Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-11-2010) 21-02-2011, n. 6274 impugnazioni

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to, avv. Gerace A. e M. Mercurelli che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Sulla richiesta, avanzata dal Pubblico Ministero nei confronti di C.F., di rinvio a giudizio per due delitti di strage (capi A e B, rispettivamente nell’ospedale di (OMISSIS) e in quello di (OMISSIS)), detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo (capi B-D-E), tentata estorsione (in danno di L.M.G. e F.D., nonchè dell’intera collettività), tutti aggravati L. n. 203 del 2001, ex art. 7 e per il delitto di calunnia continuata e aggravata in danno di Ri. e Cu.Fe. (capo F: art. 368 c.p., comma 2), il Giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Reggio Calabria, a seguito di rito abbreviato, assolse l’imputato dal reato di strage di cui al capo A-bis (ospedale di (OMISSIS)) per insussistenza del fatto e lo condannò alla pena di dodici anni di reclusione per i reati di cui ai capi A e B-D-E e alla pena di due anni di reclusione e trecento Euro di multa per i reati di cui ai capi C e F, esclusa la circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e riqualificata la condotta commessa in danno di L.M.G. e F.D. nel reato di minaccia grave ai sensi dell’art. 612 c.p., comma 2. 2. A seguito d’impugnazione dell’imputato e del Pubblico Ministero, la Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza pronunciata il 22 dicembre 2009, in riforma della decisione del G.u.p., ritenne la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 L n. 291/1991 relativamente ai reati di cui ai capi A, B, C, D, ed E e, in concorso di attenuanti generiche, determinò complessivamente la pena in anni tredici e otto mesi di reclusione ed Euro 266,67 di multa, confermando nel resto la sentenza e le statuizioni civili in favore delle parti civili già deliberate dal primo giudice.

3. Contro tale pronuncia ricorre per cassazione l’Imputato, a mezzo dei suoi difensori, e deduce:

1^ – Violazione della legge processuale, ex art. 606 c.p., comma 1, lett. c) cod. proc. pen. per avere la Corte d’appello giudicato anche nel merito sull’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero contro sentenza emessa a seguito di rito abbreviato, omettendo di dichiararne l’inammissibilità ex art. 443 cod. proc. pen., comma 3;

2^ – Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B ed e in relazione agli artt. 56, 629 e 640 c.p., e art. 612 c.p., comma 2, con riferimento al capo C) dell’imputazione;

3^ – Violazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7;

4^ – Erronea applicazione della legge penale, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, con riferimento all’art. 422 cod. pen.;

5^ – Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, con riferimento all’art. 81 cod. pen..

4. Il Collegio rileva innanzitutto che nessuna impugnazione è stata formulata dal C. con riferimento alla ritenuta responsabilità per i reati in materia di armi e per la calunnia in danno dei Cu. e che, in ordine agli altri addebiti, non vengono contestati i fatti materiali così come ricostruiti dai giudici di merito.

Il ricorso per cassazione attiene alla qualificazione giuridica dei fatti contestati al capo A (strage nell’ospedale di (OMISSIS)) e C (tentativo di estorsione), alla sussistenza della circostanza aggravante prevista dalla L n. 203 del 1991, art. 7 nonchè alla negata continuazione tra i reati di cui ai capi C (limitatamente alla condotta commessa in danno della collettività) ed F. 5. Quest’ultimo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, per non essere stato dedotto in appello, pur avendo il primo giudice, così come la Corte territoriale, negato il vincolo della continuazione, infliggendo separata pena, per i reati di cui ai capi C (limitatamente alla condotta commessa in danno della collettività) ed F. 6. Il primo motivo di ricorso (sintetizzato sub 3, lett. I) riassume due censure proposte dai difensori del ricorrente (primi due motivi dell’impugnazione proposta dall’avv. Gerace e primo motivo di quella dell’avv. Mercurelli).

Per un verso, sulla linea della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 16/1998, Nexhi, si deduce violazione della legge processuale, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) per avere la Corte d’appello, in applicazione dell’art. 568 cod. proc. pen., comma 5 ritenuto l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dal P.M. (e da lui denominata appello) come ricorso per cassazione, poi ritenuto convertito in appello ai sensi dell’art. 580 cod. proc. pen..

Per altro verso, si denuncia che la Corte territoriale ha giudicato anche nel merito sull’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero, omettendo di dichiararne l’inammissibilità ex art. 443 cod. proc. pen., comma 3. 6.1. La censura, sotto entrambi i profili è infondata. Le Sezioni Unite hanno corretto e superato il dictum dell’indicata sentenza "Nexhi", che, riprendendo sostanzialmente un principio affermato nella vigenza del codice di rito del 1930, faceva leva sui concetti di "salvezza" della volontà reale dell’interessato e di "modifica" o "trasformazione" della stessa, per inferirne che al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello che sarebbe stato astrattamente ammissibile.

