Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-12-2010) 21-02-2011, n. 6455 Armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 24.6.2010 il Tribunale della Libertà di Roma rigettava l’istanza di riesame proposta da N.M., No.Pa. e S.M.R., avverso l’ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere emessa dal gip del locale Tribunale nei confronti di tutti per i reati di cui ai capi 9) (truffa aggravata ed estorsione in danno di T. C.) e 20) (partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, riqualificata dal Tribunale riguardo a N. M. nei termini del concorso esterno ex artt. 110 e 416 bis c.p.);

e inoltre, nei confronti di No.Pa. e S.M. R. per i reati di cui ai capi 4) (tentata estorsione in danno di C.F.), 7) e 8) (reati in materia di armi), 10) (ricettazione di assegno bancario), 14) e 15) (incendio e danneggiamenti in danno di I.G.), 17) (truffa ed estorsione in danno di Ca.Ma.) e 19) (intestazione fittizia di beni); nei confronti di S.M.R. per i reati di cui ai capi 1), 2) e 3) (tentata estorsione e lesioni personali in danno di C.F.; incendio di un’autovettura); e nei confronti di N.M., infine, per il reato di ricettazione di cui al capo 18).

Per tutti i reati fine era stata contestata e ritenuta tanto dal gip che dal giudice del riesame, l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Ricorrono tutti gli imputati per mezzo dei propri difensori.

Motivi comuni fanno riferimento al vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 273, 192 e 292 c.p.p., per avere il tribunale mancato di motivare sull’attendibilità di B.E., collaboratore di giustizia autore di propalazioni accusatorie riguardo a molti dei fatti di reato in contestazione, ma secondo altri collaboranti determinatosi alla scelta di collaborazione per ragioni esclusivamente opportunistiche, e autore di rivelazioni false pur di accreditarsi presso l’autorità giudiziaria.

All’omessa valutazione di tali negative indicazioni di prova sull’attendibilità del B., è riferibile la deduzione del vizio di violazione dell’art. 292 c.p.p., che impone al giudice del cautelare anche la valutazione degli elementi favorevoli all’imputato.

Costante è, nei ricorsi, anche il motivo subordinato attinente al vizio di violazione di legge e al difetto di motivazione del provvedimento impugnato in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Indipendentemente dalle critiche specifiche relative all’impossibilità logica di ravvisare l’aggravante mafiosa in relazione alle concrete circostanze dei singoli fatti di reato, le difese lamentano comunque in generale che la motivazione sul punto dell’ordinanza si limita a riprodurre acriticamente i termini letterali della contestazione.

Per il resto, i ricorrenti deducono, quanto alle varie imputazioni:

S.M.R.:

a) relativamente ai reati di tentata estorsione in danno di C. F. e reati connessi di cui ai capi 1, 2), 3) e 4): violazione degli artt. 273, 192 e 292, mancanza e illogicità della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità della stessa ricorrente; violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Le indicazioni a carico dell’imputata sarebbero costituite esclusivamente dalle dichiarazioni di B.E., la cui attendibilità non sarebbe stata verificata dal Tribunale e sarebbe anzi smentita dalle dichiarazioni di altri collaboratori.

I riscontri indicati dal tribunale non riguarderebbero la S. ma altri personaggi coinvolti.

Le accuse non potrebbero ritenersi confermate dalle dichiarazioni di D.L.M. e Pi.Ra., del tutto generiche e apodittiche e prive di qualunque riferimento a fatti specifici.

Il Tribunale avrebbe indebitamente associato la figura della S. a quella del marito, No.Pa..

Non sarebbe stato approfondito il contesto di relazioni personali in cui si inserirebbe la vicenda, incompatibile con l’ipotesi accusatoria.

L’illogicità dell’accusa sarebbe desumibile anche dalle dichiarazioni di P.A. e B.E., non considerate però, sul punto, dal Tribunale in violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2 ter.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. b) relativamente ai reati in materia armi di cui ai capi 7) e 8):

violazione degli artt. 273 e 192 e mancanza della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità penale;

violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

I giudici del riesame avrebbero in concreto sviluppato le proprie argomentazioni solo nei confronti degli altri soggetti coinvolti nei fatti, registrando a carico dell’imputata soltanto la generica dichiarazione del B. secondo cui la stessa "è come un uomo, si occupa di pulire le armi".

Nel provvedimento, inoltre, non sarebbero indicati riscontri di alcun genere.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. c) relativamente alle imputazioni di truffa ed estorsione in danno di T.C. (capo 9), e del connesso reato di ricettazione di un assegno bancario (capo 10): mancanza della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità penale;

violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

A parte un richiamo alle motivazioni dell’OCC, i giudici del riesame non indicherebbero alcuno specifico elemento di prova individualizzante a carico dell’imputata.

L’unico protagonista della vicenda risulterebbe infatti No.

P..

Non sarebbero riconducibili ai fatti le presunte vanterie della ricorrente sulle sue precedenti esperienze carcerarie, sul suo luogo di origine (Casal di Principe) e sulle sua appartenenza ad una famiglia "potente".

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. d) relativamente ai fatti di incendio e danneggiamento in danno di I.G. (capi 14) e 15): violazione degli artt. 273, 192 e 292 c.p.p., e mancanza della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità della stessa ricorrente;

violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Le indicazioni a carico dell’imputata provenienti dalle dichiarazioni di B.E., sarebbero state apprezzate dal Tribunale senza alcuna verifica critica dell’attendibilità dello stesso collaboratore, che sarebbe anzi smentita dalle dichiarazioni di altri dichiaranti.

Nessun reale indizio di colpevolezza sarebbe logicamente ricavabile dalle dichiarazioni rese dalla S. in sede di interrogatorio di garanzia, nè risulterebbe altrimenti confermato che la ricorrente aveva preteso di non pagare il prezzo delle prestazioni professionali della presunta persona offesa.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. e) relativamente al reato di estorsione in danno di Ca.

M. (capo 17); violazione degli artt. 273 e 192 c.p.p., e mancanza della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità penale; violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Le indicazioni a carico dell’imputata provenienti dalle dichiarazioni di B.E., sarebbero state apprezzate dal Tribunale senza alcuna verifica critica dell’attendibilità dello stesso collaboratore, che sarebbe anzi smentita dalle dichiarazioni di altri dichiaranti.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. f) in ordine al reato di cui alla L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies (capo 19): erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b); violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Mancherebbe la motivazione sul dolo specifico, cioè sulla finalità di eludere possibili misure di prevenzione patrimoniale e di agevolare la commissione del delitto di ricettazione.

Non basterebbe la prova dell’elemento oggettivo del reato.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. g) quanto al reato di cui all’art. 416 bis c.p.: violazione degli artt. 273, 192 e 292, mancanza e illogicità della motivazione (art. 606, lett. e), in punto di affermazione della responsabilità penale.

Le dichiarazioni di B.E., sarebbero state apprezzate dal Tribunale senza alcuna verifica critica dell’attendibilità dello stesso collaboratore, che sarebbe anzi smentita dalle dichiarazioni di altri dichiaranti.

Tutti gli indizi indicati dal giudice del riesame riguarderebbero solo No.Pa..

Il richiamo al ricovero dell’imputata del 28.3.2008 sarebbe del tutto inconferente come elemento di riscontro, perchè l’ingresso in ospedale avvenne tre ore dopo l’agguato subito dal C. e la S. declinò false generalità, mentre se avesse voluto precostituire un alibi a favore del marito si sarebbe fatta accompagnare all’ospedale in coincidenza con il momento dell’attentato e rivelando le proprie generalità autentiche.

