Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-02-2011) 23-02-2011, n. 6985 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza in data 13 luglio 2010, il Tribunale di Catanzaro, accogliendo parzialmente l’istanza di riesame avanzata nell’interesse di M.S., indagato per il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso (capo a), di interposizione fittizia, ex D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, con l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7 (capi b), c) ed e) e porto e detenzione di armi e ricettazione delle stesse (capi f) e g), annullava l’ordinanza del Gip di Catanzaro, emessa in data 17/6/2010 in relazione al reato di cui all’art. 416 bis c.p. confermando la misura cautelare della custodia in carcere applicata al prevenuto in relazione agli altri reati.

Il Tribunale escludeva che dal compendio accusatorio fossero individuabili gli elementi costitutivi del delitto associativo di tipo mafioso ed osservava che dal materiale indiziario emergeva che, a partire dai primi mesi dell’anno 2007, in costanza della detenzione di L.B.C. (capo della cosca Lo Bianco) si era verificato il radicamento sul territorio di soggetti criminali che agivano al di fuori del contesto associativo egemone dei Lo Bianco e, in una ultima fase, progettavano la costituzione di un gruppo autonomo sotto l’egida di Ma.An., contrapposto alla cosca Lo Bianco.

Secondo l’ipotesi accusatoria, dagli esiti dell’attività di captazione telefonica ed ambientale svolta dagli inquirenti, sarebbe emerso che L.B.C. e Ma.An., rispettivamente promotore e partecipe dell’associazione mafiosa Lo Bianco (riconosciuta con sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 3/6/2010), nonchè m.N. avrebbero promosso ed organizzato un gruppo criminale finalizzato alla realizzazione di estorsioni e di reati contro il patrimonio, nonchè al controllo delle attività economiche nel settore delle affissioni pubblicitarie, servizi funerari, trasporto in ambulanza, pubblici appalti.

Il Tribunale rilevava che tale ipotesi accusatoria non trovava conferma nel compendio indiziario, osservando, in primo luogo che non erano emerse prove di contatti di natura illecita fra L.B. C. e gli altri soggetti affiliati ed, in secondo luogo, che dalle singole vicende prese in considerazione nell’ordinanza del Gip emergeva soltanto che gli indagati si erano aggregati per commettere episodicamente dei reati, sebbene fosse serpeggiata l’idea di costituire un gruppo autonomo che potesse sostituire l’egemonia della cosca Lo Bianco.

In particolare, con riferimento alla vicenda estorsiva in danno dell’imprenditore C.A. per la quale erano stati tratti in arresto (il 22/12/2007) P.F.A. e ma.Do. il Tribunale osservava che dalle numerose conversazioni intercettate in carcere emergeva una diatriba fra le famiglie dei detenuti e gli altri soggetti che erano rimasti indenni dall’azione giudiziaria ai quali venivano rivolte pressanti richieste di denaro, soprattutto da P.R., padre di F. A. nei confronti di m.N..

Ad opinione del Tribunale le pretese di assistenza economica dei detenuti non nascevano dalla loro affiliazione ad una associazione di stampo mafioso facente capo al clan Lo Bianco, quanto piuttosto erano legittimate dal fatto che m.N. e L.B.G. erano coinvolti nell’estorsione e, pertanto, dovevano prestare aiuto ai loro complici tratti in arresto. Osserva il Tribunale che da una conversazione intercorsa l’11 luglio 2008 fra P.R. e L. B.P. (figlio del boss L.B.C.) si evinceva che la vicenda estorsiva era un affare esclusivo di m. e non della famiglia Lo Bianco, in quanto il figlio del boss, nel tentativo di intromettersi era stato letteralmente zittito dal m. (sono fatti miei).

Pertanto il Tribunale reputava che m.N., approfittando della debolezza del vecchio ( L.B.C.) avesse organizzato una autonoma attività delinquenziale nella quale concorreva P. F.A.. Quest’ultimo aveva compiuto numerose imprese criminali, associato ad altri soggetti, con i quali spartiva i proventi, senza, tuttavia, che emergessero gli estremi di un vincolo associativo.