Con la pronuncia n. 45371/2001, Bonaventura, le Sezioni Unite, affrontando ex professo la questione del provvedimento giurisdizionale impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, ha affermato che il giudice che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568 c.p.p., comma 5 a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonchè l’esistenza di una voluntas impugnationis, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale.

Tale pronuncia ha ritenuto che "l’automatica conversione di un’impugnazione non consentita in quella consentita, a prescindere da qualunque indagine sulla mera attribuzione erronea del nomen iuris o sulla consistenza strutturale dell’atto di gravame e avuto riguardo unicamente alla sussistenza di una voluntas impugnationis, è compatibile con la disposizione dell’art. 568, comma 5 comportando ciò, in linea con la ratio di tale norma, non già la trasformazione o la modifica dell’atto di gravame, considerato nella sua oggettiva essenzialità, quale espressione di una precisa volontà sollecitatoria di sindacato sul provvedimento non condiviso, ma più semplicemente l’incanalamento sul giusto binario della procedura attivata, o se si vuole, il mutamento di direzione della volontà dell’impugnante solo sul piano strumentale e non su quello della destinazione finale".

Nè può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui la Corte d’appello, potendo al massimo esaminare l’impugnazione limitatamente ai motivi proponibili in sede di legittimità (gli unici secondo il ricorrente ammissibili), non avrebbe dovuto giudicare nel merito, sovrapponendo la propria valutazione a quella del giudice di primo grado.

Tale argomentazione non considera che nell’ipotesi in cui l’impugnazione del P.M. (che deduceva vizio di motivazione) fosse stata esaminata in sede di legittimità, la Corte avrebbe ben potuto e dovuto annullare la sentenza del g.u.p. per illogicità della motivazione sul punto relativo alla circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 rinviando al giudice di merito per nuovo giudizio sul punto. Da ciò deriva che, nel caso in cui il giudice d’appello opera la conversione (o la qualificazione) del ricorso in appello giudizio rescindente e giudizio rescissorio sono di competenza dello stesso giudice d’appello, fermo rimanendo il potere di rivalutare il merito soltanto dopo avere evidenziato il vizio di motivazione della sentenza di primo grado, ciò che nella specie è stato correttamente fatto dalla Corte di Reggio Calabria.

6.2. Ciò che più rileva nel caso in esame è proprio l’infondatezza della dedotta inammissibilità dell’appello del P.M. contro la sentenza di condanna emessa dal giudice dell’udienza preliminare all’esito del giudizio abbreviato, che, secondo la previsione dell’art. 443.3 cod. proc. pen. non può essere appellata dal P.M., "salvo che si tratti si sentenza che modifica il titolo del reato".

Questa Corte ha reiterata mente ritenuto che, quando ricorre quest’ultima ipotesi, l’appello del P.M. non deve necessariamente essere limitato al ripristino dell’originaria ipotesi contestata. La prevista appellabilità, infatti, non può essere fatta dipendere dal motivo formulato, non ricavandosi dal precetto citato che tale gravame sia ammissibile soltanto per ottenere il ripristino della originaria, più grave, ipotesi contestata. In tale caso, dunque, il potere di impugnazione del P.M. può involgere qualsiasi statuizione adottata e non è limitato alla avvenuta modifica della qualificazione giuridica del reato, potendo avere ad oggetto anche motivi diversi, per esempio relativi al ripristino di circostanze aggravanti e all’aumento della pena (Cass. n. 5153/1992, Rodigari; n. 8767/1999, Cremona; n. 21176/2006, Santonocito).

7. Inammissibile è la dedotta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c) in relazione agli artt. 56, 629 e 640 c.p. e art. 612 c.p., comma 2, con riferimento al capo C) dell’imputazione.

Il ricorrente assume l’intento fraudolento della sua condotta finalizzata a spillare denaro ai carabinieri con artifici e raggiri.

Trattasi di valutazione di fatto alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito, insindacabile in questa sede, essendo stata giustificata in sentenza con ragionamento plausibile, indenne da vizi logici.

Correttamente e esaurientemente il giudice d’appello ha rilevato che, lungi dal rappresentare una realtà fittizia per conseguire un profitto economico, l’imputato ha messo in atto condotte gravemente minatorie (scritte sul foglio contenuto nella busta gialla fatta rinvenire in una cabina telefonica, qualche momento prima dell’orario programmato per l’esplosione) in danno dell’on. L.M. G. e del dott. F.D., rispettivamente moglie e fratello del dott. F.F., vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, assassinato a (OMISSIS). E’ del tutto condivisibile la conclusione della Corte territoriale, secondo cui "l’effettività della minaccia, desumibile dal rinvenimento dell’esplosivo e dalla constatata preparazione e collocazione degli ordigni, esclude che la condotta del C. possa essere qualificata come truffaldina. Egli infatti non mirava a trarre in inganni) i carabinieri, ma piuttosto a "convincerli" comunque … a sottostare alla sua volontà". 8. Manifestamente infondata è la censura relativa alla ritenuta circostanza aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7 avendo correttamente il giudice d’appello evidenziato che lo stesso imputato connotò soggettivamente come mafiosa la propria condotta, lasciando supporre che la provenienza delle sue azioni criminose dovesse ricondursi alle cosche mafiose della Locride (di qui la condanna, non impugnata, per calunnia continuata in danno dei Ca.) e che, sul piano oggettivo, i reati di detenzione e porto di esplosivo e la collocazione di questo negli ospedali di (OMISSIS) (indipendentemente dalla qualificazione giuridica dei reati commessi) erano dotati di capacità evocative di organizzazioni criminali di tipo mafioso, soprattutto considerando che le condotte furono realizzate in un territorio oppresso dal dominio di cosche "’ndranghetiste". 9. Fondato è invece il motivo relativo al vizio di motivazione sulla ritenuta sussistenza del delitto di strage di cui al capo A) dell’imputazione.

Non è più discutibile che l’imputato abbia collocato un ordigno esplosivo in un cestino di rifiuti situato all’ingresso della Direzione sanitaria dell’ospedale di (OMISSIS).

I giudici di merito hanno ritenuto che, pur non essendoci stata l’esplosione, la preparazione dell’ordigno, la sua collocazione in quel preciso luogo e l’attivazione del sistema di innesco costituissero elementi idonei a far sorgere uno stato di concreto pericolo per la pubblica incolumità, in quanto era stata realizzata una situazione atta a provocare la morte di un numero indeterminato di persone, e che l’imputato avesse la precisa volontà che tale risultato si verificasse.

A tal fine, elementi essenziali della motivazione devono essere, sul piano oggettivo, la dimostrazione dell’idoneità dell’ordigno a provocare l’esplosione e, pertanto, la morte di uno o più persone;

sul piano soggettivo, l’accertamento del dolo specifico dell’autore della condotta.

La mancata esplosione dell’ordigno determinò il giudice di primo grado (a seguito del confronto tra consulenti tecnici del p.m. e dell’imputato, nel quale era rimasto controverso se la causa della mancata esplosione fosse l’intrinseca inefficienza del detonatore o l’insufficienza dell’azione originata dalla fiammata del petardo utilizzato come innesco per determinare l’esplosione del detonatore) a disporre un esperimento giudiziale al fine di accertare se l’accensione e l’esplosione di un petardo (raudo), collocato in posizione analoga a quello esploso nell’ospedale (che provocò il piccolo incendio nel cestino dei rifiuti, poi spento da un’infermiera), fossero o meno in grado di attivare il detonatore e se, comunque, lo stesso detonatore fosse o meno intrinsecamente efficiente.

Sull’esito di tale esperimento (cui i risultati furono negativi per quattro volte e positivi solo la quinta volta) e sulle motivazioni espresse nella sentenza di primo grado a giustificazione della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di strage di cui al capo A) dell’imputazione, furono incentrati gli articolati specifici motivi di gravame dedotti dall’appellante.

Rileva il collegio che tali deduzioni sono state rigettate dalla Corte territoriale con motivazione sommaria ed elusiva dei nodi logici evidenziati dall’appellante sotto il profilo oggettivo e sotto quello soggettivo, giacchè l’aver individuato (nonostante l’esito problematico dell’esperimento giudiziale) la sussistenza della procurata situazione di pericolo per l’incolumità pubblica nella collocazione di un ordigno che "ragionevolmente" sarebbe esploso per l’incendio sprigionato nel cestino dei rifiuti, qualora esso non fosse stato domato dal personale del nosocomio, non risponde alle censure dell’appellante che, per un verso, aveva connesso la riconosciuta cognizione tecnica del C. in materia di esplosivi all’inefficienza dell’ordigno per la presenza di un tappo posteriore apposto al petardo e per il voluto inserimento di polistirolo a fine di isolamento, e, per altro verso, aveva evidenziato, con riferimento anche ai tempi e al contenuto delle telefonate e del messaggio scritto, come apparisse evanescente la sussistenza del dolo specifico, adombrandosi nel ragionamento del giudice un implicito dolo eventuale, inidoneo a sorreggere l’elemento soggettivo necessario per integrare il delitto di strage.

10. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata, limitatamente al reato di strage, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’Assise d’appello di Reggio Calabria, che deve prendere in esame i motivi dell’appellante aventi ad oggetto il vizio di motivazione della prima sentenza in ordine al delitto contestato sub A).
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di strage di cui al capo A e rinvia per nuovo giudizio su tale capo ad altra sezione della Corte di assise d’appello di Reggio Calabria.

Rigetta nel resto il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalle parti civili L. M.G. e F.D., spese che liquida, per ciascuna di esse, in Euro 1.328,70 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 17 novembre 2010.

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