Una volta ritenuta l’illogicità del giudizio di gravità indiziaria per il reato di cui al capo 9), questo fatto non potrebbe concorrere neanche ad integrare il quadro indiziario per il reato associativo.

Le dichiarazioni dei collaboranti sarebbero irrilevanti.

Il Co. avrebbe formulato accuse del tutto generiche e prive di riscontri, così come il D.L., autore tra l’altro di una indicazione assolutamente isolata sul coinvolgimento della ricorrente in un incendio ai danni di un cantiere navale; così come isolate sarebbero le indicazioni dello stesso collaborante sull’interesse della ricorrente per l’attività di raccolta di rifiuti.

C.F. sarebbe stato animato dall’odio per la ricorrente per la vicenda di cui al capo 16), che vede imputato il marito della S., No.Pa..

E.A. non cita la ricorrente ma No.Pa., a proposito dell’acquisito di un quantitativo di droga da cedere a C.F..

Peraltro, il No. sarebbe stato assolto in separato procedimento dal reato in questione.

Le dichiarazioni di Pi.Ra. e Pa.Gi. sarebbero troppo datate.

Inoltre, l’ordinanza incorrerebbe in palese contraddizione in ordine alla valutazione dei rapporti tra i N. e il clan dei Casalesi; peraltro, l’autonomia dei primi rispetto al clan in questione, infine affermata dai giudici del riesame, comporterebbe "l’insussistenza dell’organizzazione criminosa"; tutti i reati specifici, infine, avrebbero una causale avulsa da qualsiasi programma criminoso associativo.

No.Pa.. h) in riferimento al reato di cui al capo 4), (tentativo di sequestro in danno di C.F.) la difesa lamenta la violazione degli artt. 273, 192 e 292 c.p.p., e il difetto di motivazione (art. 606, lett. e) in punto di affermazione della responsabilità penale;

deduce, inoltre il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

I giudici del riesame avrebbero illogicamente valorizzato le dichiarazioni di B.E. senza sottoporle al doveroso vaglio di attendibilità e senza considerare le indicazioni di altri collaboranti sulla sua radicale inaffidabilità.

I riscontri sul quadro delle responsabilità per il fatto descritto dal B., riguarderebbero solo il medesimo B. e il Ga..

Il provvedimento sarebbe privo di motivazione anche in ordine alla stessa sussistenza degli estremi oggettivi del tentativo di sequestro, perchè dalla ricostruzione dell’episodio si evincerebbe soltanto che il Ga. e il B. furono feriti dal C., imputato di tentato omicidio nei confronti degli stessi.

Nessuna motivazione sarebbe graficamente identificabile in ordine all’aggravante mafiosa. i) gli stessi profili di censura il ricorrente propone quanto ai reati in materia di armi di cui ai capi 7) e 8); in ordine a tali fatti si registrerebbero solo le dichiarazioni accusatorie di B. E., a proposito delle quali la difesa replica le critiche concernenti in generale la valutazione della sua attendibilità da parte del Tribunale; così come replica la censura del totale difetto di motivazione sull’aggravante mafiosa. l) in ordine ai reati di cui ai capi 9) e 10) (estorsione in danno del T. e connessa ricettazione di una assegno bancario), i vizi di violazione di legge e il difetto di motivazione del provvedimento sono dedotti dalla difesa con riguardo alla consapevolezza dell’imputato circa l’illecita provenienza dell’assegno consegnato al T. in pagamento dei manufatti prefabbricati.

La motivazione sull’aggravante mafiosa, inoltre, sarebbe meramente riproduttiva della contestazione. m) per quel riguarda i reati di tentata estorsione in danno di A.C., e i connessi reati di danneggiamento e in materia di armi (capi 11, 12, 13), la difesa deduce la violazione degli artt. 273 e 192 e il difetto di motivazione (art. 606, lett. e) in punto di affermazione della penale responsabilità; violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

I fatti sarebbero maturati in un contesto di relazioni personali incompatibili con l’ipotesi estorsiva, dal momento che si sarebbe trattato di un’autovettura già in possesso di F.C., dipendente dell’ A..

Mancherebbe inoltre ogni motivazione sull’idoneità del tentativo, sull’attendibilità del B. e sulla sussistenza dell’aggravante mafiosa. n) analoghi vizi di legittimità la difesa deduce con riferimento ai reati di incendio e danneggiamento in danno di I.G., di cui ai capi 14 e 15.

Il Tribunale avrebbe illogicamente valorizzato le dichiarazioni etero ed autoaccusatorie del B., non sottoposte al necessario vaglio di credibilità, provenienti da soggetto indicato come assolutamente inaffidabile da altri collaboratori e del tutto prive di riscontri, non avendo trovato in particolare alcuna conferma in altre fonti di prova la pretesa della S. di non pagare le prestazioni professionali della presunta persona offesa. o) la valutazione della gravità indiziaria in ordine al reato di estorsione in danno di C.F., avente ad oggetto una transazione negoziale relativa ad un’autovettura Audi Q7, sarebbe stata incongruamente effettuata dal Tribunale senza analizzare il contesto delle relazioni personali che fanno da sfondo alla vicenda, e senza considerare l’illogicità dell’accusa rispetto ai vari passaggi di proprietà, che non sarebbero stati curati dalle persone offese se non avessero ricevuto il prezzo della vendita.

Il motivo è concluso dalla consueta censura relativa al difetto di motivazione sull’aggravante mafiosa, che sarebbe oltretutto logicamente incompatibile con l’evidente limitazione del fatto alla sfera privata dei protagonisti, senza alcun collegamento con finalità associativi. p) con riferimento al reato di estorsione in danno di Ca.

M. (capo 17), la difesa deduce il vizio di violazione degli artt. 628 e 629 e 640 c.p. e degli artt. 273 e 192 c.p., e il difetto di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità.

A tutto concedere, i fatti sarebbero in realtà interamente riconducibili all’ipotesi della truffa, non risultando da nessuna fonte di prova che l’imputato avesse mai rivolto minacce alla persona offesa.

Solo una truffa sarebbe al più desumibile dalla conversazione tra i due Fl. dell’8.4.2009.

Quanto all’aggravante mafiosa, non solo sarebbe registrabile l’assoluto difetto di motivazione sul punto del provvedimento impugnato, ma si tratterebbe di un fatto privato che esula dalle finalità associative. q) in ordine al reato di cui alla L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies (capo 19): il ricorrente deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b); violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Mancherebbe la motivazione sul dolo specifico, cioè sulla finalità di eludere possibili misure di prevenzione patrimoniale e di agevolare la commissione del delitto di ricettazione.

Non basterebbe la prova dell’elemento oggettivo del reato.

Non vi sarebbe motivazione alcuna sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. r) con riferimento al reato associativo (capo 20), la difesa lamenta la violazione degli artt. 273, 192 e 292 c.p.p., e il difetto di motivazione (art. 606, lett. e) in punto di affermazione della responsabilità penale; i reati "specifici" sarebbero estranei alla sfera associativa; le dichiarazioni dei collaboratori, in particolare di B.E., non sarebbero state sottoposte al necessario vaglio di attendibilità; quanto al B., inoltre, il tribunale avrebbe omesso di valutare, in violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2 ter, le indicazioni sulla sua totale inaffidabilità provenienti da altri collaboratori;

il richiamo alla vicenda del ricovero di S.R.M. del 28.3.2008 sarebbe del tutto inconferente come elemento di riscontro, perchè l’ingresso in ospedale avvenne tre ore dopo l’agguato subito dal C. e la S. declinò false generalità, mentre se avesse voluto precostituire un alibi a favore del marito si sarebbe fatta accompagnare all’ospedale in coincidenza con il momento dell’attentato e rivelando le proprie generalità autentiche.