Osservava il Tribunale che gli elementi indiziari in atti dimostravano che, negli anni 2007/2008, dopo l’arresto del boss e dei sodali della cosca Lo Bianco, un gruppo di criminali ( m.N., L.B.G., Ma.Vi., M.S., P.F.A., ma.Do. ed il fratello F.) scorazzava in libertà per il territorio vibonese, ponendo in essere, singolarmente ed in concorso, condotte, illecite.

In tale periodo di anarchia criminale si collocavano la vicenda estorsiva in danno di C., il pestaggio degli operai, le estorsioni che il P. poneva in essere con il M., le imprecisate assunzioni imposte ai titolari del Supermercato Eurospin, nonchè la costituzione di società fittiziamente intestate a terzi.

Precisava, inoltre, il Tribunale che, pur non sussistendo dubbi che le attività economiche realizzate attraverso l’interposizione fittizia fossero illecite, tuttavia non sussistevano elementi per affermare che esse fossero gestite da M.N. e M. A. per ricondurle alla cosca Lo Bianco. Rilevava, peraltro, il Tribunale che, dopo la sua scarcerazione dagli arresti domiciliari, il 10 giugno 2009, M.A. aveva avuto continue frequentazioni con P.F.A., M.S., M.V., i quali si erano attivati per fornirgli copertura sintomatica di attività sommerse, come l’acquisto di schede telefoniche intestate a L.B.M. e la bonifica della vettura. Concludeva, quindi, il Tribunale osservando che dagli atti emergeva che M., nonostante si fosse circondato di soggetti dei quali era conosciuto il radicamento criminale sul territorio vibonese, non aveva creato alcuna organizzazione criminale stabile, nè nel proprio interesse, nè nell’interesse di L.B.C., precisando, tuttavia che la disponibilità di tali soggetti ( M.V., P.F.A. e M. S.) l’apprestamento di molte cautele per eludere i controlli delle forze dell’ordine, nonchè il carisma di M., che contava sull’appoggio di microcriminali come i ma. lasciavano intravedere rapporti criminali in consolidazione che, verosimilmente, preludevano ad una organizzazione criminale stabile.

Il Tribunale, tuttavia, riteneva sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di interposizione fittizia, ex D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, in ordine alla interposizione fittizia nella Frado Autotrasporti e della Pubbliservice Sud di G.F., nonchè nella Polistena servizi di P. F. e B.G., desumendoli dalle numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali in atti.

Ad uguali conclusioni perveniva il Tribunale in ordine ai reati relativi alle armi, desumendoli dalle conversazioni intercettate presso la casa Circondariale di Vibo Valentia, in data 28/12/2007, 4/1/2008 e 11/1/2008 intercorse fra il detenuto P.F. A., suo padre P.R., sua madre T.N. e suo zio T.G.. In tali conversazione, sia pure ricorrendo ad un linguaggio criptato, si faceva riferimento alle armi, fra cui un Kalashnikov ed una pistola, successivamente rinvenute, a seguito di una perquisizione avvenuta il 26 gennaio 2009, all’interno di un garage di pertinenza di Tr.An..

Dall’esame congiunto delle intercettazioni emergeva che P. R. e T.G. si erano attivati per spostare le armi dite dal loro congiunto per conto proprio e per conto di M.S., provvedendo alla conservazione ed alla gestione delle stesse, facendone oggetto di ampie trattative e discussioni con il M. che ne chiedeva la restituzione.

Ritenute sussistenti anche le esigenze cautelari, il Tribunale confermava la misura della custodia cautelare in carcere.

