Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 16-12-2010) 21-02-2011, n. 6462 Concorrenza sleale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 17.4.2010 il GIP presso il Tribunale di Napoli applicava a S.A. e a S.M.A. la misura cautelare della detenzione in carcere in relazione al delitto di cui all’art. 513 bis c.p. aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

La contestazione mossa agli indagati si inserisce nell’ambito di una più ampia ordinanza di custodia cautelare che vede contestato ad altri indagati il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. quali appartenenti al sodalizio criminale denominato "clan dei Casalesi" facenti capo alla famiglia Schiavone che controllava militarmente la provincia casertana e monopolisticamente diverse attività economiche. In particolare il Gip contestava agli altri indagati di avere operato in detta struttura economico/criminale al fine di conseguire e mantenere, attraverso la società "La Paganese Trasporti & C s.n.c." la gestione monopolistica ed il controllo del trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli di Fondi, Aversa, Parete Trentola, Ducenta e Giugliano e da questi mercati verso il Sud Italia ed in particolare verso i mercati siciliani di Palermo, Catania, Vittoria, Gela e Marsala. In concorso con i gestori della Paganese Trasporti i fratelli S., referenti del sodalizio criminale denominato Cosa Nostra e in particolare delle famiglie Riina e Provenzano, operanti nella Sicilia Occidentale avrebbero imposto ai commercianti che operavano nei mercati della Sicilia Occidentale nonchè nei mercati di Fondi, Aversa e Giugliano la ditta Paganese, o altra ditta designata da quest’ultima, quale ditta che doveva effettuare il trasporto su gomma dei prodotti ortofrutticoli sulle tratte dalla Sicilia Occidentale verso la Campania, il Lazio e altre zone del territorio nazionale.

Avverso l’ordinanza presentavano istanza di riesame avanti il Tribunale di Napoli S.A. e S.M. che, con ordinanza in data 7.6.2010, accoglieva il ricorso e disponeva l’immediata scarcerazione dei fratelli S..

Nell’ordinanza del Tribunale si legge che l’indagine aveva dimostrato in termini di gravità indiziaria le seguenti circostanze:

1. vocazione camorristica della ditta "La Paganese Trasport", privilegiata nel trasporto su gomma nelle tratte indicate dal GIP;

2. estensione operativa della ditta La Paganese in territorio Siciliano e per quello che qui interessa nella Sicilia Occidentale;

3. legami fra i f.lli S. ed appartenenti di Cosa Nostra;

4. successione di S.A. a G.G. (interfaccia di D.M.M. in vari settori imprenditoriali, tra cui quello della grande distribuzione, nel cui ambito gestiva per tutta la Sicilia Occidentale la catena dei Supermercati con marchio Despar) dopo l’arresto di costui;

5. modalità mafiose da parte degli S. nello svolgimento del commercio di ortofrutta. Non solo erano incaricati di ritirare dai trasportatori, oltre al normale prezzo di acquisto delle merci una somma destinata ad altre persone pari ad Euro 50,00 per camion, ma erano anche molto attenti a non commerciare in zone gestite da altre compagini mafiose.

6. collegamenti fra gli S. ed ambienti campani già nel 2002- 2003;

7. estensione, dopo l’ascesa di S.A. all’interno di Cosa Nostra, degli interessi dei fratelli S. al di fuori dei mercati locali con una ripartizione di ruoli che vedeva Massimo occuparsi della concreta gestione dei mercati ortofrutticoli sotto la supervisione del fratello A. che si occupava quasi esclusivamente ai rapporti con la grande distribuzione e che intratteneva significative frequentazioni con esponenti di spicco di Cosa Nostra.

8. imposizione da parte di S.M., forte della protezione delle consorterie locali, dei propri prodotti ai commercianti ortofrutticoli di Villabate, Fondi, Somma Vesuviana e Aversa (episodio ORTOFRUTTICOLA NORMANNA).

