Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-01-2011) 22-02-2011, n. 6485 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Gup presso il Tribunale di Como, con sentenza del 16.05.2006 dichiarava l’odierno ricorrente, M.C. responsabile, in concorso con C.A., B.C., B.P., capo n. 22 – del reato di concorso in truffa aggravata, ex artt. 99 e 81 cpv. c.p., art. 110 c.p., art. 640 c.p. commi 1, 3, art. 61 c.p., n. 7 e 11, commessa mediante l’artificio ed il raggiro di avanzare richieste di mutui a nome di sodali o prestanome, questi ultimi impossidenti e privi di reddito, ma spacciati come commercianti od imprenditori ed allegando alle richieste di mutuo false dichiarazioni dei redditi, così da trarre in inganno la Banca Popolare di Bergamo credito Varesino ed altri istituti bancari, in concorso con R. G., direttore della filiale, così da procurarsi ingiusto profitto mediante l’erogazione dei finanziamenti, quantificati in almeno Euro 2.377.960,00 e relativo danno per gli Istituti bancari, atteso il mancato pagamento delle rate dei mutui concessi;

capo n. 24 – del reato di falso ex artt. 99 e 81 cpv. e 110 c.p., artt. 482 e 477 c.p., art. 489 c.p., art. 61 c.p., n. 2. commesso mediante la formazione di false dichiarazioni dei redditi, usate nelle pratiche di concessione dei mutui di cui innanzi (capo 22);

fatti commessi dall’ottobre 1999 fino al marzo 2003;

al termine del giudizio, condotto con il rito abbreviato, i predetti imputati venivano condannati alle pene indicate in sentenza;

La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 24.11.2009, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava non doversi procedere in ordine a C.A. perchè il reato a lei ascritto era estinto per prescrizione, mentre confermava la sentenza impugnata quanto agli altri imputati;

Ricorre per Cassazione l’imputato M.C., deducendo:

MOTIVI ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

1)- Quanto al capo n. 22), relativo alle imputazioni di truffa, il ricorrente censura la decisione impugnata per illogicità, avendo condannato il M. solo sulla scorta di indizi e presunzioni, in assenza dell’accertamento di episodi specifici;

– la Corte di appello non avrebbe considerato che, su ben 27 episodi di truffa contestati nel capo di imputazione, per soli 5 di questi era confermata la partecipazione del M.;

– la motivazione era apodittica e non avrebbe considerato che mancava la prova in ordine alla partecipazione del ricorrente alla fase di ideazione del reato e in ordine all’elemento intenzionale del reato, atteso che il M. si era limitato a reperire alcune persone disposte all’intestazione fittizia degli immobili; la sua buona fede era evidente, atteso che egli non poteva immaginare che i capitali concessi in mutuo non sarebbero stati restituiti;

– la sentenza era illogica per non avere considerato che negli ultimi due episodi contestati (mutui richiesti da P.A. e F.G.) nessun finanziamento era stato erogato, sicchè mancava il reato per inesistenza del danno;

– la motivazione era illogica perchè non aveva considerato: che il direttore R.G. ed il notaio R. avevano dichiarato di non avere mai visto il M., e che C.R. aveva dichiarato di avere personalmente pagato alcune delle rate dei mutui;

2)-quanto al capo n.24), relativo alle imputazioni di falso, la sentenza era illogica per non avere considerato che difettava la prova della partecipazione del M. alle operazioni di falso ed, inoltre, per avere negato che i reati fossero estinti per intervenuta prescrizione;

la motivazione era illogica per avere esteso le condotte sino al novembre del 2002 mentre l’unico episodio riconducibile al M. (relativo al mutuo C.D.) si era consumato in data (OMISSIS);

3)-la sentenza era viziata da illogicità per avere condannato il ricorrente al risarcimento dell’intero danno oggetto di contestazione, senza considerare che il M. era intervenuto solo in cinque dei ventisette episodi oggetto di contestazione;

4)- per le medesime ragioni, la sentenza era illogica per avere irrogato una pena severa in contrasto con la modesta partecipazione del M. ai fatti contestati, tale da comportare il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art. 114 c.p.;

5)- la decisione impugnata era affetta da abnormità per avere operato una motivazione "per relationem" illegittima perchè inidonea a rendere palesi le ragioni con le quali si erano rigettati i motivi di appello;

CHIEDE l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

I motivi proposti sono totalmente infondati.

Invero il ricorrente propone interpretazioni alternative delle prove già analizzate in maniera conforme dai giudici di primo e di secondo grado, richiamando una diversa valutazione delle dichiarazioni dei testi, che risultano vagliate dalla Corte di appello, con una sequenza motivazionale ampia, analitica e coerente con i principi della logica, sicchè non risulta possibile in questa sede procedere ad una rivalutazione di tali elementi probatori senza scadere nel terzo grado di giudizio di merito.

In tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire – nell’ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato – se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Cassazione penale, sez. 4, 29 gennaio 2007. n. 12255.

La Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto nei motivi di ricorso, ha evidenziato gli elementi di prova emersi a carico del M., sottolineando:

– quanto ai reati di truffa – capo 22.

– che il ruolo del M. era quello di reclutare prestanomi nullatenenti ai quali intestare contratti di mutuo ed immobili fatiscenti a garanzia dei primi; (pag. 2, motivaz. app.).

– che tale circostanza emergeva dalle dichiarazioni rese da molti testi, quali: V.R., C.A., P. S., ed altri, (pag. 8 motiv. app).

– che lo stesso M. aveva ammesso la sua attività di reclutamento di prestanomi;

Il ricorrente censura tale motivazione osservando che dalla stessa non emergerebbe la prova dell’elemento soggettivo del reato di truffa, essendo egli inconsapevole del futuro mancato pagamento delle rate di mutuo, ma si tratta di una deduzione che non tiene in alcun conto la motivazione impugnata, nella quale si sottolinea che il ricorrente era bene a conoscenza delle precarie condizioni economiche di P.S. e C.A., per avere appreso tali circostanze dai medesimi;

ugualmente infondata è la censura relativa alla mancanza di prova della partecipazione del M. all’intera manovra truffaldina; al riguardo il ricorrente deduce che la sua diretta partecipazione sarebbe emersa solo in cinque dei ventisette episodi contestati, ma anche in questo caso il ricorrente prescinde dalla motivazione della Corte di appello, ove si sottolinea che la consapevolezza del ricorrente riguardo al "modus operandi" dell’intera manovra truffaldina emergeva dalla circostanza che alcuni dei prestanome: – V.R. e C.A., avevano precisato di essere stati indotti dal M. a cambiare le proprie carte di identità apponendovi la falsa dicitura "commerciante" e dall’ulteriore circostanza che tutti i prestanome entrati in contatto con il medesimo hanno dichiarato che per la loro attività di interposizione fittizia hanno ricevuto un compenso in denaro versato loro direttamente dal M. (pag.8 motivaz.).

Si tratta di una motivazione ineccepibile che enuncia in maniera chiara l’iter logico posto a fondamento della decisione e pertanto incensurabile in questa sede; nè possono trovare ingresso le deduzioni proposte dal ricorrente che vorrebbe restringere la sua responsabilità solo a cinque degli episodi e non all’intera serie dei fatti contestati, atteso che la motivazione della Corte di appello anche al riguardo ha evidenziato come l’intera e complessa manovra truffaldina, condotta sempre con le stesse modalità operative evidenziasse la piena partecipazione del ricorrente all’intera operazione criminosa;

le contrarie deduzioni difensive si fondano su valutazioni alternative delle prove, inammissibili in questa sede ove la Corte di Cassazione non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, nè può stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Cassazione penale. sez. 4, 29 gennaio 2007. n. 12255 – Quanto ai reati di falso:

I principi sopra ricordati evidenziano anche la piena infondatezza dei motivi relativi alle imputazioni di falso, per le quali la sentenza impugnata riporta una serie di elementi probatori che riconducono i fatti alla piena partecipazione, quanto meno morale, del M. anche a tali condotte (pag. 10 motivaz. sent. app.);

invero, l’ampia ed analitica motivazione della Corte di appello, sin qui sinteticamente riportata, evidenzia di per sè la completa infondatezza della censura relativa al vizio di omessa motivazione ovvero di indebito ricorso alla motivazione "per relationem";

va ricordato, per altro, che laddove i motivi di appello riproducono le stesse argomentazioni e deduzioni sollevate in primo grado, ed ove la Corte concordi con la motivazione del primo giudice, non è necessario procedere ad una nuova e completa motivazione, a meno che non si ritenga di esaminare o rivalutazione argomenti non considerati dal primo giudice, cosa che non è avvenuta nella specie, ovvero a meno che la Difesa abbia proposto argomenti e deduzioni nuove, non esaminate dal primo giudice, cosa che non è avvenuta nella specie.

Nel caso di sentenze di primo e secondo grado che concordino nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della statuizione di responsabilità (la c.d. doppia conforme), l’ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante. Cassazione penale, sez. 4, 12 giugno 2008. n. 35319.

Parimenti infondati appaiono i motivi relativi al trattamento sanzionatorie atteso che la sentenza impugnata ha fatto uso dei criteri di cui all’art. 133 c.p., ritenuti sufficienti dalla Giurisprudenza di legittimità, per la congrua motivazione in termini di determinazione della pena, di concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p.;

atteso che:

– riguardo alla pena si è richiamata la gravità del fatto e la personalità dell’imputato;

-riguardo alle attenuanti generiche si è fatto riferimento ai numerosi e reiterati precedenti penali dell’imputato;

-riguardo all’attenuante di cui all’art. 114 c.p. si è correttamente richiamato il divieto scaturente dal capoverso di tale norma in relazione all’art. 112 c.p..

Ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, ed in generale ai fini del trattamento sanzionatorio, è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello (o quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la concessione del beneficio;

e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, non è censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Ciò vale, "a fortiori", anche per il giudice d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione.

(Cassazione penale, sez. 4, 04 luglio 2006. n. 32290.

Totalmente infondato è il motivo relativo alla condanna al risarcimento del danno, atteso che correttamente la Corte territoriale ha esteso al ricorrente la responsabilità solidale per l’intero danno, stante la ritenuta responsabilità in concorso con gli altri coimputati ex art. 110 c.p.; va comunque segnalato che le deduzioni del ricorrente riguardo all’importo del danno sono del tutto generiche ed aspecifiche e, quindi, inammissibili.

Infondato deve ritenersi anche il motivo relativo alla dedotta prescrizione del reato di falso continuato;

Va premesso che in tema di prescrizione, non è consentita la simultanea applicazione delle disposizioni introdotte dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, e di quelle precedenti, secondo il criterio della maggiore convenienza per l’imputato, dovendosi individuare la disciplina più favorevole previa comparazione dei due sistemi in astratto; Cassazione penale, sez. 6, 24 aprile 2008. n. 21744.

Nella specie il discrimine tra le due discipline è costituito dalla circostanza che i reati di falso sono contestati in continuazione tra loro ed è noto che, in caso di reato continuato soggetto, "ratione temporis", alla disciplina dettata dall’art. 158 c.p. nella formulazione antecedente alla modifica introdotta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, la decorrenza del termine prescrizionale per tutti i singoli fatti unificati nel vincolo della continuazione deve farsi coincidere con la cessazione della continuazione stessa, (Cassazione penale, sez. 2, 29/05/2008, n. 22704) In tal caso la data di inizio della continuazione sarebbe quella del marzo 2003 sicchè, applicando il termine massimo di prescrizione previgente, di anni 7 e mesi 6, si rileva che il termine ultimo (settembre 2010) non era ancora decorso alla data di pronunzia della sentenza di appello (novembre 2009);

ad analogo risultato si perviene ove si ritenga più favorevole la nuova disciplina prescrizionale, attesa la contestazione nel capo di imputazione della recidiva reiterata infraquinquennale, aggravante non esclusa dai giudici di merito.

Ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 2, (novellato) l’aumento per l’interruzione del termine per la prescrizione va aumentato nella misura di due terzi nel caso di cui all’art. 99 c.p., comma 4, sicchè – nella specie – il termine ordinario della prescrizione per il reato di falso, di anni 6, va portato a quello di anni 10 in conseguenza delle varie interruzioni intercorse;

ne deriva che, risalendo i delitti di falso – nei casi più remoti – a mutui erogati nel 2001 (vedi capo di imputazione) il termine massimo di prescrizione per tali reati ((OMISSIS)) non era ancora decorso alla data della sentenza di appello, del 24.11.2009.

I motivi di ricorso articolati collidono con il precetto dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in quanto trascurano di prendere in considerazione aspetti sostanziali e decisivi della motivazione del provvedimento impugnato, proponendo valutazioni giuridiche totalmente contrarie alla Giurisprudenza di legittimità, sicchè sono da ritenersi inammissibili.

L’inammissibilità dei motivi proposti in diritto ed in fatto riverbera i suoi effetti anche riguardo al motivo relativo alla dedotta prescrizione del reato, atteso che l’inammissibilità del ricorso per Cassazione conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. ivi compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione nelle more del giudizio di legittimità. (Cassazione penale, sez. 2, 21 aprile 2006. n. 19578).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità- al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

Ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p. il rigetto o la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla parte privata comportano la condanna di quest’ultima al pagamento delle spese del procedimento. Cassazione penale, sez. 6, 03 giugno 1994.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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