Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 01-12-2010) 21-02-2011, n. 6431

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Trieste con sentenza del 30.6.2009 confermava la sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale di Trieste in data 18.10.2004 di condanna del ricorrente alla pena di mesi dieci di reclusione ed Euro 200,00 di multa per il reato di usura e tentativo di estorsione.

Si tratta di un prestito concesso dall’imputato a C.L. al fine di fronteggiare spese legate alla gestione della pescheria di quest’ultima e garantito dall’emissione di cambiali; emergeva che l’imputato aveva anche telefonato alla parte offesa minacciandola che se non avesse onorato le rate in scadenza avrebbe messo all’incasso le cambiali ricevute.

La Corte territoriale rilevava che prova della responsabili dell’imputato, dell’entità del prestito concesso e del tasso di interessi pattuito (circa il 40% annuo) emergesse dalle dichiarazioni rese dalla parte offesa, dalle intercettazioni telefoniche effettuate ed anche dal sequestro nella perquisizione disposta a carico dell’imputato dei titoli rilasciati dalla p.o..

La tesi dell’imputato per cui alcuni titoli fossero solo a titolo di garanzia e per le eventuali spese legali veniva giudicata non credibile; la Corte osservava che le pretese spese liberamente sostenute dall’imputato per aiutare la p.o. si limitavano a circa Euro 200 ed all’applicazione di due faretti.

Ricorre l’imputato che con il primo motivo deduce che non era stato accertato l’effettivo tasso di interessi praticato; non solo perchè si era disattesa la credibile tesi dell’imputato secondo il quale alcuni titoli non erano corrispettivo del debito e perchè non si erano calcolate le regalie e l’aiuto in natura fornito dall’imputato alla p.o. ed infine perchè parte del capitale in realtà consisteva in interessi già maturati. Non sussisteva l’elemento materiale del reato di usura e quindi conseguentemente anche il tentativo di estorsione.

Con il secondo motivo si deduce l’insussistenza del dolo in quanto era emerso che non era stato l’imputato a pattuire il tasso di interesse, ma questo era stato offerto dalla p.o., questione giudicata erroneamente non rilevante dalla Corte territoriale.
Motivi della decisione

Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.

Nel primo motivo si sollevano questioni di ordine meramente fattuale già compiutamente esaminate dai giudici di merito. A carico del ricorrente, che non ha negato la corresponsione di somme in prestito alla parte offesa, sussistono le precise dichiarazioni della stessa, gli inequivocabili colloqui tra l’imputato e la C., le cambiali prodotte dalla stessa e quelle rinvenute nell’abitazione del ricorrente. In base a tale elementi è stato ricavato il tasso di interessi praticato di natura obiettivamente usuraia. La tesi per cui alcune delle cambiali fossero solo a garanzia è stata ampiamente esaminata dalla Corte territoriale che l’ha esclusa per la sua evidente non credibilità posto in caso di insolvenza della debitrice ulteriori cambiali sarebbero state in piena evidenza del tutto inutili.

Il preteso aiuto prestato materialmente alla donna per i lavori della pescheria è risultato consistere in pochissime centinaia di euro e quindi irrilevante per la vicenda di cui è processo.

Pertanto la motivazione appare congrua e logicamente coerente e le censure sono meramente di fatto circa la seconda doglianza appare sufficiente ricordare che la norma incrimina la pattuizione di interessi usurari anche se a proporlo è la parte offesa per l’evidente ragione che la stessa può essere indotta a stipulare accordi iniqui sotto la pressione della necessità. Sotto tale profilo la circostanza appare inidonea comunque a comprovare la buona fede dell’imputato posto che gli interessi così come sono stati ricostruiti appaiono palesemente sproporzionati al prestito come non poteva sfuggire a qualsiasi persona mediamente informata dei fatti essenziali della società in cui vive.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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