9. imposizione a commercianti ortofrutticoli della Sicilia Occidentale a caricare con "La Paganese" (episodio L’ORTOFRUTTICOLA LA PALMA D’ORO di Mangiavillano Antonino).

10. protezione da parte di S.M. a "La Paganese" in territorio siciliano (episodio FAVROTTA Nicola della palermitana NOVATRASPORT sas che tentò di estromettere gli autisti della Paganese chiedendo loro il pagamento del pizzo, senza riuscirci grazie all’intervento degli S.).

In particolare il Tribunale condivideva le conclusioni del GIP circa l’azione sinergica del P. e degli S. e la sottesa convenienza di entrambe le consorterie criminali all’accordo mafia/camorra. Evidenziava che Cosa Nostra, grazie ai casalesi, aveva esteso la propria platea di acquirenti verso i mercati laziali e campani e i casalesi, grazie alla protezione di Cosa Nostra non solo avevano conservato le tratte verso la Sicilia, ma avevano incrementato il loro giro d’affari.

Sosteneva però il Collegio che non era sufficiente, ai fini dell’integrazione del reato in contestazione la circostanza che, in un contesto di criminalità organizzata, un imprenditore, avvalendosi dell’intervento e della forza di intimidazione del gruppo criminale di riferimento riuscisse ad imporre sul mercato la propria attività in via esclusiva o prevalente, così di fatto escludendo gli altri "potenziali" concorrenti, in assenza di atti di prevaricazione posti in essere direttamente od indirettamente nei confronti di uno o più concorrenti determinati o determinabili. Precisava che l’esclusione del mercato dei possibili o potenziali concorrenti, quale effetto dell’avvenuta imposizione di un imprenditore "in odore di camorra" fosse espressione del controllo di tale mercato da parte della criminalità organizzata e potesse essere valorizzato ai fini della contestazione ex art. 416 bis c.p., ma non consentiva di ritenere integrata anche la diversa fattispecie di cui all’art. 513 bis c.p. quale effetto dell’avvenuta imposizione.

In sintesi per il Tribunale il delitto in argomento si configurava solo se all’imposizione di un’impresa da parte della criminalità organizzata faceva effettivamente seguito l’uso di violenza o minaccia volta ad eliminare uno o più concorrenti, in caso contrario anche se l’imposizione aveva comportato una autolimitazione dell’accesso degli altri imprenditori sul mercato era configurabile solo il delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

Sottolineava il giudice del riesame che dall’attività investigativa non erano emersi episodi, riferibili agli S., di illecita concorrenza, con violenza e minaccia e che la contestazione sembrava strutturata intorno ad una diversa architettura normativa: gli atti di illecita concorrenza, indicati per macrocategorie non erano collocati in una precisa cornice spazio-temporale rischiando così di trasformare la fattispecie in esame da reato istantaneo a reato di durata permanente.

Ricorre per Cassazione il P.M. di Napoli deducendo illogicità/contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione della legge Sostiene il ricorrente che è illogico e contraddittorio ritenere che gli S. controllassero con modalità mafiose l’accesso ai mercati ortofrutticoli della Sicilia occidentale e per altro verso ritenere che, laddove in concreto questo potere mafioso era utilizzato (nel caso in esame per agevolare la Paganese) non veniva in rilievo un’attività intimidatoria che minando alla base i principi di libera autodeterminazione delle imprese e della libera concorrenza integrasse la fattispecie di cui all’art. 513 bis c.p.. Così come il Tribunale non aveva tratto le necessarie conclusioni dal fatto che in modo parallelo i casalesi imponevano (episodio ORTOFRUTTICOLA NORMANNA) i prodotti degli S. in Campania. Caso evidente di imposizione mafiosa che impediva il libero gioco della concorrenza fra commercianti ortofrutticoli.

