Cass. civ. Sez. II, Sent., 04-04-2011, n. 7633 Innovazioni e modificazioni Regolamento di condominio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

S.M.G. ed altri undici oggetti – in epigrafe indicati – proprietari di appartamenti dell’edificio condominiale sito in (OMISSIS), convenivano in giudizio la s.a.s.

Dueppi, anche essa condomina in quanto proprietaria dei locali siti al piano terreno, deducendo che la convenuta aveva mutato la destinazione di detti locali, da negozi ad abitazioni, in violazione degli art. 1120 e 1122 c.c., nonchè dell’art. 3 del regolamento condominiale di natura contrattuale. Gli attori chiedevano quindi la condanna della Dueppi al ripristino ed al risarcimento dei danno.

La convenuta, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda sostenendone l’infondatezza sotto vari profili.

Con semenza 13/8/2000 l’adito tribunale di Perugia condannava la convenuta alla richiesta riduzione in pristino e rigettava la domanda di risarcimento danni.

Avverso la detta sentenza la s.a.s. Dueppi proponeva appello al quale resistevano gli attori in primo grado.

Con sentenza 29/3/2005 la corte di appello di Perugia accoglieva il gravame solo in relazione al governo delle sposo di primo grado e rigettava nel resto l’appello. La corte di merito, per quel che ancora rileva in questa sede. osservava: che secondo l’appellante l’art. 3 del regolamento condominiale non vietava il mutamento di destinazione attuato da essa società e, comunque, il mutamento di destinazione non aveva leso il decoro dell’edificio condominiale; che la tesi della Dueppi era infondata posto che l’art. 3 del regolamento condominiale contrattuale vietava per i locali a piano terra una destinazione ad abitazione; che la detta norma regolamentare conteneva la distinzione tra gli "appartamenti", ai quali dedicava i commi 1 e 11, ed i locali a piano terra ai quali dedicava il comma 3;

che ciò si spiegava con il fatto che a tempo della formazione del regolamento i locali al piano terra erano negozi e non appartamenti;

che i primi due commi stabilivano che gli appartamenti dovevano essere destinati "esclusivamente" ad uso di abitazione o di studio professionale, disponendo poi il divieto di adibire gli appartamenti a certi usi e concludendo con una clausola generale di chiusura contenente il divieto di qualsiasi uso incompatibile con la dignità ed il decoro dell’edificio: che il comma 3, sul presupposto della destinazione dei locali a piano terra a negozi, stabiliva che questi locali potevano essere destinati anche ad ambulatorio medico, gabinetto dentistico, laboratori purchè non rumorosi e non idonei ad arrecare danni al soprastante condominio: che la detta disposizione andava intesa nel senso della esclusione di tutte le altre destinazioni possibili, ivi compresa quella dell’uso di abitazione;

che ciò del resto appariva coerente con l’esigenza del decoro dell’edificio secondo parametri correnti fatti propri dal regolamento: che il divieto disposto dal regolamento escludeva la rilevanza dell’indagine volta a stabilire la lesione in concreto del decoro dell’edificio per effetto della destinazione ad uso di abitazione dei locali in questione: che peraltro il divieto era da ritenere disposto non dall’art. 1120 c.c. (relativo alle innovazioni decise dalla maggioranza), ma dall’art. 1122 c.c.; che quindi l’appellante era tenuta al ripristino dell’originaria destinazione in adempimento dell’obbligazione negativo ("propter rem") che gravava su di essa.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Perugia è stata chiesta dalla s.a.s. Dueppi di Giuliani Primo & C. con ricorso affidato ad un solo motivo. Tutti i condomini – già attori ed appellanti – hanno resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso la s.a.s. Dueppi denuncia violazione dell’art. 1363 c.c. e vizi di motivazione deducendo che la corte di appello ha omesso di interpretare l’art. 3, comma 3 del regolamento condominiale in questione per mezzo dei commi 1 e 2 i quali disciplinano, insieme al comma 3, la stessa materia delle possibili destinazioni d’uso delle proprietà individuali. Secondo la ricorrente nel comma 1, dove pure compaiono espressioni come "devono" e "esclusivamente", non vi è un elenco tassativo delle possibili destinazioni d’uso degli appartamenti, ciò perchè il comma 2 prevede per gli appartamenti una serie indefinita di destinazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle dell’elenco di cui al comma 1.

Nel comma 3, dove sono elencate le destinazioni d’uso cui possono essere adibiti i locali a piano terra, non compiano espressioni come "devono" o "esclusivamente". Ne consegue che il complesso della norma regolamentare – interpretate le clausole di cui ai primi due commi per mezzo della clausola di cui al comma 3 – dispone la non tassatività dell’elenco delle destinazioni d’uso delle proprietà individuali relative agli appartamenti ed ai locali a piano terra.