Avverso tale ordinanza propone ricorso il P.M. deducendo la mancanza e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti specificamente indicati. Il P.M. ricorrente eccepisce l’intrinseca contraddittorietà della conclusioni a cui è pervenuto il Tribunale il quale, dando per scontata l’aggregazione intorno a M.A. di un gruppo di criminali che si proponeva di perpetrare azioni delittuose e che altre ne aveva già realizzate, di grande visibilità, non fa altro che delineare un fenomeno che non risulta qualificabile in termini diversi dalla "associazione criminale". Obietta che nel concorso di persone nel reato continuato l’aggregazione delle volontà delittuose avviene in relazione a specifici reati programmati, cosicchè l’esistenza di una volontà di più soggetti, tesa alla commissione di reati futuri ed indeterminati, ed, in particolare, l’osservazione che costoro avessero intrapreso l’esercizio di attività economiche con lo scudo di soggetti formalmente incensurati allo scopo di mascherare tratti di illegalità della loro futura attività, dimostra l’esistenza di un programma futuro ed indifferenziato, teso alla commissione di reati che, sicuramente fuoriesce dall’ambito meramente concorsuale. Più specificamente il P.M. ricorrente osserva che le conclusioni raggiunte dal Tribunale del riesame si pongono in contraddizione con la valutazione che lo stesso Collegio ha effettuato delle emergenze processuali.

A questo riguardo il P.M. osserva che è pacifico che il gruppo Lo Bianco è stato riconosciuto come un sodalizio mafioso da una sentenza, ancora non definitiva, emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Del pari scontata, nella ricostruzione del Tribunale è la commissione da parte di P.F.A., L.B. G., M.S., m.N. del tentativo di estorsione commesso in data (OMISSIS) in danno dell’imprenditore C.A., per il quale il ma. ed il P. erano stati tratti in arresto. E tuttavia di fronte alla prova che il P. ed il ma. abbiano prima preteso e poi ottenuto assistenza economica dal m., dal M. e dal L.B., il Tribunale contraddittoriamente ha ritenuto che tale prestazione non abbia trovato il suo fondamento nell’esistenza di un rapporto associativo, bensì nella responsabilità di questi ultimi a titolo di concorso nella stessa estorsione per la quale i due giovani erano stati arrestati. Il P.M. ricorrente si duole che il Tribunale abbia tratto elementi per escludere l’affectio societatis da una conversazione intercettata (il 28 marzo 2009) di P.R., padre di F.A., nella quale costui esprime la convinzione dell’estraneità del figlio a qualunque rapporto di affiliazione criminale, senza tener nel debito conto una intercettazione del figlio (15 marzo 2008) nel quale costui riferiva esplicitamente di sè stesso come di "un diavolo nel gruppo".

Il Tribunale non avrebbe spiegato per quale motivo l’opinione di un congiunto dell’indagato sulla sua appartenenza o meno ad un determinato sodalizio criminale dovrebbe prevalere su quanto riferito dallo stesso indagato. Il Tribunale inoltre avrebbe fatto una lettura illogica di specifici elementi indiziali, reputando irrilevante la spendita del nome di L.B.C. per la consumazione dell’estorsione ai danni di C.A. ed effettuando una interpretazione sbagliata della conversazione intercorsa l’11 luglio 2008 fra P.R. e L.B.P. e di altre conversazioni intercettate. Ulteriori contraddittorietà della motivazione emergerebbero nell’analisi del ruolo di Ma.

A., avendo il Tribunale ignorato gli esiti di specifiche intercettazioni (relative a rapporti fra ma.Do. e Ma.An.) dalle quali emerge che costui, nonostante il suo stato di detenzione, proseguiva nel suo ruolo di riferimento dell’agire degli altri consociati. Anche la ricostruzione della vicenda relativa al dentista F.E. sarebbe frutto di una errata lettura della conversazione intercettata il 18/2/2010 nell’autovettura dei fratelli G..

Il P.M. ricorrente, inoltre si duole che il provvedimento del Tribunale sarebbe caratterizzato da una grave omissione nella lettura degli elementi di prova circa l’utilizzo del metodo mafioso per l’assoggettamento di alcune imprese operanti nel settore della pubblicità e degli appalti di pubblici servizi.

In definitiva il P.M. rileva cinque gravi contraddizioni nel percorso logico del provvedimento impugnato.

In primo luogo il Tribunale esclude che il gruppo capeggiato da m.N., di cui individua come componenti P.F. A., M.S., L.B.G. sia riconducibile a L.B.C.. Al fine di giustificare tale conclusione il Collegio, nonostante il rapporto di affinità fra il L.B. ed il m. (che ne è genero) attribuisce decisività ad una serie di conversazioni dalle quali si evince il desiderio del m. di rendersi autonomo dal suocero, omettendo di confrontare tale conclusione con il fatto che il gruppo spendeva il nome del capo per commettere estorsioni.