Una volta ritenuta l’illogicità del giudizio di gravità indiziaria per il reato di cui al capo 9), questo fatto non potrebbe concorrere neanche ad integrare il quadro indiziario per il reato associativo.

Le dichiarazioni dei collaboranti sarebbero irrilevanti.

Il Co. avrebbe formulato accuse del tutto generiche e prive di riscontri, così come il D.L., autore tra l’altro di una indicazione assolutamente isolata sul coinvolgimento del ricorrente in un incendio ai danni di un cantiere navale; così come isolate sarebbero le indicazioni dello stesso collaborante sull’interesse del ricorrente per l’attività di raccolta di rifiuti.

C.F. sarebbe stato animato dall’odio per l’imputato per la vicenda di cui al capo 16) e per l’agguato subito;

E.A. si sarebbe in sostanza limitato a riferire un unico fatto specifico cioè di avere personalmente venduto al ricorrente un quantitativo di droga da cedere a C.F..

Peraltro, il No. sarebbe stato assolto in separato procedimento dal reato in questione.

Le dichiarazioni di Pi.Ra. e Pa.Gi. sarebbero troppo datate. Inoltre, l’ordinanza incorrerebbe in palese contraddizione in ordine alla valutazione dei rapporti tra i N. e il clan dei Casalesi; l’autonomia dei primi rispetto al clan in questione, infine affermata dai giudici del riesame, comporterebbe oltretutto "l’insussistenza dell’organizzazione criminosa";. tutti i reati specifici, infine, avrebbero una causale avulsa da qualsiasi programma criminoso associativo.

Il difensore di N.M. deduce il vizio di violazione dell’art. 273 c.p.p., e il difetto di motivazione dell’ordinanza, in punto di gravità indiziaria per tutti i reati a lui ascritti, nonchè il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine all’aggravante mafiosa.

Ed invero:

Quanto al reato di cui al capo 9) (estorsione e truffa in danno di T.C. in relazione all’acquisto di un prefabbricato da parte dei coimputati) la difesa rileva che gli autori dell’acquisto furono No.Pa. e S.M.R.; che nessuna indicazione di prova vede coinvolto N.M. neanche nella fase successiva della consegna; che sarebbe infine del tutto arbitrario ipotizzare la consapevole implicazione nei fatti del ricorrente solo per la sua disponibilità a custodire il prefabbricato nell’area della propria villa.

Il Tribunale avrebbe inoltre trascurato le coerenti spiegazioni fornite dall’imputato sulle ragioni del suo marginale intervento nella vicenda e avrebbe attribuito un indebito significato accusatorio alle dichiarazioni del T. relative all’intimazione rivoltagli dal ricorrente di spostare dall’ingresso della sua villa il furgone con il quale lo stesso T. era giunto sul posto.

Inesistente sarebbe la motivazione sull’aggravante mafiosa, non rilevabile peraltro in alcun modo dalle circostanze dei fatti e dal presumibile scopo delle ipotetiche condotte criminose;

Con riferimento al reato di cui al capo 18 (ricettazione di alcune autovetture provenienti da una truffa consumata da No.

P. in danno di D.V.C., titolare della "(OMISSIS) s.r.l." di Pompei, l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato sarebbe ricavabile, secondo la difesa, dalla considerazione che nessuno dei protagonisti della vicenda, dal D.V. al C., a Sa.Fr., avrebbe mai accennato all’implicazione del ricorrente.

Non potrebbe poi essere smentita sul piano logico l’affermazione dello stesso ricorrente secondo cui le autovetture in questione furono scaricate a sua insaputa nel piazzale antistante la sua casa di abitazione, alla quale peraltro il figlio aveva autonomo accesso.

Il Tribunale avrebbe inoltre chiaramente enfatizzato la valenza probatoria delle dichiarazioni del B. secondo cui "il padre era sempre informato", cioè il ricorrente era regolarmente messo a parte delle iniziative criminose del figlio, affermazione generica e apodittica, oltre che proveniente da un collaborante inaffidabile e comunque non sottoposto ad alcun vaglio di attendibilità dai giudici del riesame.

Peraltro, nel valorizzare tale affermazione, il Tribunale sarebbe incorso in contraddizione con quanto altrove affermato riguardo all’impossibilità di identificare, sulla base delle dichiarazioni dello stesso B., un preciso ruolo del ricorrente all’interno della presunta associazione criminosa guidata dal figlio.

Inesistente sarebbe inoltre la motivazione sull’aggravante mafiosa, anche in considerazione degli sviluppi giudiziali della vicenda riguardo al C., originariamente coimputato dello stesso fatto ma successivamente assolto, con la conseguente riduzione dei correi del ricorrente al solo figlio P..

Con riguardo all’ipotesi associativa, infine, il ricorrente contesta il giudizio di gravità indiziaria anche in quanto riferito dal Tribunale all’ipotesi del concorso esterno in luogo dell’originaria contestazione della partecipazione "organica" al sodalizio criminoso.

I giudici del riesame non avrebbero potuto valorizzare le vaghe indicazioni accusatorie del B., che escludono anzi un qualunque ruolo specifico del ricorrente all’interno dell’associazione criminosa, tutto il contrario della condotta tipica del concorrente esterno, che deve esplicarsi in un concreto, specifico, consapevole e casualmente rilevante contributo alle sorti del sodalizio.

L’orizzonte dei pretesi interessi criminali del ricorrente non supererebbe l’intento di favorire esclusivamente i suoi prossimi congiunti; i fatti specifici oggetto delle imputazioni sub 9) e 18) non sarebbero in alcun modo riconducibili ad alcun programma associativo.

I giudici del riesame avrebbero poi del tutto trascurato che nessuna indicazione a carico del ricorrente hanno formulato i collaboranti Co.Lu. e D.L.M., pur trattandosi di soggetti che avrebbero avuto intensi rapporti con No.Pa. e S.M.R..

Tutti i ricorrenti chiedono quindi l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con le stazioni consequenziali.

Manifestamente infondato è il ricorso proposto nell’interesse di No.Pa.; qualche approfondimento meritano le censure articolate a favore di N.M., per quanto debbano ugualmente ritenersi non meritevoli di accoglimento.

L’ordinanza impugnata va invece parzialmente annullata nei confronti di S.M.R. nei termini di cui appresso, con il rigetto, nel resto, del ricorso.

1. Vanno premesse all’analisi dei singoli ricorsi, alcune considerazioni di carattere generale, afferenti, anzitutto, alla tecnica argomentativa utilizzata dai giudici del riesame – caratterizzata dal frequente rinvio alle (e comunque dalla dichiarata condivisione delle) motivazioni dell’ordinanza cautelare – e all’apprezzamento dell’attendibilità dei dichiaranti, con particolare riferimento al B.E., riguardo al quale sono fortemente insistite le critiche difensive alle valutazioni del tribunale, trattandosi di un collaborante che si sarebbe determinato alla scelta di collaborazione per ragioni esclusivamente opportunistiche tanto da spingersi fino all’utilizzazione di rivelazioni false pur di accreditarsi presso l’autorità giudiziaria.

Sotto il primo profilo, va ribadito che in tema di misure cautelari, il provvedimento restrittivo della libertà personale e l’ordinanza che decide sul riesame sono strettamente collegati e complementari, con la conseguenza che la motivazione dell’ordinanza del Tribunale della libertà integra e completa l’eventuale carenza di quella del G.i.p. ed allo stesso modo la motivazione insufficiente del giudice del riesame ben può ritenersi integrata da quella del provvedimento impugnato.