Lamentava il ricorrente che il giudice del Riesame aveva riconosciuto l’esistenza di un patto fra le due diverse consorterie criminali di tipo mafioso in virtù del quale ai casalesi – e quindi alla Paganese – era riconosciuta da Cosa Nostra una posizione di predominio nel settore del Trasporto sulle rotte Sicilia-Campania-Lazio e a Cosa Nostra trapanese – e quindi alle sue articolazioni imprenditoriali nel settore ortofrutticolo – era attribuita una analoga posizione dominante nella commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli dei propri referenti nei mercati campani, ma aveva escluso l’esistenza di atti di violenza a carico degli S. così come richiesti dall’art. 513 bis c.p., senza chiedersi come le due consorterie davano attuazione a tale patto. Evidenziava il ricorrente che se gli S. e i P. fanno parte, come riconosciuto, dal Tribunale, di note consorterie mafiose totalmente egemoni sul loro territorio è evidente che ogni loro volere non realizza una semplice richiesta, ma è una richiesta a cui non ci si può sottrarre, in altre parole: una imposizione. L’intimidazione mafiosa è infatti espressione di una violenza gravissima esercitata attraverso la forza dell’intimidazione. Sostiene il ricorrente che l’utilizzo del metodo mafioso che ha determinato l’assoggettamento degli imprenditori alla volontà ed alle regole del sodalizio dominante sul territorio (che non ha bisogno se non in casi estremi della minaccia aperta e della violenza fisica) ha leso il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, cioè la libertà d’impresa e il libero gioco della concorrenza senza che sia necessaria la consumazione di alcuna forma di violenza fisica o minaccia esplicita.

I difensori degli indagati depositavano memoria scritta nella quale contestavano il ricorso e affermavano la correttezza delle argomentazioni del giudice del riesame.

Il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli è fondato. Come si è visto nella parte in fatto, il Tribunale di Napoli, dopo avere dettagliatamente ed analiticamente descritto la vicenda oggetto del procedimento, ha concluso che, ai fini dell’integrazione del reato in contestazione, non è sufficiente la circostanza che, in un contesto di criminalità organizzata, un imprenditore, avvalendosi dell’intervento e della forza di intimidazione del gruppo criminale di riferimento riesca ad imporre sul mercato la propria attività in via esclusiva o prevalente, così di fatto escludendo gli altri "potenziali" concorrenti, in assenza di atti di prevaricazione posti in essere direttamente od indirettamente nei confronti di uno o più concorrenti determinati o determinabili.

Il tessuto motivazionale dell’ordinanza impugnata presenta quella evidente illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua dei principi affermati da questa Corte anche in riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. e), induce a ritenere sussistente il vizio denunciato dal Procuratore della Repubblica di Napoli.

In effetti, il quadro indiziario, dettagliatamente analizzato nella ordinanza censurata, è stato poi inspiegabilmente svilito dal Tribunale del Riesame, là dove ha concluso che l’esclusione dal mercato dei possibili o potenziali concorrenti, quale effetto dell’avvenuta imposizione di un imprenditore "in odore di camorra" era espressione del controllo di tale mercato da parte della criminalità organizzata e poteva essere valorizzato ai fini della contestazione ex art. 416 bis c.p., ma non consentiva di ritenere integrata anche la diversa fattispecie di cui all’art. 513 bis c.p. quale effetto dell’avvenuta imposizione.

Nel pervenire a tali conclusioni, il Giudice di merito ha ignorato che la norma in esame è stata introdotta dalla L. n. 646 del 1982, art. 8 (Legge antimafia Rognoni – La Torre) proprio con la finalità, peraltro non risultante dal testo normativo, di reprimere l’illecita concorrenza attuata con metodi mafiosi che impedisce il libero gioco del mercato. Il legislatore nella lotta contro la mafia ha infatti cercato di adeguare gli strumenti normativi ai differenti modelli operativi delle associazioni criminali che sono capaci di penetrare nelle attività economiche e produttive attraverso forme di intimidazione al fine di ottenerne il controllo e comunque di condizionarne la gestione. A dispetto della voluntas legis, le cui finalità, come indicato, sono state ben individuate dal legislatore, l’oggettività giuridica immanente al delitto non è immediatamente afferratale. Sono molti i fattori che contribuiscono a delineare l’autonomia della figura rispetto al contesto normativo dal quale è promanata. Deve però rilevarsi che la circostanza che manca il riferimento al carattere mafioso dell’attività incriminata conferisce alla norma una portata generale così da poter essere impiegata anche per reprimere manifestazioni criminali diverse da quelle considerate in via principale dal legislatore.