In secondo luogo il Tribunale descrive il rapporto fra gli indagati in termini di "aggregazione per commettere episodicamente reati" accompagnata dalla idea di "costituire un gruppo che potesse sostituire l’egemonia della cosca Lo Bianco", senza rendersi conto della apoditticità di tale conclusione.

In terzo luogo il Tribunale non ha tenuto conto alcuno del materiale probatorio, riportato nel paragrafo 3.1 della ordinanza cautelare, dimostrante come gli indagati fossero coinvolti nella gestione di imprese che avevano realizzato un pesante condizionamento dell’economia vibonese attraverso metodologie mafiose.

In quarto luogo l’affermazione della non identità dei gruppi di appartenenza del L.B.C. e del Ma., anzi dell’esistenza di un insanabile contrasto fra di loro per il controllo del territorio vibonese, oltre a risultare inconciliabile con la tesi della non mafiosità, non viene messa in relazione con il fatto che gran parte dei soggetti che operavano alle dipendenze del m. siano passati alle dipendenze del Ma..

In quinto luogo, con riferimento all’estorsione ai danni di C. risulta incomprensibile, dal punto di vista logico, la tesi della incompatibilità fra il vincolo associativo ed il fatto che L.B.G., m. e M. fossero concorrenti nell’estorsione.

Di conseguenza il P.M. chiede l’annullamento dell’ordinanza nella parte in cui ha escluso la sussistenza del reato associativo.

Avverso tale ordinanza propone ricorso anche l’indagato latitante, per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando due motivi di gravame con il quali deduce violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, nonchè violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento ai reati relativi alle armi. Quanto al primo motivo il ricorrente contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo sotto il profilo del dolo specifico, eccependo che dagli atti del procedimento non emerge alcuna consapevolezza, in testa all’agente, del pericolo di sottoposizione alle misure di prevenzione patrimoniali. Quanto al secondo motivo il ricorrente si duole di malgoverno delle regole che presiedono alla formazione della prova indiziaria ed eccepisce la motivazione apparente, avendo il Tribunale riprodotto pedissequamente le stesse considerazioni dell’ordinanza impugnata, senza tener minimamente conto delle deduzioni e contestazioni specifiche sollevate dalla difesa, che aveva fornito una interpretazione alternativa del materiale intercettivo in atti.
Motivi della decisione

Ricorso di M.S.:

Il ricorso è inammissibile in quanto proposto da difensore non iscritto all’albo speciale di cui all’art. 613 c.p.p..

Occorre considerare che la precedente giurisprudenza che considerava che il difensore del latitante fosse abilitato a proporre ricorso per Cassazione, anche se non iscritto all’albo speciale (vedi: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 38019 del 12/05/2004 Ud. (dep. 27/09/2004) Rv. 229733) è stata ribaltata dalle Sezioni Unite che, con la sentenza Lepido del 2006 hanno statuito che è inammissibile il ricorso per Cassazione proposto nell’interesse dell’imputato latitante dal difensore d’ufficio non iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione, in quanto il mancato titolo abilitativo rende il difensore privo di legittimazione a proporre l’impugnazione.

In particolare le Sezioni Unite hanno osservato che:

"Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l’ampio potere di rappresentanza dell’imputato latitante o evaso riconosciuto al difensore dall’art. 165 c.p.p., comma 3 include anche il riconoscimento del potere di rappresentarlo ai fini della presentazione del ricorso per Cassazione, indipendentemente dalla sua legittimazione professionale.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale minoritario, invece, l’esigenza di tutela del diritto alla difesa del latitante non esime dal rispetto delle condizioni di abilitazione del difensore. Il contrasto nasce quindi da un’esigenza di coordinamento dell’art. 613 c.p.p., comma 1, laddove riconosce all’imputato la facoltà di proporre ricorso per Cassazione anche personalmente, con l’art. 99 c.p.p., comma 1, laddove attribuisce anche al difensore "le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo"; e con l’art. 165 c.p.p., comma 3, laddove prevede che "l’imputato latitante o evaso è rappresentato a ogni effetto dal difensore". 4. Tuttavia i criteri per una corretta interpretazione delle norme in discussione vanno piuttosto rinvenuti nell’art. 571 c.p.p., comma 1, che detta la disciplina generale delle impugnazioni dell’imputato.

Infatti questa norma prevede innanzitutto che l’imputato può proporre personalmente, o a mezzo di un procuratore speciale nominato a norma dell’art. 122 c.p.p., qualsiasi impugnazione:

sicchè quella dell’art. 613 c.p.p., comma 1 è solo una specifica applicazione del principio generale. Riconosce poi al difensore dell’imputato la legittimazione a proporre impugnazione indipendentemente da uno specifico mandato del suo assistito:

sicchè si ritiene in dottrina e in giurisprudenza che, quando propone l’impugnazione, il difensore esercita un potere proprio, in qualche misura autonomo dal potere d’impugnazione dell’imputato, tanto che il suo potere si aggiunge a quello del difensore eventualmente nominato dall’imputato allo specifico fine dell’impugnazione (Cass., sez. un., 11 novembre 1994, Nicoletti, m.

199399, Cass., sez. 1, 30 giugno 1999, Lonoce, m. 214034, Cass., sez. 1, 21 maggio 2002, Porcaro, m. 222462, Cass., sez. 5, 2 maggio 2003, Piretto, m. 224554).

Si può allora certamente affermare innanzitutto che il potere del difensore di proporre impugnazione in favore dell’imputato trova nell’art. 571 c.p.p., comma 3 una fonte di legittimazione ben più forte e comunque autonoma rispetto a quella che potrebbe derivargli sia dall’art. 99 c.p.p., comma 1, che esclude dall’attribuzione al difensore i diritti riservati personalmente all’imputato, sia dallo stesso art. 165 c.p.p., comma 3, che tratta il difensore come mero rappresentante dell’imputato.

Si deve anzi ritenere che la natura appunto personale del diritto di impugnazione riconosciuto all’imputato dall’art. 571 c.p.p., comma 1 lo escluda dall’ambito dei diritti esercitabili dal difensore a norma dell’art. 99 c.p.p., comma 1. Sicchè non propone certamente un’interpretazione corretta di questa norma la giurisprudenza, quando, argomentando dall’art. 99 c.p.p., comma 1 appunto, afferma che "il difensore d’ufficio dell’imputato irreperibile, anche quando non sia iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 613 c.p.p., è legittimato a proporre ricorso per Cassazione, dato che al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato (a meno che non siano personalmente riservati a quest’ultimo), e che lo stesso imputato, quando irreperibile, è rappresentato appunto dal difensore" (Cass., sez. 1, 29 aprile 2005, Shala, m. 231839).

Infatti l’art. 159 c.p.p., comma 2, che riconosce al difensore la rappresentanza dell’imputato irreperibile, non deroga affatto all’art. 99 c.p.p., comma 1; e non attribuisce quindi al difensore le facoltà e i diritti che la legge serva personalmente all’imputato.

Anche l’imputato contumace (art. 420 quater c.p.p.), l’imputato assente (art. 420 quinquies c.p.p.) o l’imputato allontanato dall’udienza ( art. 475 c.p.p.) è rappresentato dal suo difensore, ma non ai fini della richiesta di giudizio abbreviato ( art. 438 c.p.p., comma 3) o della richiesta di patteggiamento ( art. 446 c.p.p.), che possono essere proposte solo personalmente dall’imputato.

Deve pertanto ritenersi che lo stesso art. 165 c.p.p., comma 3, laddove riconosce al difensore il potere di rappresentare "a ogni effetto" l’imputato evaso o latitante, rimanga nei limiti segnati dall’art. 99 c.p.p., comma 1, che esclude espressamente dall’ambito della rappresentanza i diritti riservati personalmente all’imputato.

Nè ha rilievo il fatto che la giurisprudenza di questa Corte riconosca al difensore dell’imputato latitante il potere di proporre la richiesta di ricusazione anche senza lo specifico mandato di regola ritenuto necessario (Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, Battaggia, m. 199805, Cass., sez. 1, 16 febbraio 2001, Mendico, m.

219017), perchè l’art. 38 c.p.p., comma 4 non riserva personalmente all’imputato il potere di ricusazione, ma ne prevede l’esercizio anche a mezzo del difensore; ed è l’interpretazione giurisprudenziale a esigere un apposito mandato, anche se non necessariamente nelle forme della procura speciale. Non può pertanto essere condiviso l’orientamento prevalente di questa Corte, per cui l’ampio potere di rappresentanza riconosciuto dall’art. 165 c.p.p., comma 3 al difensore dell’imputato evaso o latitante include anche il potere di rappresentarlo ai fini dell’esercizio del potere personale di impugnazione. Del resto, secondo questa impostazione, il difensore dell’imputato evaso o latitante avrebbe un doppio titolo di legittimazione a impugnare: l’uno autonomo, ex art. 571 c.p.p., comma 3, l’altro di rappresentanza, ex art. 165 c.p.p., comma 3.

Ed è di per sè arduo spiegare perchè la legge avrebbe dovuto prevedere l’esercizio a titolo di rappresentanza di un potere già pienamente esercitabile dallo stesso soggetto per un autonomo titolo di legittimazione. Tuttavia, quand’anche volesse riconoscersi l’ammissibilità di una tale superflua duplicazione, non potrebbe non rilevarsi che il potere di rappresentanza viene riconosciuto al difensore in quanto professionalmente abilitato.

Quando vigeva la distinzione tra albo dei procuratori legali e albo degli avvocati, nessuno avrebbe ipotizzato che il procuratore legale potesse essere abilitato a proporre appello fuori distretto sol perchè difensore di un imputato evaso o latitante. E analogamente non è ragionevole ritenere che il difensore dell’imputato evaso o latitante possa proporre ricorso per Cassazione anche se non abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Deve pertanto ritenersi che anche il difensore dell’imputato evaso o latitante è privo di legittimazione a proporre ricorso per Cassazione se non iscritto nell’albo speciale della Corte. Nè questa conclusione incide sul diritto di difesa del latitante, che, come tutti gli altri imputati, può proporre ricorso personalmente o a mezzo di procuratore speciale e può nominare un difensore di fiducia" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24486 del 11/07/2006 Ud. (dep. 14/07/2006) Rv. 233919).

Alla luce di tale incontestabile orientamento il ricorso proposto dall’avv. Giuseppe Di Renzo deve essere dichiarato inammissibile.

Ricorso del P.M..

Il ricorso è fondato.

Il provvedimento impugnato è viziato da motivazione contraddittoria, illogica, ed apparente. Secondo l’insegnamento di questa Corte:

"l’elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato, è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell’ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 42635 del 04/10/2004 Ud. (dep. 03/11/2004) Rv. 229906).

Occorre tenere presente, inoltre, che al riesame si applicano i principi elaborati dalla Giurisprudenza di questa Corte, in tema di sentenza d’appello difforme da quella di primo grado, circa la necessità di una adeguata confutazione delle ragioni poste a base del provvedimento riformato. Secondo tale incontestabile orientamento:

"In tema di impugnazioni, il giudice di appello è libero, nella formazione del suo convincimento, di attribuire alle acquisizioni probatorie il significato e il peso ritenuti giusti e rilevanti ai fini della decisione, con il solo obbligo di spiegare con motivazione immune da vizi le ragioni del suo convincimento, obbligo che, nell’ipotesi di decisione difforme da quella assunta dal giudice di primo grado, impone anche l’adeguata confutazione delle ragioni poste alla base della sentenza riformata" (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 28583 del 09/06/2005 Ud. (dep. 29/07/2005) Rv. 232441).

Nel caso di specie, il Tribunale per il riesame ha fondato le sue conclusioni, che riconoscono il concorso meramente occasionale ed accidentale dei soggetti indagati nella commissione di specifici reati al posto della sussistenza del vincolo associativo e di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti, su un percorso argomentativo contraddittorio e palesemente illogico, privo, inoltre, di una adeguata confutazione delle ragioni poste a base dell’ordinanza riformata.

Il Tribunale, infatti, ha riconosciuto che gli elementi indiziali in atti dimostravano che, negli anni 2007/2008, dopo l’arresto del boss e dei sodali della cosca Lo Bianco, un gruppo di criminali ( m.

N., L.B.G., Ma.Vi., M. S., P.F.A., ma.Do. ed il fratello F.) scorazzava in libertà per il territorio vibonese, ponendo in essere, singolarmente ed in concorso, condotte illecite. Ha quindi precisato che in tale periodo di anarchia criminale si collocavano la vicenda estorsiva (ai danni dell’imprenditore C.A.), il pestaggio degli operai, le estorsioni che il P. poneva in essere con il M., le imprecisate assunzioni imposte ai titolari del Supermercato Eurospin, nonchè la costituzione di società fittiziamente intestate a terzi, aggiungendo che non sussistono dubbi che le attività economiche realizzate attraverso l’interposizione fittizia fossero illecite. Ha quindi ulteriormente riconosciuto che, dopo la sua scarcerazione dagli arresti domiciliari (giugno 2009) Ma.An. aveva avuto continue frequentazioni con P.F.A., M.S., Ma.Vi., i quali si erano attivati per fornirgli copertura sintomatica di attività sommerse, come l’acquisto di schede telefoniche intestate a terzi e la bonifica della vettura ed ha preso atto che nello stesso periodo si verificavano alcuni atti intimidatori nei confronti di P. N. e del dentista F.E. riferibili ai fratelli ma.Do. e F., soggetti da mettere in relazione con Ma.An..

Tanto premesso, il Tribunale conclude il suo percorso argomentativo con un postulato contraddittorio rispetto alla premesse, assumendo che i fatti descritti lasciano intendere intensi rapporti criminosi fra il Ma.An. ed il gruppo di criminali che scorazzavano nel Vibonese che preludono ad una organizzazione criminale in itinere, non ancora costituita. Tale conclusione appare palesemente illogica in quanto contrasta con gli elementi di cui il Collegio ha preso conoscenza che testimoniano una intensa attività criminale che, proprio in quanto tale, non si adatta alla tesi del concorso episodico ed occasionale in specifici reati.

Le conclusioni assunte dal Tribunale per il riesame, peraltro, sono viziate da motivazione apparente e da mancata confutazione delle ragioni poste a base del provvedimento riformato, con riferimento agli elementi probatori che emergono dal par. 3.1 dell’O.C.C. Infatti il Collegio non ha tenuto conto alcuno del materiale probatorio utilizzato dal Gip per pervenire alle conclusioni assunte nell’ordinanza riformata, nulla osservando rispetto a quelle intercettazioni che dimostrano – in ipotesi – un modus operandi degli indagati, coinvolti nella gestione delle imprese, volto a realizzare un condizionamento dell’economia vibonese attraverso metodologie mafiose.

Nel caso di specie, infatti, il Tribunale si è limitato a proporre un’interpretazione semplificante dell’intimidazione subita da M. D., titolare della PUBLIEMME, senza trame le logiche conseguenze circa le modalità operative degli indagati nella gestione della ditta Publiservice Sud e senza prendere minimamente in considerazione gli esiti delle altre intercettazioni relative alle modalità intimidatorie nel procacciamento e nel rapporto con i clienti.

In questo contesto il giudizio sull’episodicità od occasionalità la dei reati commessi in concorso da alcuni degli indagati risulta viziato anche dalla pretermissione dell’esame degli elementi scaturenti dalla condotta nella gestione delle imprese, in quanto l’eventuale utilizzo di modalità mafiose nella gestione delle attività economiche fittiziamente intestate a dei prestanome, rimanda all’esistenza di un programma futuro ed indifferenziato, teso alla commissione di reati, incompatibile con la tesi del concorso di persone in specifici reati.

Di conseguenza il provvedimento impugnato deve essere annullato, limitatamente al capo a) e all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 con rinvio al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’indagato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato, limitatamente al capo a) e all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 con rinvio al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame.

Dichiara inammissibile il ricorso di M.S., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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