Ne consegue che laddove si faccia questione della sufficienza, congruità ed esattezza delle indicazioni presenti nel provvedimento cautelare concernenti gli indizi e le esigenze cautelari, legittimamente il tribunale integra e sana la motivazione insufficiente del provvedimento impugnato (su questi principi, cfr., ad es., Corte di Cassazione SENT. 16587 24/03/2010 SEZ. 5^, imp. Di Lorenzo e altro).

La questione assume specifico rilievo nella misura in cui sia dato di volta in volta di rilevare, nelle deduzioni difensive, un approccio incompleto al costrutto motivazionale complessivo dei due provvedimenti, cautelare e di riesame, riuscendone per converso rafforzata la tenuta dell’ordinanza impugnata allo scrutinio di legittimità.

Quanto alle presunte carenze argomentative del provvedimento circa l’attendibilità del B., va anzitutto escluso che i giudici territoriali abbiano inteso eludere il problema, mancando così all’obbligo di motivare in parte qua anche sugli elementi favorevoli agli indagati alla stregua della specifica prescrizione dell’art. 292 c.p.p., comma 2 ter.

In realtà (vedi a pag. 22), la questione viene affrontata dai giudici del riesame, che danno atto dei dubbi emersi sulla attendibilità del B., ma li ritengono circoscritti a singoli episodi non oggetto dell’ordinanza cautelare, ribadendo l’apprezzamento positivo del contributo del dichiarante in questo procedimento soprattutto in ragione della particolare qualità dei riscontri, in alcuni casi ritenuti addirittura autosufficienti sotto il profilo probatorio.

Con ciò, il tribunale mostra un corretto approccio al tema, sul piano dei principi, richiamando in sostanza il criterio del rapporto di proporzionalità inversa tra l’attendibilità intrinseca del soggetto esaminato come imputato del medesimo reato o di reato connesso, e la forza probatoria che debba ritenersi necessaria in ordine agli elementi di conferma della fonte dichiarativa (cfr. Corte di Cassazione sez. 6^, Sent. Nr. 20514 del 28/04/2010, Arman Ahmed e altri, secondo cui l’accertata falsità della chiamata di correo in ordine ad uno specifico fatto narrato non comporta, in modo automatico, l’aprioristica perdita di credibilità di tutto il compendio conoscitivo-narrativo dichiarato dal collaboratore di giustizia, rientrando piuttosto nei compiti del giudice la verifica e la ricerca di un "ragionevole equilibrio di coerenza e qualità" di ciò che viene riferito nel contesto di tutti gli altri fatti narrati, anche se nel rispetto del criterio secondo cui la debole valenza di attendibilità soggettiva deve essere compensata con l’individuazione di un più elevato e consistente spessore dei riscontri, attraverso il necessario minuzioso raffronto con le verifiche di credibilità estrinseca delle dichiarazioni).

D’altra parte è il caso di rilevare che le difese non si sono spinte oltre la generica indicazione degli attestati di inattendibilità del B., mancando soprattutto di indicare in quali casi e a carico di quali soggetti le accuse del dichiarante si siano rivelate calunniose, secondo il profilo di valutazione più pertinente rispetto ai contenuti etero-accusatori del suo contributo.

E ciò senza considerare che l’unica reale ragione di dubbio sull’attendibilità del B., per quel che risulta dalle indicazioni del giudice della cautela e del tribunale del riesame, riguarderebbe le dichiarazioni rese dal collaborante sul tentato omicidio in danno del C. del 28.3.2008, oggetto di separato procedimento, nella parte in cui egli intese minimizzare il proprio coinvolgimento nel fatto, senza nemmeno escluderlo del tutto (risulterebbe infatti la personale partecipazione all’attentato del B., che affermò però di essersi limitato a procurare le armi ad altri esecutori).

Si vedrà poi che secondo il criterio della verifica caso per caso dei contenuti narrativi delle rivelazioni del B. riguardo a singoli episodi criminosi, l’attendibilità del collaborante non pare minimamente scalfita dalle deduzioni difensive.

La corretta valutazione delle dichiarazioni dei collaboranti e dei riscontri riguardanti anche i numerosi reati fine, da conto poi della ritenuta sussistenza, da parte dei giudici territoriali, del reato associativo di cui al capo 20 anzitutto con riferimento alla questione ovviamente fondamentale, della stessa rilevabilità di una struttura criminale operante nei territori di Latina e limitrofi, con i metodi tipici delle associazioni mafiose.

Qui basta anticipare la considerazione del sistematico ricorso a forme anche estreme di intimidazione nel perseguimento di progetti di acquisizione di attività economiche, implicito ad es., secondo le giuste sottolineature dei giudici territoriali, nelle vicende riguardanti il C., in cui è già incisivamente esemplificato il coordinamento organizzato delle attività criminali di più soggetti, attuato nei modi di un’aggressione pervicacemente ripetuta nel tempo agli interessi di vita e di lavoro della vittima.

E si può aggiungere il rilievo, pur esso congruamente formulato dai giudici territoriali, della situazione di forte pressione psicologica che derivò da quelle vicende alla moglie del C., costretta ad abbandonare i luoghi delle dispute tra il marito e gli imputati per quanto potesse vantare natali "qualificati" dal punto di vista di certe referenze personali, essendo essa stessa figlia di un esponente mafioso, con il quale gli imputati non ebbero quindi paura di confrontarsi.

Negli stessi termini di un generale approccio ricostruttivo alle tematiche associative, va dato ancora conto dei rilievi difensivi attinenti alla presunta impossibilità di inquadrare singoli fatti criminosi nel contesto di un programma delinquenziale.

Particolarmente sottolineata dalla difesa è ad es., la presunta dimensione "privata" della vicenda di cui al capo 16 (truffa ed estorsione in danno di Sc.Ge.).

Sul punto, va però considerato che nel richiamare le propalazioni accusatorie del B., i giudici territoriali ricordano, tra l’altro (pag. 38), che il collaborante aveva fatto riferimento al progetto della coppia No. – S., di vivere "mettendo sotto le persone, facendo truffe"; secondo un costume che nei suoi aspetti parassitari è certamente coerente con il modello comportamentale mafioso e che nel caso di specie trova esplicita corrispondenza nella formulazione dell’imputazione associativa, nella parte in cui inserisce nel programma associativo anche il progetto di una sistematica attività truffaldina, e si può già anticipare che nell’indicazione di tali aspetti programmatici dell’associazione mafiosa in oggetto, le dichiarazioni del B. ricevono formidabili riscontri, a conferma della inattaccabilità del criterio di valutazione caso per caso dell’attendibilità dello stesso collaborante adoperato dai giudici territoriali.

Va poi considerato che secondo una costante dei fatti di truffa in contestazione, così come convenientemente analizzati e valutati dalla Corte territoriale, i raggiri ai danni delle vittime costituivano soltanto l’embrionale anticipazione di ben diversi presidi criminali a sostegno della conquista e del consolidamento di vantaggi ingiusti, ottenuti dagli imputati anche con il ricorso all’esplicita forza dell’intimidazione mafiosa, la commistione tra condotte truffaldine ed estorsi ve essendo del resto plasticamente espressa dal costante abbinamento delle due fattispecie di cui agli artt. 640 e 629 c.p., nello stesso capo di imputazione.

Tali considerazioni refluiscono direttamente sull’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 dal momento che tutte le condotte di truffa e di estorsione debbono considerarsi attuative del programma associativo, e tali sono state in sostanza correttamente valutate dal tribunale.