Peraltro la corte di appello ha espressamente affermato che il titolo posto a base dell’asserito divieto non è l’art. 1120 c.c. ma l’art. 1122 c.c. che vieta l’innovazione ove questa arrechi un danno. Nella specie la stessa corte di appello ha escluso che l’innovazione abbia arrecato un danno per cui l’illegittimità della destinazione abitativa dei locali in questione non poteva essere motivata – una volta escluso il divieto regolamentare — con il richiamo dell’art. 1122 c.c. Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, come è noto e più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità. L’interpretazione del regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici.

Del pari è pacifico che l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito: tale accertamento e incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici o da errori di diritto e sia il risultato di un’interpretazione condotta ne rispetto delle norme di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. e segg. L’identificazione della volontà contrattuale, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, concreta un accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito e censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica.

Pertanto in questa sede di legittimità la censura dell’interpretazione data dai giudici di merito agli atti negoziali può essere formulata sotto due distinte angolazioni; denunciando l’errore di diritto sostanziale per non essere state rispettate le regole di ermeneutica dettate dall’art. 1362 c.c. e segg. ovvero investendo la coerenza formale del ragionamento attraverso il quale la sentenza impugnata è pervenuta a ricostruire la comune intenzione delle parti.

Nella specie va rilevato che, secondo quanto disposto dall’art. 3, comma 3 del regolamento contrattuale in esame testualmente riportato nella sentenza impugnata, i locali a piano terra "possono essere destinati, oltre che a negozi, anche ad ambulatorio medico, gabinetto dentistico, uffici, laboratori. purchè non rumorosi e che non rechino danni al soprastante condominio".

La Corte di merito, correttamente attenendosi alla ratio della disposizione nel suo complesso, quale risultante dal suo tenore letterale, ha affermato – prendendo in esame anche le disposizioni dettate dal citato art. 3, primi due commi concernenti gli "appartamenti" – con argomentazioni assolutamente logiche ed aderenti all’inequivocabile intenzione delle parti, che l’uso di abitazione dei locali a piano terra non rientrava tra le uniche consentite destinazioni possibili dei detti locali specificate nell’art. in questione, comma 3 in questione.

La Corte di appello è pervenuta alla detta conclusione (dalla ricorrente criticata) a seguito di complete argomentazioni, improntate a detti criteri logici e giuridici – nonchè frutto sia di un’indagine accurata e puntuale del contenuto del primo, del secondo e dell’art. 3, comma 3 del regolamento, sia di una precisa ricostruzione della volontà degli autori dell’atto desumibile dal contenuto della norma regolamentare e delle espressioni letterali ivi utilizzate – ed ha dimostrato di aver considerato e valutato il significato logico sotteso alle parti più significative della norma esaminata per accertare la volontà dei detti autori dell’atto, dando conto delle proprie valutazioni esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi degli appellati, ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi della società appellante.

Il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione del contenuto della detta norma è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica (ivi compreso quello di cui all’art. 1363 c.c. al quale ha fatto specifico riferimento la ricorrente) e sorretto da motivazione adeguata ed immune dai vizi denunciati.

Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la "ratio decidendi" adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuta la corte di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dalla ricorrente devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma, inammissibilmente in queste sede, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione della più volte menzionata norma regolamentare: la Dueppi contrappone all’interpretazione della detta norma ritenuta dalla corte di appello la sua interpretazione.

Deve pertanto ritenersi corretta l’operazione ermeneutica compiuta dalla corte di appello – la quale non è incorsa nella violazione dei criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c. – ed anche se la ricorrente lamenta la violazione delle citate norme codicistiche, svolgendo al riguardo generiche argomentazioni, la rilevata coerente applicazione dei canoni interpretativi da parte del giudice di secondo grado, rende manifesto che è stato investito essenzialmente il "risultato" interpretativo raggiunto, il che non è consentito in questa sede.

Va infine rilevato che il richiamo all’art. 1122 c.c. è stato effettuato dalla Corte di appello al solo fine di fornire un ulteriore chiarimento, con un argomento meramente aggiuntivo a sostegno di un convincimento già autonomamente raggiunto (in base ad altri elementi in fatto e in diritto idonei da soli a reggere le raggiunte conclusioni) in merito al divieto circa la destinazione ad uso di abitazione dei locali a piano terra in virtù di specifica norma del regolamento contrattuale vincolante ed operativa indipendentemente dalla indagine e dalla dimostrazione della effettiva o meno lesione del decoro del dell’edificio condominiale.

Si tratta quindi di argomento privo del carattere della decisività sussistendo altra ratio decidendi sufficiente a reggere la decisione impugnata indipendentemente dalla fondatezza o meno delle altre rationes decidendi.

Va di conseguenza applicato il principio pacifico secondo cui le affermazioni "ad abundantiam" contenute nella motivazione della sentenza, consistenti in argomentazioni rafforzative di quella contenente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo, vanno considerate di regola superflue quindi giuridicamente irrilevanti ai fini della censurabilità qualora l’argomentazione rafforzata sia di per se sufficiente a giustificare la pronuncia adottata.

Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna della soccombente società al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 3.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *