibilità di affermare che l’anticipazione del parto di un giorno avrebbe consentito di avere un neonato vivo e sano). Invece, la Corte ha ritenuto di superare la presenza della corioamnionite, che viene citata persino nella cartella clinica dell’Ospedale di (OMISSIS) ("possibile corioamnionite"), assumendo che la diagnosi di dimissione della M. "Algie pelviche in esiti di recente t.c." era insuscettibile di comprovare tale ipotesi e richiamando l’assenza di tale patologia nell’esame autoptico, circostanza che viene invece ben spiegata dalla Dr.ssa F. secondo cui la corioamnionite può essere "limitata e localizzata alla placenta e alla membrana senza dare alcun segno di infezione" nel neonato e nella madre, (pag. 9 sentenza impugnata) nel corso dell’esame autoptico del feto.

Del resto, proprio le non totalmente sovrapponibili osservazioni svolte dalla Prof.ssa F. e dal Dr. Ch. in ordine al momento dell’intervenuta irreversibilità della situazione cronica (cioè se fosse stata presente anche il 21 gennaio o meno) implicano ineliminabili perplessità che necessariamente avrebbero dovuto essere puntualmente fugate dalla Corte di merito per dare la prova della responsabilità anche del dr. G., al di là di ogni ragionevole dubbio.

E’ singolare, infine, come tutti i dati scientifici vengano letti e stiracchiati dalle parti secondo la propria angolazione visiva ed argomentativa, ma di certo le prospettazioni dei ricorrenti, supportate dalla conforme e puntuale lettura dei dati ad opera del giudice di primo grado, appaiono assolutamente non privi di fondamento, segnatamente in funzione della necessità della prova certa della sussistenza del nesso causale tra omissione ed evento, prova che invece appare del tutto evanescente allo stato degli atti.

Alla luce di quanto fin qui argomentato, l’impugnata sentenza deve essere quindi annullata, ai fini civili, con rinvio, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in grado di appello, cui va rimesso anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

Annulla la sentenza stessa relativamente alle statuizioni civili e rinvia sul punto al Giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche il regolamento delle spese del presente giudizio tra le parti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *