Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-01-2011) 22-02-2011, n. 6482 Associazioni mafiose

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Napoli, con sentenza in data 20/11/2009, in riforma della sentenza del Tribunale di Napoli, in data 14/7/2008, appellata dagli imputati, condannava, tra gli altri, in relazione ai reati rispettivamente ascritti di associazione a delinquere, con le relative aggravanti, D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e L. n. 203 del 1991, art. 7, relativo all’acquisto, trasporto commercializzazione, consegna e vendita di sostanze stupefacenti di tipo cocaina:

a) B.A., alla pena di anni otto di reclusione, previa dichiarazione di continuazione con la sentenza del Tribunale di Nola in data 23 maggio 2006, divenuta irrevocabile;

b) C.L., ritenuta la continuazione con il reato di cui alla sentenza della Corte di Napoli in data 19.4.2006, irrevocabile, ad anni nove di reclusione;

c) Ca.Sa., alla pena di anni otto di reclusione;

d) Ci.Ra., concesse le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, alla pena di anni sei di reclusione;

e) S.A., alla pena di anni tre di reclusione e Euro 2400 di multa per il reato di tentata estorsione.

Confermava la sentenza nei confronti, tra gli altri di:

a) Co.Ma., escluso il contributo all’associazione quale finanziatore del gruppo, con la continuazione, l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, la riduzione per il rito e N. F., con la continuazione, l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, la riduzione per il rito, alla pena di anni 12 di reclusione ciascuno e il N. anche a Euro 40.000 di multa;

b) P.P. alla pena di anni 14 di reclusione;

c) Si.Fr., esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, con la riduzione del rito, alla pena di anni quattro di reclusione e Euro 2000 di multa;

d) T.S., con la continuazione, l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e la riduzione per il rito, alla pena di anni 10 di reclusione e Euro 40.000 di multa;

e) V.V., con la continuazione, l’aumento per la recidiva e la riduzione per il rito, alla pena di anni sei di reclusione.

Proponevano ricorso per Cassazione tutti i predetti imputati.

Il difensore di B.A. deduceva i seguenti motivi: a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per inosservanza, erronea applicazione dell’art. 649 c.p.p. per violazione del principio del "ne bis in idem", essendo stato l’imputato condannato per il medesimo fatto, sia pure con una diversa qualificazione giuridica;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per inosservanza e erronea applicazione della L. n. 251 del 2005, non avendo la rinuncia parziale, in sede di appello, ai motivo di ricorso, investito la determinazione della pena, avendo erroneamente applicato quale pena base, con riferimento all’art. 416 bis, c.p., quella di anni sette di reclusione anzichè quella minore, antecedente alla legge ex Cirielli, che prevedeva quella da anni tre ad anni sei reclusione;

c) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla determinazione della pena base comunque eccessiva e in conflitto logico con la premessa del minimo apporto contributivo;

d) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all’omessa motivazione in relazione all’applicabilità della normativa vigente in epoca antecedente alla L. n. 251 del 2005, in quanto più favorevole;

e) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 81 c.p. nella determinazione della pena.

C.L. censurava la sentenza rilevando come non ricorressero gli elementi integranti la fattispecie contestata con riferimento all’ipotesi associativa prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ritenendo sussistere, tutt’al più, un’ipotesi di concorso di persone nel reato ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73;

lamentava, inoltre la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione, non avendo la Corte tenuto conto della incensuratezza e della giovane età del ricorrente e per non aver contenuto la pena nei minimi edittali.

Ca.Sa. lamentava la "assoluta inesistenza e contraddittorietà della motivazione".

Il difensore di Ci.Ra. deduceva le seguenti censure:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. C ed E), per mancanza di motivazione in relazione alla attenuante speciale della collaborazione;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione alla mancata concessione dell’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1990, art. 8 nella massima estensione in considerazione del notevole contributo apportato;

c) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 133, 133 bis e 62 bis c.p. per non aver concesso le circostanze generiche prevalenti, ma solo equivalenti, rispetto alle aggravanti in virtù del comportamento di dissociazione dal sodalizio criminale prima e di collaborazione poi.

Il difensore dell’imputato presentava memoria con cui ribadiva la sussistenza degli elementi per l’applicazione dell’attenuante speciale della collaborazione di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, evidenziando come sia stato deliberato in data 28.10.2010 il programma speciale di protezione.

Co.Ma. deduceva i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per l’inosservanza di norme in relazione all’art. 268 c.p.p. ed e) per travisamento del fatto, avendo la Corte rigettato l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 416 bis c.p. e art. 192 c.p.p., nonchè per mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione del ricorrente al clan Sarno, fondata sui colloqui oggetto di intercettazioni, erroneamente valutati dalla Corte territoriale;

c) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e art. 192 c.p.p. per mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, non emergendo da alcuna intercettazione che il ricorrente avesse trattato l’acquisto di armi per conto di organizzazioni criminali e non, invece, per se;

d) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 56 e 132 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 9 e 14 essendo stata applicata una pena illegale, avendo la Corte di merito riconosciuto la natura di reato tentato all’ipotesi contestata al capo NN1, confermando, tuttavia, l’entità della pena irrogata dal Tribunale;

e) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per violazione dell’art. 81 c.p. ed e), per omessa motivazione, risultando un evidente errore nella individuazione della violazione più grave.

Il difensore rinunciava al primo motivo di ricorso col quale veniva eccepita la inutilizzabilità delle intercettazioni e depositava la sentenza di primo grado. Con motivi nuovi ribadiva l’errata individuazione della pena base, dovendosi individuare il reato più grave in quello di cui al capo a) della rubrica (art. 416 bis c.p., pluriaggravato ai sensi dei commi 4 e 6) e, comunque, rilevava l’applicazione di una pena base illegale, nonchè l’insussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e l’illogicità della motivazione con riferimento alla sua ritenuta appartenenza all’associazione.

Il difensore di N.F. deduceva i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), per violazione dell’art. 416 c.p. ed e) per mancanza o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, con riguardo alle intercettazioni n. 543 del 11/7/2005 e n. 759 del 22/7/2005, avendo la Corte di merito operato un esame parcellizzato delle stesse, tralasciando quelle che dimostravano l’estraneità del ricorrente alla consorteria criminale contestata sub capo b);

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per manifeste illogicità della motivazione in relazione al capo 6), trattandosi di una sola cessione di sostanze stupefacenti da parte del ricorrente e non di due distinti episodi e mancando la prova di cessione alcuna in favore di Si.Fr. e R.G., essendo le circostanze dell’uso del bilancino riferibili ad un contesto temporale e fattuale assolutamente indeterminato;

c) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, mancando, nella condotta del prevenuto, la finalità di agevolare il clan;

d) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per mancanza e manifesta illogicità della mutilazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio e all’entità dell’aumento per la continuazione.

Il difensore di P.P. formulava le seguenti censure:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 416 bis c.p., anche con riferimento alla mancata esclusione della qualifica di capo -organizzatore dell’associazione criminale, per erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., e omessa motivazione in ordine alla documentazione prodotta, avendo, tra l’altro, confuso la Corte territoriale la permanenza dell’associazione con il perdurare della partecipazione ad essa del ricorrente, "sovrapponendo" la persona del P.P. (cl.

(OMISSIS)), con l’omonimo Pi.Pi. (cl. (OMISSIS)), confondendo la figura dei due P., avendo anche omesso di considerare che mai nessun contatto epistolare vi era stato tra il ricorrente, detenuto in regime di art. 41 bis c.p., e il suo nucleo familiare;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), vizio di motivazione in relazione all’entità della pena inflitta e alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

S.A. eccepiva la mancanza di motivazione in ordine alla concreta determinazione della pena e l’illegalità della stessa, in quanto la sanzione irrogata, (pena detentiva e multa), considerata la diminuente per il rito, è prossima al massimo edittale (anni tre di reclusione);

Si.Fr. censurava la sentenze per aver erroneamente ritenuta provata la responsabilità della ricorrente sulla base dei colloqui intercettati fra terze persone e senza sottoporre gli esiti degli stessi a valutazione critica in tema di sentenza indiziaria con riferimento alla esistenza del ragionevole dubbio, omettendo ogni motivazione in ordine ai rilievi difensivi evidenziati nell’atto di appello quali, ad esempio il risultato negativo della perquisizione domiciliare.

In subordine lamentava la mancata concessione delle attenuanti generiche e l’eccessività della pena con riferimento a quella comminata ad altri imputati, il difetto di motivazione sulle statuizioni civili imposte, in solido con altri imputati, pur in assenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il difensore di T.S. deduceva i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 187 c.p.p. e manifesta illogicità della motivazione con riferimento ai capi 5 e 7, stante il linguaggio non esplicito delle intercettazioni che imponeva di indicare le ragioni per le quali il ricorrente potesse conoscere il contenuto delle consegne, oggetto del colloqui, e che le stesse dovessero necessariamente riferirsi alla cocaina oggetto delle due contestazioni;

b) erronea applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, illogicità della motivazione con riferimento al contenuto delle conversazioni riportate dalla Corte che ha ritenuto la sussistenza del dolo, utilizzando contegni, comportamenti e finalità di altro soggetto, dovendo invece discendere tale valutazione unicamente dalla condotta del prevenuto;

c) mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio.

Il difensore di V.V. deduceva i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e), per violazione degli artt. 629 e 416 bis c.p., illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione ai profili di responsabilità concorsuale del ricorrente, in relazione alla condotta estorsiva posta in essere da D.M.F. e altro soggetto non identificato, dando per scontato che il ricorrente fosse a conoscenza delle ragioni dell’incontro, nonostante nulla abbia riferito al riguardo la parte offesa e avendo la Corte territoriale ricostruito i fatti in modo del tutto difforme dal racconto della stessa, travisandone le dichiarazioni;

riteneva, inoltre, mancante il nesso causale tra la condotta del ricorrente e quella estorsiva del D.M..

Con riferimento al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. rilevava la inconsistenza delle intercettazioni telefoniche ai fini della sussistenza del reato, mancando la prova, precisa e circostanziata, della adesione all’associazione, della condivisione del programma, dello scopo e delle finalità della stessa; tutt’al più, la condotta del V. potrebbe indurre a ritenere lo stesso un mero fiancheggiatore, non punibile, essendosi limitato ad alcuni favori al D.M..
Motivi della decisione

1a) Il ricorso di B.A. è infondato; la Corte di appello ha rigettato l’eccezione di duplicazione processuale ex art. 649 c.p.p., avendo, tuttavia ravvisato la continuazione tra il reato di porto e detenzione della pistola Beretta cal. 7,65, con matricola abrasa, e del relativo munizionamento e il reato associativo contestato, individuando una connessione qualificata tra tali reati e l’associazione di stampo camorristico, risultando evidente che l’arma era stata utilizzata nell’ambito dell’attività criminosa della organizzazione.

Qualora la partecipazione alla associazione venga desunta anche dalla commissione di altro reato (nella specie detenzione e porto in luogo pubblico di arma da sparo con matricola abrasa, ricettazione dell’arma e resistenza a pubblico ufficiale) per il quale sia già intervenuta condanna definitiva, non può invocarsi il principio del "ne bis in idem", in quanto la inammissibilità di un secondo giudizio impedisce al giudice di procedere contro lo stesso imputato per il medesimo fatto, già giudicato con sentenza irrevocabile, ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso reato, quale l’associazione mafiosa (cfr Sez. 6, Sentenza n. 7030 del 10/01/2003 Ud. (dep. 13/02/2003) Rv. 223527; Sez. 5, Sentenza n. 15 del 04/01/2000 Cc. (dep. 09/03/2000) Rv. 215977).

Infatti, il divieto attiene alla identità del fatto – reato contestato, negli elementi costitutivi della condotta, dell’evento e del rapporto di causalità, aventi svolgimento nelle medesime condizioni di tempo, di luogo e persone, e non si estende alla valutazione di esso come elemento probatorio di altro reato, i cui elementi costitutivi sono ontologicamente e giuridicamente diversi.

La condotta necessaria e sufficiente ad integrare l’associazione per delinquere è l’adesione ad una organizzazione già costituita, desumibile da qualsiasi elemento idoneo e, quindi, anche dal possesso di un’arma che veniva utilizzata dalla organizzazione criminale, qualificata da ulteriori elementi idonei a rappresentarla come atto associativo (detenzione da parte dell’imputato del motociclo Piaggio, intestato a Pe.Um., a disposizione dell’associazione).

Il reato di porto e detenzione della pistola Beretta, anche per l’elemento psicologico, il rapporto di causalità e l’evento, costituisce un delitto oggettivamente diverso dall’associazione a delinquere contestata nel presente giudizio, con la conseguenza che il fatto storico sul quale si è formato il giudicato può essere liberamente valutato come momento probatorio della imputazione di cui all’art. 416 bis c.p..

1.b) anche il secondo, quarto e quinto motivo di ricorso relativi alla determinazione della pena sono infondati.

La Corte territoriale ha determinato la pena base nel minimo edittale (sette anni), previsto dalla L. ex Cirielli, per la partecipazione al clan Panico – Perillo, per aver collaborato personalmente e direttamente con i vertici del sodalizio, in particolare, con il Pe., svolgendo essenzialmente funzioni operative nel settore dell’azione armate e delle attività estorsive nel territorio di (OMISSIS) e il reato risulta contestato fino al (OMISSIS).

Il ricorrente ritiene applicabile alla fattispecie la disciplina sanzionatorie più favorevole antecedente all’entrata in vigore della L. ex Cirielli, ritenendo cessata la permanenza in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova normativa che ha innalzato le pene.

L’asserzione della incompatibilità della permanenza del reato con l’asserito stato di detenzione (dal luglio 2005 all’agosto 2006) è generica, non essendo incompatibile lo stato di detenzione con la partecipazione all’associazione mafiosa, essendo, peraltro, cessata la detenzione in epoca antecedente alla data ultima di contestazione del reato ((OMISSIS)). lc) Con riferimento alla pena, che è stata individuata dal Giudice nel minimo edittale, questa Corte ha più volte affermato che: "In tema di commisurazione della pena, quando questa venga compresa nel minimo o in prossimità del minimo, la motivazione non deve necessariamente svilupparsi in un esame dei singoli criteri elencati nell’art. 133 c.p., essendo sufficiente il riferimento alla necessità di adeguamento al caso concreto". Sez. 2, Sentenza n. 43596 del 07/10/2003 Cc. (dep. 13/11/2003 ) Rv. 227685.

La Corte territoriale, peraltro, ha ridotto la pena base rispetto a quella comminata dal primo giudice, valutando, in concreto, il ridotto apporto associativo, individuato attraverso la commissione di un solo reato fine (porto d’armi), contenendo l’aumento per la continuazione.

2.a) Il ricorso di C.L. va dichiarato inammissibile, per genericità con riferimento agli elementi di responsabilità analiticamente individuati dal Tribunale; la Corte territoriale, inoltre, ha accolto la richiesta difensiva di riduzione della pena sia di riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti oggetto del processo e quelli per i quali è già intervenuta condanna con sentenza della Corte d’appello di Napoli in data 19.4.2006. 2.b) Manifestamente infondate appaiono le censure sul diniego delle attenuanti generiche e sull’entità della pena inflitta, avendo i giudici di merito correttamente valutato i criteri di cui all’art. 133 c.p. (gravità dei fatti), considerando anche lo stato di incensuratezza dell’imputato e il comportamento parzialmente collaborativo dello stesso che non ha disconosciuto il suo coinvolgimento nell’attività di spaccio.

Questa suprema Corte ha, d’altronde, più volte affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento. (Si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691).

Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte – condivisi dal Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Lo stesso discorso vale, naturalmente, per l’individuazione, da parte del Giudice, della pena da irrogare. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p.. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

A fronte di quanto sopra il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello.

3.a) Il ricorso di Ca.Sa. (contenuto in due righe e una parola) è manifestamente infondato mancando alcuna critica specifica al provvedimento impugnato, essendosi il ricorrente limitato alla mera censura del vizio della sentenza (inesistenza e contraddittorietà della motivazione), senza alcuna ragione giustificative al riguardo.

4.a) Il ricorso di C.R. è infondato.

In relazione alla censura relativa alla omessa motivazione in ordine alla mancata concessione dell’attenuante speciale della collaborazione di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, va osservato che tale attenuante può essere riconosciuta se la collaborazione si svolge nell’ambito del giudizio in relazione al quale si chiede il riconoscimento, essendo fondata su un’utilità obiettiva, la quale consiste nel proficuo contributo fornito alle indagini ovvero nell’aver evitato conseguenze ulteriori all’attività delittuosa, ma sempre con riferimento al giudizio in corso.

Nel caso in cui, invece, come nella fattispecie, la collaborazione venga riconosciuta, ma nell’ambito di altro procedimento, parallelo, coinvolgente il clan Sarno, come evidenziato dalla Corte territoriale, con motivazione non censurata dal ricorrente, tale comportamento, ancorchè non idoneo al riconoscimento della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, può essere valutato, come in effetti è avvenuto da parte della Corte territoriale, ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, avendo i giudici di appello concesso tali circostanze per avere reso il Ci. piena ammissione della sua appartenenza al clan, soffermandosi su omicidi commessi dalla predetta organizzazione, ma disattendendo, quindi, implicitamente, la richiesta di concessione dell’attenuante speciale della collaborazione.

Allorchè l’imputato abbia richiesto l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 114 c.p., non sussiste il dovere di una motivazione esplicita in ordine alla sua mancata concessione, nel caso in cui il giudice abbia posto in evidenza che la collaborazione si riferisce a un procedimento diverso da quello in cui viene richiesta l’attenuante.

4b) Col secondo motivo il ricorrente denuncia la illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestata recidiva.

Va, al riguardo, rilevato che il diniego della prevalenza delle attenuanti generiche appare correttamente valutato nel contesto motivazionale complessivo, avendo carattere unitario e inscindibile e dovendosi effettuare la valutazione delle attenuanti globalmente (cfr Cass. 20.10.2003, n. 39456).

Nella specie la valutazione della gravità criminogena intrinseca al reato, valutata dalla Corte territoriale, ai fini del giudizio di equivalenza tra attenuante e recidiva, rende ultronea ogni valutazione sulla sussistenza di ulteriori elementi che hanno valenza meramente integrativa del primo e la cui eventuale valutazione di inidoneità, in relazione a tale specifica censura, non vale a viziare il giudizio espresso dalla Corte di merito, fondato su ulteriori elementi di valenza pregnante. Infatti, con riferimento alla globalità del giudizi di comparazione tra circostanze attenuanti e aggravanti, tale giudizio può ritenersi adeguatamente motivato se il giudice pone in risalto anche una sola delle circostanze, desumibili anche dal complesso motivazionale, suscettibili di valutazione di equivalenza rispetto alle altre, per dimostrare la ragione del proprio convincimento; infatti il giudice non è tenuto a specificare analiticamente le singole circostanze o ad indicare le rispettive ragioni che lo hanno indotto a formulare il giudizio di comparazione (Cass. 15.6.2000,n. 9387).

Anche la censura relativa alla entità della pena, giudicata eccessiva, va disattesa in forza del consolidato orientamento di questa Corte che ritiene "In tema di commisurazione della pena, quando questa venga compresa nel minimo o in prossimità del minimo, la motivazione non deve necessariamente svilupparsi in un esame dei singoli criteri elencati nell’art. 133 c.p., essendo sufficiente il riferimento alla necessità di adeguamento al caso concreto". (Sez. 2, Sentenza n. 43596 del 07/10/2003 Cc. (dep. 13/11/2003) Rv.

227685).

5a) Il difensore di Co.Ma. ha rinunciato al primo motivo di ricorso relativo alla inutilizzabilità delle intercettazioni e anche il secondo motivo, relativo alla asserita illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione del ricorrente al clan Sarno, fondata sui colloqui oggetto di intercettazioni, è infondato. I giudici di merito hanno escluso che le condotte di approvvigionamento di armi, riferibili al Co., potessero ricondursi a condotte riconducibili a legami familiari (cfr motivazione pag. 59 sentenza), essendo emersa la continua condotta del ricorrente finalizzata alla ricerca e all’approvvigionamento di armi, evidenziando il contributo causale fornito dal Co., con tale attività, al rafforzamento del sodalizio, indipendentemente dalla circostanza che il reperimento di armi potesse anche essere affidato ad altre persone, (pag. 60).

Evidenziava la Corte territoriale come anche i legami di parentela consentano di individuare una volontà partecipativa al sodalizio, se sia accertata l’esistenza di un’organizzazione delinquenziale composta da persone con vincoli familiari, qualora emerga una non occasionale attività criminosa nell’interesse del sodalizio, escludendo che la circostanza che anche al Co. fosse imposto l’acquisto di gadget pubblicitari, come ad altri commercianti del territorio di (OMISSIS) fosse idonea ad escludere la partecipazione al clan (cfr motivazione pag. 60 e 61). Deve ritenersi che integri la condotta di partecipazione, soprattutto in mancanza di un’affiliazione abituale, l’esplicazione di attività omogenee agli scopi del sodalizio, quali l’approvvigionamento di armi per conto dell’associazione criminale, ove venga fornito un concreto contributo causale all’esistenza e il rafforzamento della stessa, si sia assunto uno specifico compito o attività a favore del sodalizio. La Corte territoriale ha confermato la valutazione del primo giudice sul complesso delle intercettazioni telefoniche, evidenziando come non possa effettuarsi una diversa lettura del contenuto delle stesse, soffermandosi analiticamente: a) sulla telefonata numero 181 del 2/2/2005 (pag. 54 e 55) da cui si evince la partecipazione del ricorrente all’associazione, in contrasto con la sussistenza di rapporti di carattere familiare tra il Co. e i membri della famiglia Piccolo; b) sulla telefonata n. 1206 del 10/3/2005 e 2940 del 10/12/2004 (pag. 55 -56) da cui emerge che il gruppo ha fatto ricorso al Co. in diverse occasioni per far fronte ad esigenze di assistenza (nella fattispecie per spese legali) dei sodali; c) sulle telefonate n.2319 e 3220 del 24/12/2004 (pag. 56) da cui è evincibile il coinvolgimento dell’imputato in attività attinenti al recupero di armi presso altri sodali e alla consegna delle stesse al P., desumendo, logicamente, che l’utilizzo da parte del ricorrente di un linguaggio in codice, facente parte del lessico criminale, evidenziava ulteriormente che il prevenuto era partecipe della dinamica associativa, ponendo in rilievo che alle numerose telefonate intercettate (riportate a pag. 736-751 della sentenza del Tribunale) risulta direttamente il ruolo di approvvigionamento di armi per conto del clan da parte del Co., desunto dalla pluralità degli episodi di acquisto di armi, dalla frequenza di richieste di armi al Si. e dalla circostanza che al Co. stesso fosse stata lasciata la scelta delle armi attraverso la consultazione dei cataloghi e la verifica delle stesse, effettuando diversi ordinativi, come desunto dalle telefonate n. 662 del 19.1. 2005, n. 718 del 26/1/2005,n. 947 del 9/2/2005, n. 968 e 10/2/2005 (pag. 57 sentenza), telefonata dalla quale la Corte deduce logicamente che le armi fossero destinate non al Co. ma ad altri sodali, come dedotto dalla Corte territoriale, esaminando la conversazione con il S., ove il ricorrente esprimeva preoccupazione di non riuscire a portare a termine l’incarico, in quanto le armi ancora non erano arrivate, ritenendo con valutazione coerente, che poichè era emerso che il clan si riforniva di armi dal S. (tel. n. 1309 del 26/2/2005) era logico che il Co. avesse acquistato armi a beneficio del clan, si capeggiato dal suocero, escludendo, motivatamente, la soluzione alternativa prospettata dal ricorrente.

La partecipazione del Co., quale intraneus all’associazione, viene desunta dalla Corte di merito, in particolare, dalla deposizione del collaborante D. (interrogatorio del 30/8/2006) che ha confermato, attraverso l’atteggiamento camorristico e l’utilizzo della logica e del metodo propri dell’associazione mafiosa, l’inserimento del prevenuto in tale sodalizio.

Con motivazione coerente e logica la Corte ha anche escluso la possibilità di un mero concorso esterno del ricorrente all’associazione, che potrebbe, tutt’al più, configurarsi in caso di partecipazione saltuaria o sporadica all’attività del sodalizio, mentre la tipicità delle condotte ascrivibili all’imputato consente di ritenere, sotto il profilo psicologico, la volontà dello stesso non solo di contribuire alla vita del sodalizio, ma di parteciparvi dall’interno.

Con riferimento alla affermata responsabilità per i reati di armi di cui al capo NN1 l’acquisto delle stesse risulta ascritto al Co. in base all’esito delle intercettazioni telefoniche (pag. 62).

Il ricorrente, al riguardo, propone solo censure di merito, proponendo una diversa ricostruzione dei fatti, alternativa a quella della Corte territoriale, ad una sentenza motivata in modo esaustivo, logico e non contraddittorio e che presenta una valutazione corretta delle risultanze processuali.

Il ricorrente ritiene applicabile alla fattispecie la disciplina sanzionatorie più favorevole antecedente all’entrata in vigore della L. ex Cirielli, ritenendo cessata la permanenza in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova normativa che ha innalzato le pene, ma limitandosi ad affermazione generiche, quali le conversazioni telefoniche captate nell’anno 2005.

L’asserzione della incompatibilità della permanenza del reato con riferimento all’epoca delle conversazioni telefoniche è generica, non essendo incompatibile la partecipazione all’associazione mafiosa anche in epoca successiva a quella delle conversazioni captate.

5b) Lamenta anche il ricorrente un errore nella individuazione della violazione più grave, con riferimento all’applicazione della disciplina del reato continuato.

Sia il Tribunale che la Corte di appello hanno individuato il reato più grave nel delitto di cui al punto 13 del capo NN1, cioè il reato di cui alla L. n. 497 del 1974, art. 9, applicando quale pena base quella di anni 10 di reclusione e Euro 1000 di multa, apportando, quindi, un aumento di anni cinque di reclusione e Euro 500 di multa ex L. n. 203 del 1991, art. 7 e un secondo aumento di anni 3 e Euro 600 di multa per la continuazione, pena ridotta per il rito alla ad anni 12 di reclusione.

Il ricorrente rileva l’erroneità della pena base comminata per il reato consumato (L. n. 497 del 1974, art. 9), ritenendo trattarsi di tentativo di cessione di armi da guerra, con conseguente rideterminazione della pena base con la riduzione di 1/3.

Il motivo è fondato.

Sia il Tribunale che la Corte di appello hanno individuato il reato più grave nel delitto di cui al punto 13 del capo NN1, (L. n. 497 del 1974, art. 9), che deve ritenersi tentato, sia per la stessa configurazione del capo di imputazione, in quanto si evince dalla sua stessa formulazione che i coimputati specificati si erano impegnati a cedere al Co. le armi da guerra indicate ed avendo anche la stessa Corte di merito rilevato, al riguardo, che l’ipotesi delittuosa è già contestata in fatto quale tentativo dal momento che l’imputazione è articolata sul punto, con specifico riferimento alla ipotesi non consumata a causa dell’intervento delle forza dell’ordine con l’operazione di polizia che ha portato al sequestro del 4,3.2005" (pag. 66 sentenza). La Corte territoriale non ne ha, tuttavia, tratto le necessarie conseguenze in ordine alla pena base che avrebbe potuto essere determinata nel massimo per il reato tentato ritenuto più grave, in anni otto di reclusione, oltre alla multa (pena edittale massima di anni 12 di reclusione ridotta di un terzo, quale diminuzione minima per il tentativo, ex art. 56 c.p.), risultando, quindi, illegale, per eccesso, la pena base di anni 10 di reclusione.

Va, conseguentemente annullata la sentenza, limitatamente alla pena inflitta a Co.Ma., con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per la determinazione della pena.

Va considerato, relativamente al giudizio di rinvio, che la doglianza del ricorrente, rispondente alla realtà processuale, dell’erronea determinazione del reato più grave, che va determinato in astratto, è, tuttavia, inficiata dalla carenza di interesse a rilevarla, giacchè dall’accoglimento della medesima deriverebbe necessariamente un effetto pregiudizievole per il predetto, ovverossia l’aggravamento della pena base relativa al reato più grave di cui alla lettera a) della rubrica (art. 416 bis c.p. aggravato ai sensi dei commi 4 e 6).

Questa Corte, con motivazione condivisa dal Collegio, ha ritenuto che In tema di reato continuato, è inammissibile per carenza di interesse il ricorso dell’imputato che, contestando, sotto il profilo della violazione di legge, la valutazione di gravità effettuata dal giudice di merito, miri ad ottenere un’inversione di gravità dei reati, nel caso in cui il suo eventuale accoglimento comporterebbe una "reformatio in peius" della sentenza conseguente alla necessità di aumentare la pena base per il reato più grave (Sez. 4, Sentenza n. 3038 del 24/05/2000 Cc. (dep. 04/07/2000) Rv. 216804) Va anche affermato il passaggio in giudicato dell’affermazione di colpevolezza per i delitti rinviati al giudice di merito, in quanto nella fattispecie vale il principio che, in caso di rinvio per la sola determinazione della pena, il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento dei reati e sulla responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive successive all’annullamento parziale, trattandosi di cause sopravvenute non incidenti su quanto deciso in maniera definitiva (Cass. S.U. 23.5.97 n. 4904, ud.

26.3.97, rv. 207640).

6a) Il ricorso di N.F. è infondato.

Il ricorrente, con i primi due motivi di ricorso, propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4A sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5A sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2A sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955). La Corte di Appello di Napoli, invero, con motivazione esaustiva, logica e non contraddittoria, evidenzia, sulla base delle richiamate intercettazioni telefoniche il ruolo fondamentale svolto dal N. della vendita anche di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti (pag. 74-83), con un interessamento attivo da parte del ricorrente al recupero di denaro a favore del clan, conseguente agli arresti effettuati dalle forze dell’ordine (pag. 97-98), ritenendo, dal complesso delle telefonate, che avessi agito non a titolo personale ma quale intermediario del clan per la vendita al dettaglio di sostanze stupefacenti (pag. 98-99), con riferimento anche all’esigenza di reperire denaro per sostenere economicamente i componenti arrestati e le relative famiglie, non ritenendo, implicitamente, di attribuire particolare rilievo al tenore di altre conversazioni intercettate ritenute non idonee a sovvertire, gli elementi di responsabilità in ordine al reato associativo.

La Corte territoriale, infatti, evidenzia come dal contenuto delle conversazioni intercettate risulta del tutto evidente come l’attività svolta dal N. avvenisse non solo con il consenso ma anche nell’interesse del clan Panico-Perillo che ne lucrava i proventi, garantiva le esazioni con la forza del suo potere di intimidazione e investiva capitali nelle consistenti forniture, distribuite in tutta Italia e i cui costi non avrebbero potuto essere sostenuti dal ricorrente, operaio dell’Alfa Romeo di (OMISSIS), ritenendo, con motivazione logica, come lo svolgimento di traffici di sostanze stupefacenti di grandi dimensioni non poteva essere svolto dal ricorrente in proprio, o con occasionali rifornimenti da M.P., ma presupponeva lo stabile inserimento nell’associazione camorristica che ne sosteneva i costi.

Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla censura relativa al mancato accoglimento della richiesta di assorbimento del reato sub 006 in quello sub 005 che la Corte territoriale ha disatteso rilevando come si trattasse, in effetti, ancorchè la destinatala dello stupefacente fosse in entrambi i casi la Si., di episodi differenti in quanto l’episodio di cessione contestato al capo 006 era avvenuto tramite il p. (pag. 95), mentre la cessione di cui al capo 005 era intervenuta direttamente tra il N. e la Si..

A fronte di tali considerazioni, che trovano supporto probatorio logico nelle intercettazioni richiamate, il ricorrente propone una diversa e alternativa ricostruzione dei fatti, non ammessa nel giudizio davanti alla suprema Corte.

6b) Contesta, anche, il ricorrente la sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7.

La circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203 è configurabile rispetto ad ogni tipo di delitto, punibile con pena diversa dall’ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso: la prima ipotesi ricorre allorquando gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso ponendo in essere una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale, mentre la seconda ipotesi, quella cioè dell’agevolazione, postula, invece, che il reato sia commesso al fine specifico di favorire l’attività dell’associazione di tipo mafioso, (v. Cass. Sez. 1 sent. n. 2667 del 30.1.1997 dep. 19.3.1997 rv 207178).

Rileva, al riguardo, la Corte di merito, con valutazione coerente logica, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7, come la stabile attività di cessione di sostanze stupefacenti dell’imputato per conto del gruppo abbia agevolato lo svolgimento dell’attività criminosa dell’associazione stessa, assicurandone la realizzazione del programma delittuoso, rientrando i reati commessi dal N. nel programma criminoso del clan con la consapevolezza di agevolare, con i singoli delitti gli obiettivi del clan nelle cui casse confluivano i proventi delle attività illecite svolte dal ricorrente. La Corte di appello ha fornito un’adeguata motivazione anche in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, evidenziando la sussistenza degli elementi caratterizzanti tale circostanza, interpretazione non censurabile da questa Corte di legittimità perchè compatibile con il senso comune e con "I limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente, già sopra citata.

Interpretazione, tra l’altro, contestata genericamente dal ricorrente, che in realtà si è limitato a fornire solo una diversa interpretazione e quindi sottoponendo a questa Corte di legittimità una valutazione del fatto non consentita.

6c) Infondate appaiono anche le censure sul diniego delle attenuanti generiche e sull’entità della pena inflitta, avendo i giudici di merito correttamente valutato i criteri di cui all’art. 133 c.p. (modalità della condotta criminosa e personalità dell’imputato). La Corte di merito ha infatti rilevato che, ad onta della incensuratezza dell’imputato, sono emersi l’estrema spregiudicatezza dello stesso, la personalità di trafficante di alto livello, nonchè i contatti dello stesso con altri ambienti criminali, escludendo che l’intrinseca gravità dei fatti potesse giustificare un trattamento sanzionatorio più benevolo.

Questa suprema Corte ha, d’altronde, più volte affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento. (Si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691).

La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p.. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004-Rv. 230278).

7a) Il ricorso di P.P. è inammissibile.

La Corte territoriale e il Tribunale hanno ravvisato la responsabilità del predetto, anche quale dirigente e capo dell’organizzazione criminale, in forza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia D.G. e M., delle dichiarazioni di D.A. (compagna di T.P., sodale del clan Piscopo-Gallucci, subito dopo l’assassinio dal compagno); delle missive provenienti dal carcere del ricorrente e D. P.G., cugino dell’imputato, ritenuto parimenti promotore capo della organizzazione (f. 102- 104), nonchè degli esiti delle intercettazioni ambientali (pag. 106), ricostruendo il ruolo di preminenza di entrambi i P. (f. 107-108).

Sono tutti elementi che, anche singolarmente considerati, fanno ritenere sussistenti elementi di reità nei confronti del ricorrente, sia con riferimento al reato di associazione ascrittogli, sia con riferimento al ruolo di capo e organizzatore del sodalizio criminosoi e le cui valutazioni difensive si limitano a confutare, con una diversa ricostruzione dei fatti, inammissibile in questa sede, le logiche argomentazioni della Corte territoriale.

7b) vanno anche disattese le censure sul diniego delle attenuanti generiche e sull’entità della pena inflitta, ritenuta equa, avendo i giudici di merito correttamente valutato i criteri di cui all’art. 133 c.p. (modalità della condotta criminosa e personalità dell’imputato), considerando il ruolo preminente del ricorrente all’interno dell’associazione, pianificando dal carcere le attività del sodalizio e anche l’espansione del suo ruolo di comando, al momento della propria rimessione in libertà, con un ripristino degli equilibri rotti a seguito della lunga assenza 8a) anche il ricorso di S.A. è manifestamente infondato, il ricorrente contesta l’entità delle pene sia detentiva (anni tre di reclusione) che pecuniarie inflitte, prossima la prima al massimo edittale, considerando la diminuente per il rito abbreviato.

Il Tribunale aveva condannato il ricorrente, riconosciuta sussistente l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, con l’aumento per la recidiva e la riduzione per il rito, alla pena di anni quattro di reclusione e Euro 2.800 di multa.

La Corte territoriale ha ridotto la pena inflitta ad anni tre di reclusione e Euro 2400 di multa, avendo considerato la minore gravità dei fatti alla luce dell’assoluzione del ricorrente dal reato estorsivo e associativo, rilevando una minore pericolosità, limitando la pena detentiva ad anni tre di reclusione, considerando l’aumento per l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 (anni uno e Euro 1.300) e la recidiva (mesi sei e Euro 800 di multa), operando la riduzione di anni uno, mesi sei e Euro 1200 per il rito abbreviato.

La Corte di merito, ai fini di individuare la pena più adeguata, ridotta rispetto a quella determinata dal Tribunale, ha esaminato i vari elementi fissati dall’art. 133 c.p. Come già evidenziato la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, peraltro, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito.

9a) Anche il ricorso di Si.Fr. è inammissibile, limitandosi a formulare censure di merito ad una sentenza congruamente motivata in ordine alla responsabilità della stessa (pag. 89- 94).

La Corte di merito, ha, logicamente, rilevato come le intercettazioni telefoniche, analiticamente riportate nella motivazione del Tribunale e della Corte d’appello, hanno consentito di costruire con elementi certi la responsabilità della ricorrente in ordine all’acquisto, in tempi diversi, da parte di quest’ultima dal N., anche a mezzo del convivente R.G., di sostanze stupefacenti trasportate in Sicilia e destinate alla vendita.

La Corte territoriale, coerentemente, ha posto in risalto come la ricorrente, per verificare il peso di quanto acquistato, utilizzava il proprio bilancino, sicchè si procedeva ad un doppio controllo, da parte del N. e della Si., al fine di verificare l’esattezza del peso dello stupefacente acquistato, desumendone, coerentemente, che non trattavasi di acquisti destinati a uso personale; non si giustificherebbe, infatti, in base alla logica valutazione della Corte, un viaggio di nove ore dalla Sicilia a (OMISSIS), con la conseguente spesa, se la finalità fosse stata solo quella di un approvvigionamento per uso personale.

L’omesso esame di una circostanza da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell’art. 606 c.p.p., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza allorchè, pur in mancanza di espressa disamina, il rilievo debba considerarsi implicitamente disatteso perchè incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione, nonchè con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima.

Secondo il disposto dell’art. 597 c.p.p., comma 1, l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi di impugnazione proposti). Pertanto il giudice d’appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell’appellante in ordine ai punti (o capi art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) investiti dal gravame, ma non è tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell’appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poichè in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993 ) Rv. 194804).

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto attendibili i plurimi, ripetuti e convergenti esiti delle intercettazioni telefoniche, non scalfiti dall’esito negativo della perquisizione domiciliare, non incompatibile con i reati ascritti alla Si..

9b) Anche le censure relative al trattamento sanzionatorio sono manifestamente infondate.

Richiamate tutte le argomentazioni in ordine alla concedibilità delle attenuanti generiche, formulate con riferimento agli altri imputati, la Corte di merito ne ha negato la concessione alla prevenuta, valutata la obiettiva gravità dei fatti e la pluralità degli acquisti di sostanze stupefacenti, ritenendo congruo il trattamento sanzionatorio irrogato, anche in considerazione dello stabile collegamento della Si. con gli ambienti criminali facenti capo al N..

A fronte di quanto sopra la ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello.

10a) Il ricorso di T.S. è infondato.

La Corte territoriale invero, ha analiticamente esaminato e valutato il complesso indiziario a carico del prevenuto, costituito dalle plurime intercettazioni telefoniche (pag. 83-88) evidenziando la partecipazione del T., che operava stabilmente nell’interesse del gruppo, alle singole condotte di cessione di sostanze stupefacenti, consentendogli il N., con cui collaborava per la conclusione degli "affari", di curare personalmente qualche consegna ("è cosa mia"), cui non era estraneo il clan, creditore del corrispettivo delle cessioni, come coerentemente ritenuto dalla Corte territoriale che ha rilevato come esponenti dell’associazione, quali il N. e il Pe., erano chiamati in causa allorchè vi era la necessità di riscuotere il relativo credito, consentendo di impuntare al clan, quale creditore dell’importo delle cessioni di sostanze stupefacenti da parte del T., la riferibilità di tali affari. Peraltro, evidenzia la Corte, il T. non avrebbe potuto esporsi ad anticipare sostanze stupefacenti se non vi fosse stato uno stretto e stabile rapporto con i componenti del clan destinatari del corrispettivo, fornendo un apporto concreto alla distribuzione dello stupefacente che ha indotto, coerentemente, la Corte a ritenere sussistente l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 (richiamando, al riguardo, le considerazioni svolte con riferimento a tale aggravante, per il N.), avendo contribuito al perseguimento dei fini del clan con una univoca e cosciente attività agevolatrice del sodalizio criminale, avendo collaborato all’attività di distribuzione della droga che rappresenta uno degli stabili introiti del sodalizio camorristico.

10b) Infondate sono anche le censure relative alla mancata concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, avendo la Corte adeguatamente motivato in ordine al diniego della concessione delle predette attenuanti, con riferimento alla gravità dei fatti e alla contiguità del T. con un contesto criminale facente capo alla organizzazione camorristica, escludendo la possibilità di un più benevolo trattamento sanzionatorio in ragione della spiccata capacità delinquenziale del ricorrente, desunta anche dalla persistenza dello stesso nella commissione dei reati della stessa specie.

11) Anche il ricorso di V.V., condannato per tentata estorsione aggravata dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di Ba.An. e per la partecipazione al clan Sarno, è infondato.

Con riferimento alla tentata estorsione, la parte offesa aveva riconosciuto in fotografia in V.V., chiamato "brillantina" colui che in macchina, occupando il posto posteriore, lo aveva accompagnato all’appuntamento con il D.M. che, unitamente ad altro soggetto aveva effettuato richieste estorsive nei confronti del Ba., chiedendo il 3% del valore dell’appalto relativo ai lavori di meccanizzazione che la sua ditta stava svolgendo (pari a circa Euro 150.000).

La Corte territoriale ne ha logicamente dedotto che il V. era a conoscenza delle attività criminali del D.M., rientrando l’estorsione nelle attività atipiche del programma criminoso dell’associazione, avendolo condotto in un luogo isolato di campagna, elemento significativo della finalità dell’incontro; se il V. non ha esternato al Ba. il motivo dell’accompagnamento dal D. M. è perchè nella condotta estorsiva il compito riservato al ricorrente, in base alla coerente valutazione della Corte di merito, era di accompagnare il Ba. e di controllare il territorio "guardandosi attorno", offrendo, tuttavia un significativo contributo causale alla commissione del reato, avendo agevolato la condotta dei coimputati, in quanto anche il numero delle persone conta per rafforzare la valenza intimidatrice delle richieste estorsive nei confronti della vittima, con l’effetto di indebolirne la resistenza, essendo rimasta sola e "circondata" in un luogo impervio e poco frequentato. Con motivazione coerente logica la Corte territoriale ha inoltre ritenuto sussistente l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 per il metodo "camorristico" di cui sono chiare espressione le modalità che hanno accompagnato la condotta estorsiva, affidata al V., che ha condotto la vittima in un luogo di campagna, al cospetto dei complici che hanno avanzato le pretese estorsive.

Anche le motivazioni che hanno indotto la Corte di merito a ritenere sussistente il reato associativo non appaiono censurabili in questa sede, essendo fondate su molteplici elementi, quali: a) il rapporto diretto tra il V. e il D.M., personaggio di spicco nell’organizzazione criminale; b) i numerosi contatti telefonici con D.M. che vedono il ricorrente partecipare attivamente agli affari dello stesso, come evidenziato dal contenuto delle intercettazioni telefoniche (pag. 115); e) la circostanza che il V. sia stato sorpreso, a bordo di una moto appartenente a D. M., in compagnia di G.G., vicino al clan Sarno, nei pressi dell’abitazione di Pi.An., con funzione di sentinella in occasione di un incontro tra il Pi. e il D. M.; d) la tempestività con la quale sono ripresi i rapporti tra il ricorrente e il D.M., all’uscita dal carcere, a riprova della loro non occasionalità e della messa disposizione del V. dei propri servizi a favore del D.M..

Tali condotte, unitamente all’episodio estorsivo in danno del Ba., hanno fornito un contributo rilevante alla vita dell’associazione anche mediante la partecipazione all’attività di controllo e sorveglianza del territorio che consentono a un rappresentante di spicco del clan di organizzarsi e sviluppare, anche attraverso riunioni, le politiche criminali associative.

La Corte territoriale, inoltre, ha disatteso, motivatamente e logicamente, tutti i rilievi difensivi tendenti ad escludere la responsabilità del ricorrente con una diversa ricostruzione dei fatti, disattesa dai giudici di merito e che non può essere riproposta in sede di legittimità, trattandosi di censure attinenti al merito della decisione, congruamente motivata.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Conclusivamente, vanno rigettati i ricorsi di B.A., Ci.Ra., N.F. e T.S. e dichiarati inammissibili i ricorsi di C.L., Ca.

S., S.A., P.P., Si.Fr. e V.V. con conseguente condanna dei predetti al pagamento delle spese processuali.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi di C.L., Ca.Sa., S.A., P.P., Si.Fr., e V. V., tali i imputati devono essere anche condannati- ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Co.Ma. limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto; rigetta nel resto il ricorso.

Rigetta i ricorsi di B.A., Ci.Ra., N.F. e T.S. e dichiara inammissibili i ricorsi di C.L., Ca.Sa., S.A., P.P., Si.Fr. e V.V. e condanna i predetti al pagamento delle spese processuali, nonchè C. L., Ca.Sa., S.A., P.P., Si.Fr., e V.V. al versamento della somma di Euro mille ciascuno alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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