La previsione in esame, anche se non è limitata ad appartenenti ad associazioni criminali, ha però di mira quella concorrenza illecita che si concretizza nelle forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata che, con metodi violenti e mafiosi, tende a controllare le attività commerciali, industriali, produttive ed a condizionarle (Cass. Sezione 3A sentenza n. 450/1995, Sezione 2A sentenza 13691/2005).

La condotta tipica consiste nel compimento di atti di concorrenza, caratterizzati dalla violenza o minaccia, nello esercizio di un’attività imprenditoriale nei confronti di aziende operanti nello stesso settore; la previsione non sanziona, infatti, ogni forma di concorrenza oltre i limiti legali, ma la turbativa arrecata al libero mercato in un clima di intimidazione e con metodi violenti. Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la norma tende a impedire quei comportamenti intimidatori che attraverso l’uso strumentale della violenza e della minaccia incidono su quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza non solo libera, ma anche lecitamente attuata. (Cass. Sezione 6A sentenza n. 3492/1989, Sezione 2A sentenza 131/1989). Si può perciò affermare che l’interesse tutelato consiste: in primo luogo nel buon funzionamento dell’intero sistema economico e ciò perchè, come è stato rilevato,con tale norma si è voluto, più che reprimere forme di concorrenza sleale, impedire che tramite comportamenti violenti o intimidatori siano eliminati gli stessi presupposti della concorrenza al fine di acquisire illegittimamente posizioni di preminenza o di dominio; in secondo luogo nella libertà delle persone di autodeterminarsi nel settore (Cass. rv. N. 232650). Quindi qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura l’atto di concorrenza illecita prevista dalla norma in questione.

Deve aggiungersi che il testo dell’art. 513 bis c.p. (che fa esclusivo riferimento ad "atti di concorrenza con violenza o minaccia") e la ratio della norma (assicurare che "la concorrenza sia non solo libera ma anche liberamente attuata": Cass., sez. 6, 9 gennaio – 6 marzo 1989, Spano, riv. n. 180706) non lasciano dubbi sul fatto che la concorrenza sleale punita dalla norma in esame si realizza sia quando la violenza o la minaccia è esercitata in maniera diretta contro l’imprenditore concorrente, sia quando l’obiettivo è perseguito in modo indiretto agendo nei confronti di terzi. Ai fini del reato, in altri termini, si richiede esclusivamente l’esistenza di comportamenti caratterizzati da minaccia o violenza (indipendentemente dalla direzione della stessa) idonei a realizzare una concorrenza illecita cioè a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive di terzi con forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata (in questo senso: Cass. Sez. 1^ n. 19713/2005; Cass., sez. 3, 15 febbraio – 24 marzo 1995, Tamborrini, riv. n. 201578);

In base a tali principi, affermati in dottrina e giurisprudenza, non si può dubitare della configurabilità del reato nella fattispecie in esame. L’utilizzo del metodo mafioso – che non ha bisogno se non in casi estremi della minaccia aperta e della violenza fisica e che ha determinato l’assoggettamento degli imprenditori alla volontà e alle regole del sodalizio dominante sul territorio – ha leso il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, cioè la libertà di impresa e il libero gioco della concorrenza senza che fosse necessaria la consumazione di alcuna forma di violenza fisica o di minaccia esplicita. Siffatta interpretazione della norma, in linea con la sua finalità, è stata già recepita dalla giurisprudenza di questa corte.

Il reato contestato, diversamente da quanto indicato dal Tribunale è quindi perfettamente configurabile sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo.

Questi errori di impostazione e questi vizi di motivazione impongono, in accoglimento del ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli per nuova deliberazione.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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