Peraltro, nemmeno rileverebbe, per sè, la presunta dimensione "privata" dei fatti dedotta dalla difesa rispetto all’una o all’altra condotta di truffa o di estorsione, perchè essa non escluderebbe comunque l’utilizzazione del metodo mafioso, alla stregua di uno degli aspetti dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 invariabilmente considerati dall’accusa nella contestazione della stessa circostanza in ordine ai vari reati-fine.

E’ poi appena il caso di rilevare, con riguardo agli stessi reati, che nessun problema si pone circa la compatibilità dell’aggravante mafiosa con la concorrente contestazione ai ricorrenti dell’ipotesi associativa (cfr., ex plurimis, Cass. nr. 15483 del 26/02/2009 SEZ. 6^, Marsala, secondo cui la circostanza aggravante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, è configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso ed è altresì compatibile con la circostanza aggravante di cui all’art. 629 c.p., comma 2).

2. Il provvedimento impugnato resiste alle critiche difensive anche in relazione all’affermazione del coinvolgimento di tutti i ricorrenti nella struttura criminale in questione.

Quanto ai coniugi S.M.R. e No.Pa., il tribunale ricorda non solo le plurime indicazioni a loro carico da parte di numerosi collaboratori di giustizia, ma anche l’implicazione di entrambi in numerosi reati fine, nella generalità dei casi correttamente rilevata sul piano della gravità indiziaria, fatta eccezione per quel che si dirà riguardo alla S. in ordine all’imputazione sub 17.

Si è già detto poi come i giudici territoriali abbiano correttamente ritenuto la riconducibilità dei singoli reati fine allo specifico programma criminale del sodalizio, e si è anticipata l’adeguata sottolineatura, nell’ordinanza impugnata, delle vicende concernenti il C. in quanto particolarmente significative di un modus operandi dei ricorrenti omologabile al modello criminale descritto nell’art. 416 bis c.p..

Le notazioni difensive, per converso, si riducono a qualche sparso rilievo critico, come quello, già esaminato, relativo alla presunta inattendibilità del B., o come l’altro, del tutto generico, della troppo datata collocazione temporale delle indicazioni di altri collaboratori, che non cesserebbero di arricchire il quadro indiziario se pure fossero radicate in un passato più o meno remoto, al quale riferire l’origine storica dell’appropriazione da parte dei ricorrenti, del costume mafioso, che ben difficilmente viene abbandonato, peraltro, da chi ne abbia fatto pratica per affermare i propri interessi criminali.

Del tutto vano risulta poi il tentativo difensivo di sminuire la portata indiziaria dell’episodio del "falso" ricovero ospedaliere della S. del 28.3.2008, più che congruamente apprezzato invece, dai giudici territoriali, come sintomatico del legame, non solo coniugale, ma eminentemente criminale, tra la S. e No.Pa..

Nella tarda serata del 28.3.2008, intorno alle 23,30 circa, C. F. era stato destinatario di numerosi colpi di arma da fuoco esplosi dall’interno di un’autovettura che aveva intercettato all’altezza del Km 59,50 della statale Appia, quella su cui viaggiava la vittima designata.

Il C. era fortunosamente scampato all’attentato, rimanendo indenne.

Circa tre ore dopo, alle ore 2,20, un’autovettura con a bordo tre soggetti, che le indagini avrebbero poi consentito di identificare nel No.Pa., nella S. e in un altro personaggio, veniva fermata da militari dell’arma dei carabinieri, ma gli occupanti riuscivano a sottrarsi al controllo grazie all’espediente utilizzato dalla S. di fingersi incinta e bisognosa di cure urgenti.

La donna si era poi fatta accompagnare al più vicino ospedale, dove aveva fornito false generalità e aveva rappresentato ai sanitari soltanto un generico malore.

Ebbene, non è comprensibile al riguardo il rilievo della difesa secondo cui non avrebbe senso che la S., a tre ore di distanza dall’attentato al C. intendesse fornire un alibi al marito.

E’ del tutto ovvio, infatti, come nota incisivamente il giudice del cautelare, che in realtà la donna era preoccupata della possibilità che gli inquirenti finissero con il ricollegare le circostanze del controllo di polizia, in quanto eventualmente più approfondito in assenza della sua pronta iniziativa di depistaggio, all’attentato di poche ore prima in danno del C..

Nella stessa logica va valutata la falsità delle dichiarazioni poi rese dalla donna sulle proprie generalità ai sanitari del pronto soccorso dove era stata "costretta" a riparare per evidenti ed ineludibli ragioni di "coerenza" con la messinscena architettata.

Nessun cenno vi è poi, nelle deduzioni difensive, del contenuto della telefonata del 28.3.2008 tra il C. e la moglie, ricordata nell’OCC (pag. 12), e sicuramente rilevante nella ricostruzione del contesto di riferimento dell’episodio in cui è personalmente coinvolta la S., nel corso della quale il C. rivelava di avere riconosciuto No.Pa. tra gli autori dell’agguato, e affermava che avrebbe dovuto ucciderli per prima lui.

Nè rileva, alla stregua di altre censure difensive, che l’episodio criminoso sia oggetto di separato procedimento, perchè questo non impedisce certo l’analisi in altre sedi processuali degli stessi fatti storici che sostanziano la specifica imputazione "separata", ai fini di diversi accertamenti giudiziari.

Ed è appena il caso di aggiungere, a fronte delle numerose notazioni dell’ordinanza impugnata riguardanti particolarmente la S., peraltro molto ampie e diffuse rispetto alle alquanto riduttive interlocuzioni difensive, che nelle valutazioni dei giudici territoriali la figura criminale della stessa ricorrente si profila nella sua connotazione "individuale", senza alcun indebito e aprioristico appiattimento della sua posizione su quella del marito.

Per il resto, i rilievi difensivi offrono qua e là marginali spunti di riflessione, ma senza riuscire mai ad indebolire significativamente la complessiva trama motivazionale del provvedimento impugnato, in quanto solidamente intessuta del riferimento a dati di fatto, circostanze storiche, eventi criminali e prove logiche che si pongono rispetto alle fonti dichiarative in rapporto di pari se non superiore "dignità" indiziaria.

Anche riguardo alla posizione associativa di N.M. le motivazioni "integrate" dell’OCC e dell’ordinanza del riesame non prestano il fianco a critiche sotto il profilo logico-giuridico.

Nell’ordinanza impugnata si ricordano, oltre alle dichiarazioni del B., anche quelle del Pa., che definisce il ricorrente come un "vecchio truffatore", non organico al clan ma a disposizione degli affiliati, ai quali soleva offrire supporto logistico per la custodia di armi e di autovetture.

A proposito delle dichiarazioni del B., la difesa lamenta la loro genericità, ma isola dal contributo del dichiarante soltanto il suo riferimento al fatto che N.M. sarebbe stato sempre informato di tutte le iniziative criminali del figlio.

In realtà, come si ricorda nell’OCC (pag 35), il B. aveva anche riferito che N.M. si occupava di riciclare i proventi delle attività illecite del clan, indicazione che si incrocia con quella del Pa. circa il coinvolgimento del ricorrente in maneggi di denaro proveniente da fatti criminali riferibili alla stessa cosca.

Del tutto logicamente poi, il tribunale ha valorizzato come elemento di riscontro delle dichiarazioni dei due collaboratori, le circostanze della personale implicazione del ricorrente nei reati in danno di T.C. (capo 9), e di D.V.C. (capo 18), trattandosi di tipiche condotte di supporto logistico ad attività criminali altrui.

Peraltro, ricorda il giudice del cautelare che una delle autovetture proveniente dalla truffa e dalla successiva estorsione in danno del D.V., la fiat Panda di colore giallo tg. (OMISSIS), era stata poi utilizzata nel corso delle vicende criminali che avevano opposto il clan a C.F. (capi da 1 a 6 della rubrica), circostanza che ben si accorda con l’indicazione del Pa., anch’essa sottolineata dal gip, circa l’utilizzazione per scopi criminali, in una precedente occasione, di un’autovettura Renault disponibile nel parcheggio del ricorrente.

E’ ovvio poi che la valutazione delle indicazioni dei collaboratori circa l’impossibilità di identificare un preciso ruolo del ricorrente all’interno del clan, deve fare i conti, di là dalle apparenze, con il ruolo del ricorrente, invece alquanto preciso, e congruamente apprezzato dai giudici territoriali, che emerge nel passaggio dalla menzione di quelle assertive enunciazioni alla rilevazione di condotte concrete di supporto alle attività criminali del clan. In definitiva, i profili di censura svolti dalla difesa si rivelano ancora una volta riduttivi rispetto alla reale consistenza del quadro indiziario, e non colgono significative contraddizioni nelle argomentazioni dei giudici territoriali.

1. Largamente infondate sono le censure difensive anche in ordine ai reati fine, dovendosi rilevare in ordine alle singole vicende criminose: – tentata estorsione in danno di C.F., lesioni personali in danno di D.F., incendio (capi 1,2 e 3), contestati in questo procedimento soltanto alla S. essendo stati i concorrenti (tra i quali No.Pa.) giudicati separatamente; tentato sequestro di persona in danno del predetto C. (capo 4); contestato in concorso ad entrambi i coniugi N..

Tutte le vicende criminali oggetto delle contestazioni in esame sono inquadragli secondo l’accusa, nel progetto dei due coniugi di impadronirsi del ristorante l’"(OMISSIS)" gestito in Cisterna Latina dal C..

La difesa punta essenzialmente sulla questione, già esaminata, della presunta inattendibilità del B. e contestano, analogamente la logicità della valutazione di attendibilità dello stesso C..

Ma i giudici territoriali rilevano un serie di riscontri estrinseci delle dichiarazioni del C. e del B., sottolineando, anzitutto, a conferma del complessivo quadro indiziario, la pronuncia di condanna già intervenuta nei confronti del No.Pa., del B. e di altri correi, nel separato procedimento a loro carico per i fatti di cui ai capi 1, 2 e 3, non rilevando nella sede cautelare che si tratti di sentenza non definitiva (nel senso che i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l’applicazione di una misura cautelare personale possono essere validamente costituiti dalle risultanze di altri procedimenti non ancora conclusi con sentenza divenuta irrevocabile, atteso che la previsione di cui all’art. 238 bis c.p.p. si riferisce esclusivamente alle fonti di prova utilizzabili nel giudizio, cfr. Corte di Cassazione 06/11/2008 Calabrese e altro).

Il contesto criminale evocato dal B. e dagli altri dichiaranti è confermato anche dall’utilizzazione, nelle vicende criminali in esame, della FIAT Panda nella disponibilità del C., e dal contenuto della già ricordata telefonata tra il C. e la moglie del 28.3.2008, dati indiziali entrambi sottolineati dai giudici del riesame nel corpo del provvedimento.

Quanto alla specifica posizione della S., il tribunale ricorda le dichiarazioni della D., moglie del C., secondo cui la donna soleva spadroneggiare all’interno del ristorante l’"(OMISSIS)", dove consumava pasti insieme ai suoi "ospiti" senza pagare il conto; e sottolinea, ancora, il coinvolgimento dell’imputata nelle vicende del 28.3.2008, quando la S. si incaricò di eludere un controllo di polizia immediatamente successivo al tentato omicidio in danno del C., fatto pacificamente riferibile allo stesso contesto di interessi economico- criminali.

Del tutto logica è quindi, la valorizzazione delle dichiarazioni del B. sul costante coinvolgimento dell’imputata nel progetto di "espropriazione" mafiosa del locale "(OMISSIS)", e in tutte le sue concrete esplicazioni criminali.

Il perseguimento di fini associativi è poi trasparente in tutta la ricostruzione della vicenda da parte dei giudici territoriali, che la collocano nell’ambito dei progetti di espansione della cosca nel territorio di Cisterna Latina, attraverso l’accaparramento con metodi mafiosi, di attività economiche ritenute appetibili.

Tanto comporta la correttezza della valutazione della sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

– tentata estorsione e danneggiamento in pregiudizio di A. C., e connessi reati di detenzione e porto abusivi di armi da fuoco, tutti contestati a No.Pa.; la difesa pretende di opporre all’accurata ricostruzione dei fatti e alla valutazione della gravità indiziaria da parte dei giudici di merito, considerazioni a volte nemmeno pertinenti, in generale comunque assolutamente riduttive rispetto alle numerose fonti di prova analizzate nell’ordinanza.

In pratica la difesa si limita a reiterare le censure relative al giudizio di attendibilità del B., le cui dichiarazioni sono però ancora una volta tutt’altro che decisive, essendo il quadro indiziario completato dal significativo contenuto di alcune intercettazioni telefoniche e dalle dichiarazioni di F. C., la dipendente dell’ A. a favore della quale il ricorrente era intervenuto per risolvere le dispute insorte la stessa e il suo datore di lavoro relazione alla permuta di due mezzi.

Ricordano anzi, al riguardo, i giudici di merito, che il No. si era in pratica vantato con la donna di avere esploso dei colpi di arma da fuoco contro le vetrine del negozio dell’ A..

Alla luce di tali indicazioni processuali, peraltro, anche il contributo dichiarativo del B. è stato comunque convenientemente apprezzato dai giudici territoriali, in funzione della qualità dei riscontri.

Il fatto che la F. fosse già in possesso dell’autovettura cedutale dall’ A., è poi deduzione difensiva non troppo meditata, perchè la circostanza non esclude affatto, com’è del tutto ovvio, l’interesse della donna ad ottenere la consegna dei documenti di circolazione del mezzo.

La difesa non interloquisce sulle rispettive ragioni della F. e dell’ A., al fine di "qualificare" l’intervento del ricorrente, ma i mezzi del tutto sproporzionati usati da costui, che sparò in ore notturne ripetuti colpi di numerose armi da fuoco contro la vetrina del negozio dell’ A., implicano la minaccia estorsiva per l’evidente eccesso dell’intimidazione rispetto a qualunque possibile movente.

Al riguardo, correttamente i giudici territoriali rilevano che il No. agì nella vicenda anche per il concorrente (e illecito) scopo di affermare la sua autorità criminale, e sottolineano che infine la questione fu risolta proprio in un contesto di mediazioni mafiose (cfr. Corte di Cassazione 04/11/2009 SEZ. 2^, Ferranti, secondo cui integra la minaccia costitutiva del reato di estorsione quella che pur consistente nell’esercizio di una facoltà o di un diritto spettante al soggetto agente – e dunque all’apparenza legale – diviene "contra ius" per l’uso di mezzi giuridici legittimi diretti a ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, come quando la minaccia sia fatta con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia).

Di tutta evidenza è infine la riconducibilità delle gravissime intimidazioni poste in essere dal ricorrente alle tipiche esplicazioni concrete del metodo mafioso, – reati in materia di armi:

capi 7) ed 8).

Le deduzioni difensive riguardo alla valutazione, da parte dei giudici del riesame, della gravità indiziaria in ordine a queste ipotesi di reato, sono del tutto generiche e insufficienti.

Basta qui rinviare a quanto si è appena detto circa l’analisi delle risultanze istruttorie contenuta nell’ordinanza impugnata riguardo al danneggiamento in danno dell’ A., e al tentato omicidio in danno del C. del 28.3.2008, in quest’ultimo episodio emergendo peraltro anche il coinvolgimento della S. in termini adeguatamente ritenuti dal Tribunale significativi della sua consapevole partecipazione alla vicenda; il quadro indiziario a carico del No.Pa. appare pertanto ferreo, mentre non può condividersi, riguardo alla S., la deduzione difensiva secondo cui l’accusa nei confronti della stessa ricorrente si reggerebbe solo sulla generica affermazione del B. secondo cui la donna aveva con le armi un rapporto "maschile" e si incaricava di "pulirle".

In realtà, il tribunale esamina gli indizi della collocazione della donna all’interno della cosca, che implicano la conoscenza delle modalità operative del gruppo, e il suo specifico coinvolgimento in vicende criminali nelle quali emerge l’uso di armi micidiali.

Per il numero e la potenzialità offensiva delle armi in questione, correttamente il gip rileva (pag. 14), con riferimento anche al significativo contributo del B., che si trattava di mezzi offensivi nella disponibilità dell’intero sodalizio criminoso, con la conseguente ineccepibilità dell’affermazione della sussistenza dell’aggravante mafiosa.

– truffa ed estorsione in danno di T.C., e connessa ricettazione di assegno bancario (capi 9) e 10), contestati ad entrambi i coniugi S.;

Le censure proposte nell’interesse di No.Pa. sono davvero debolmente sostenute dalle argomentazioni difensive.

La questione relativa all’elemento psicologico del delitto di ricettazione dell’assegno di provenienza delittuosa che venne rilasciato in pagamento di una casa prefabbricata e di una cover auto, è infatti pregiudicata dalla considerazione delle norme che regolano la circolazione di titoli di credito, non potendone mai essere giustificato il possesso, nemmeno in termini di buona fede, da parte di chi sia del tutto privo della necessaria legittimazione cartolare; per il resto, la vicenda è correttamente rievocata dai giudici territoriali sulla base di numerose testimonianze "pure", sulle quali la difesa non interloquisce particolarmente, e che danno conto dell’evoluzione dei fatti dall’iniziale truffa alle condotte di violenza e minacce descritte nell’imputazione ex art. 629 c.p..

Non reggono neanche le critiche difensive dirette a sostenere, in pratica, l’esclusiva responsabilità nei fatti del No.

P..

I giudici territoriali sottolineano infatti (vedi soprattutto l’OCC, pag. 16 e ss.) che la S. si presentò presso la sede della ditta venditrice, la "(OMISSIS)", insieme al marito, che nell’occasione spese le false generalità di " Co.

P.", e rilasciò l’assegno ricettato; e rimarcano il comportamento apertamente intimidatorio tenuto dalla S. nei confronti degli operai della ditta venditrice, a conferma della sua costante azione di spalleggiamento del marito; anche la condotta del N.M., che aveva finito con l’ospitare i manufatti acquistati dal figlio sul terreno antistante la propria villa, non illogicamente è stata ritenuta dal Tribunale indicativa della sua concorrente implicazione nella vicenda, considerando che al supporto logistico oggettivamente offerto ai due coimputati, lo stesso ricorrente aggiunse condotte di aperta intimidazione nei confronti del T. per impedirgli di accedere sul luogo dove si trovavano i manufatti, presentandosi peraltro come il (fantomatico) padre del fantomatico Co.Pa..

Alla luce di tali indicazioni, il contributo dichiarativo del B. appare persino marginale, ma è stato comunque convenientemente apprezzato dai giudici territoriali, in funzione della qualità dei riscontri.

In questa, come in altre analoghe vicende, non possono poi ritenersi in gioco soltanto interessi "privati", trattandosi invece dell’esplicazione dello specifico programma associativo della cosca mafiosa diretta dai coniugi No. – S..

Ne consegue la correttezza della valutazione, da parte dei giudici territoriali, della sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 in quanto la motivazione del provvedimento non appare sul punto "meramente riproduttiva dell’imputazione", ma adeguata alla ritenuta corrispondenza dei fatti accertati alla "logica" dell’imputazione, nel suo rapporto con l’ipotesi associativa.

Ma del tutto corretta è anche la rilevazione dell’uso del metodo mafioso, essendo state evocate, nel corso della vicenda, dalla S., a sostegno delle intimidazioni, qualificati legami con la criminalità organizzata del Casalese.

– incendio e danneggiamento in danno di I.G. (capi 14 e 15).

La persona offesa, gestore di un negozio di parruccheria, sarebbe stato "punita" dai coniugi No. – S. per essersi fatto pagare dalla donna una prestazione professionale.

In ordine a questa specifica vicenda, si rivela appieno il carattere generico e pregiudiziale delle contestazioni difensive relative all’attendibilità del B., che già appare suffragata, nel caso concreto, dal suo pacifico coinvolgimento nei reati come esecutore materiale.

Il tribunale non manca poi di sottolineare il preciso riscontro offerto alle indicazioni del collaborante, che avrebbe agito su mandato dei due coniugi imputati, dall’ammissione della S. di essersi rivolta per un’acconciatura proprio allo I., e di avere pagato la prestazione, in piena corrispondenza con gli antefatti e il movente delle iniziative criminali dei ricorrenti narrati dal B., che peraltro non si comprende come sarebbe venuto a conoscenza dei retroscena dei fatti se non nel contesto criminale riferito, essendo inverosimile che egli potesse essere informato di banalissime visite della S. presso il proprio parrucchiere.

Non è senza interesse rilevare, inoltre, che l’atteggiamento "di riguardo" preteso dalla S. dal proprio acconciatore, bene si accorda con l’analoga pretesa della ricorrente di non pagare il conto dei pasti consumati al ristorante "(OMISSIS)", ad ulteriore conferma di uno stile di vita arrogante e parassitario, in definitiva mafioso.

Non presta poi il fianco a censure, date le rilevate circostanze del fatto, le cui modalità costituiscono espressione tipica dell’agire mafioso, neanche la valutazione del tribunale sulla sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

– truffa ed estorsione in danno di Sc.Ge. (capo 16).

I fatti, dei quali risponde soltanto No.Pa., sono ampiamente analizzati dal tribunale alle pagg. 30 e 31 dell’ordinanza impugnata.

Secondo l’accusa, il ricorrente aveva ottenuto il trasferimento a suo favore di una costosa autovettura, poi fittiziamente intestata al B., senza pagarne il prezzo alla persona offesa, alla quale aveva poi rivolto gravi minacce per respingere le sue legittime pretese.

Il quadro indiziario si fonda in questo caso sulla testimonianza "pura" dello Sc., non soggetta ad alcun altro criterio di verifica che quello della sua attendibilità, congruamente ritenuta, peraltro, dal tribunale sulla base della particolare coerenza e precisione del suo racconto.

Le deduzioni difensive puntano in sostanza sulla presunta inverosimiglianza logica del mancato pagamento del prezzo dell’autovettura, ma inverosimile sarebbe che il pagamento non potesse essere provato altro che sulla base di presunte necessità logiche, dal momento che transazioni negoziali di così rilevante importo sono nella prassi ben diversamente documentate.

Anche il mancato riscontro del pagamento del prezzo alla stregua dei normali mezzi di prova che le parti di simili negozi sogliono assicurarsi, consente quindi di ritenere attendibili le concorrenti dichiarazioni rese sulla stessa vicenda dal B., che si aggiungono coerentemente, nella valutazioni del tribunale, a quelle dello Sc..

L’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 è stata poi correttamente ritenuta dal tribunale sia per i metodi usati dall’imputato che per l’ascrivibilità dei fatti al programma associativo.

– truffa ed estorsione in danno di Ca.Ma. (capo 17 della rubrica); secondo l’accusa, che il tribunale ritiene del tutto logicamente confermata nei suoi elementi essenziali dalle dichiarazioni della persona offesa e dalle altre risultanze istruttorie acquisite, i due coniugi avevano fatto eseguire alla persona offesa lavori di pavimentazione della propria villa di Nettuno, corrispondendo a titolo di anticipo sull’importo complessivo delle opere, un assegno di 6000,00 Euro risultato privo di copertura.

In questo caso la difesa non contesta particolarmente l’ipotesi della truffa, sulla quale finisce anzi con il ripiegare come il minore dei mali; contesta invece la logicità delle argomentazioni del tribunale sulla ravvisabilità del reato di estorsione e sulla partecipazione ai fatti della S..

Quanto alla prima questione, il contesto intimidatorio in cui il Ca. dovette infine rinunciare alle sue pretese è coerentemente ricostruito dal tribunale sulla base delle pur parzialmente reticenti dichiarazioni rese sul punto dalla persona offesa, che comunque ammise di non avere insistito per il pagamento dei lavori perchè "aveva avuto notizie della pericolosità del No.".

In queste pur ambigue dichiarazioni, ritenute peraltro dal Tribunale, del tutto coerentemente, significative, proprio nella loro ambiguità, della situazione di assoggettamento della vittima al potere di intimidazione mafiosa promanante dalla cosca guidata dai coniugi No. – S., è poi effettivamente identificabile un preciso elemento di riscontro delle dichiarazioni del B., che ha riferito invece di gravi ed esplicite minacce indirizzate dal No. al Ca..

Del pari logico e coerente è l’apprezzamento, da parte dei giudici territoriali, del concorrente significato indiziario del contenuto di una telefonata intercettata, in cui tra l’altro si accenna ad un "muratore cacciato via".

In ordine all’aggravante mafiosa, vanno replicate le considerazioni altrove fatte sull’"impronta associativa" di fatti analoghi, ma va sottolineato anche che il tribunale coglie nella specie in modo particolarmente incisivo il metodo mafioso, nel suo rilevato riflesso sull’atteggiamento psicologico della vittima.

Appaiono invece fondate le censure difensive sulla carenza motivazionale del provvedimento in ordine alla posizione della S..

Tutte le indicazioni di prova analizzate dal tribunale convergono infatti esclusivamente sulla figura del No..

Nell’ordinanza impugnata non è indicata alcuna concreta forma di partecipazione della S. ai fatti, mentre nel provvedimento cautelare la ricorrente è fuggevolmente menzionata come interlocutrice di alcune telefonate del Ca., che in quelle occasioni aveva cercato del No..

Il gip ricorda, al riguardo, che secondo le precisazioni della persona offesa, la S. si era sempre limitata ad invitare il Ca. ad attendere l’arrivo del marito, troppo poco per desumerne un coinvolgimento nei fatti della ricorrente, che in pratica finisce con l’essere ipotizzato dai giudici territoriali esclusivamente sulla base della solidarietà familiare e criminale dei due coniugi, peraltro non ritenuta sufficiente nemmeno dall’accusa nella contestazione dei fatti di reato relativi all’analoga vicenda di cui al capo 16, in ordine alla quale figura imputato il solo No.Pa..

– ricettazione di autovetture (capo 18), imputato N.M..

La difesa contesta la congruenza logica delle argomentazioni della Corte territoriale sia quanto alla valorizzazione delle generiche dichiarazioni dei collaboranti riguardo alla circostanza che il ricorrente sarebbe stato informato di tutte le attività illecite del figlio e della nuora, sia per la presunta, indebita traslazione della valenza indiziaria di altre vicende sull’imputazione in oggetto.

In realtà il tribunale non manca di considerare che il N. M. non poteva ignorare che il figlio non disponeva di fonti lecite di guadagno per l’acquisto di ben 17 autovetture, e l’affermazione e tanto più giustificata considerando che l’ordinanza è correttamente argomentata riguardo alla gravità indiziaria della partecipazione del ricorrente ai fatti di reato in danno del T., vicenda in occasione della quale il ricorrente aveva manifestato tra l’altro la consapevolezza che il figlio aveva speso fraudolentemente le false generalità di Co.Pa..

In questo senso, nessuna traslazione indiziaria è ravvisabile nel riferimento a questa come ad altre analoghe vicende, nella misura in cui esse rivelano invece la consapevolezza del N.M. circa lo stile di vita truffaldino del figlio.

Mette conto peraltro di rilevare che il fatto di ricettazione in esame sarebbe ascrivibile al ricorrente anche a titolo di dolo eventuale, cioè anche se dovesse ritenersi che egli si fosse chiaramente rappresentato quanto meno il rischio della provenienza delittuosa delle autovetture e che non avrebbe negato il proprio contributo al figlio neanche se ne avesse avuto la certezza (nel senso che in tema di ricettazione, ricorra il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi alla semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’art. 712 c.p., cfr. Corte di Cassazione 22/11/2007 Lapertosa;

l’indirizzo è peraltro ormai consolidato; vedi infatti, Corte di Cassazione SEZ. U, nr. 12433 del 26/11/2009, Nocera; Corte di Cassazione Nr. 27548 del 17/06/2010, Sez. 1^, Screti).

Ai fini dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 i giudici territoriali rilevano poi correttamente che il fatto è espressione dell’attività di supporto del ricorrente alla cosca criminale guidata dalla coppia No.Pa. – S.M. R..

Intestazione fittizia di beni: capo 19. Le censure difensive si limitano in concreto alla dedotta insufficienza motivazionale del provvedimento impugnato in ordine al dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, avendo del resto i giudici territoriali più che adeguatamente motivato sulla natura simulata degli apparenti assetti proprietari dei beni in questione, sul rilievo che le dichiarazioni del B. circa il suo ruolo di prestanome trovato più che significativo riscontro nelle ammissioni della stessa S..

La valutazione della corrispondenza della condotta degli imputati agli scopi di elusione di eventuali misure patrimoniali, è in effetti alquanto sommaria nell’ordinanza impugnata, che si limita alla rilevazione dei particolari rapporti tra il B. e i coniugi No. – S., implicanti la comune consapevolezza di tutti sulle ragioni delle fittizie intestazioni, e al rilievo della incensuratezza del B. all’epoca dei fatti, che gli consentiva di assumere il profilo del prestanome ideale.

Nel provvedimento genetico, anche in parte qua da intendersi ovviamente richiamato dai giudici del riesame, si sottolinea però ulteriormente che il pericolo di sequestri e di misure patrimoniali era agevolmente prevedibile da parte di tutti i soggetti coinvolti nei negozi simulati, considerando l’assenza di lecite fonti di reddito da parte dei coniugi No. e il loro esclusivo impegno in attività criminose.

La stessa sistematicità degli interventi del B., rilevata dal gip, dimostra poi che il suo ruolo di prestanome era funzionale agli interessi associativi, non a singole e occasionali ragioni di favore "individuale" nei confronti dell’uno o dell’altro dei due coniugi.

Alla luce delle precedenti considerazioni l’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di S.M.R. limitatamente al reato di cui al capo 17 con il rigetto, nel resto del ricorso; va rigettato il ricorso di N.M. e dichiarato inammissibile il ricorso di No.Pa., con la condanna di questi ultimi due ricorrenti al pagamento delle spese processuali e No.Pa. inoltre al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nei confronti di S.M.R. limitatamente al reato di cui al capo 17;

rigetta, nel resto, il ricorso della stessa S.;

rigetta il ricorso di N.M. e dichiara inammissibile il ricorso di No.Pa.; condanna questi ultimi due ricorrenti al pagamento delle spese processuali e No.

P. inoltre al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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