Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 09-02-2011) 23-02-2011, n. 6951 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Caltanissetta, con sentenza in data 16/12/2008, dichiarava B.O., S.G., T. G. e Ba.Ca. responsabili di associazione a delinquere di stampo mafioso per avere fatto parte dell’associazione "Cosa Nostra", operante nel territorio di Riesi e condannati alla pena di anni 10 di reclusione ciascuno ad eccezione del Ba., al quale veniva riconosciuta la circostanza attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 e determinata la pena in anni tre di reclusione. Il Tribunale poneva a fondamento del giudizio di responsabilità le dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia, le intercettazioni ambientali in carcere e gli accertamenti compiuti dal Comando provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta che avevano consentito di acquisire rilevanti riscontri oggettivi alle dichiarazioni rese dai collaboranti. La Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza in data 10/2/2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, appellata dagli imputati, escluse nei confronti di tutti le circostanze aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 2 e 6, rideterminava la pena per il Ba. nella misura di anni due, mesi otto di reclusione, e per gli altri imputati in anni 9 di reclusione ciascuno.

Proponevano ricorso per cassazione i difensori di B. O., S.G., T.G..

Tutti evidenziavano la mancanza di prove certe sulla colpevolezza degli imputati fondata sulla mera presunzione di sussistenza di reati fine e della commissione dei medesimi da parte degli imputati, avendo asseritamente la Corte di merito operato una falsificazione indiziaria per superare il limite dell’accertamento della verità del fatto oltre ogni ragionevole dubbio, con un richiamo del tutto teorico alla convergenza del molteplice in tema di chiamate di correità plurime, in mancanza di concreto accertamento dei reati fine. Il difensore di B.O. assumeva, in particolare, la mancanza di elementi probatori tali da ritenere provata la partecipazione del prevenuto all’associazione mafiosa, mancando riscontri individualizzati alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed essendovi numerose contraddizioni tra le dichiarazioni degli stessi, non emergendo in alcuna di esse il coinvolgimento dell’imputato ad episodi delittuosi.

In subordine chiedeva il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti e la riduzione della pena al minimo edittale.

Il difensore di S.G. deduceva i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per inosservanza o erronea applicazione della legge penale per mancanza, insufficiente, contraddittoria e illogica motivazione, mancando la specificità delle convergenze plurime delle chiamate in correità e l’accertamento della responsabilità per i reati-fine, non avendo la Corte adeguatamente valutato le divergenze delle dichiarazioni dei collaboranti sulla partecipazione ai gravi delitti di sangue di cui riferiscono in forma assertiva i collaboranti Ba. e Ta., mancando il carattere individualizzate proprio del riscontro oggettivo, cioè di collegamento tra il fatto partecipativo dedotto e la condotta dell’imputato, negando tale valenza anche all’attività di controllo delle forze dell’ordine di cui ai verbali di causa.

Lamentava anche il travisamento delle prove testimoniali dei collaboranti C., A., R. e, in subordine, la mancata concessione delle attenuanti generiche. Il difensore di T. G. deduceva:

a) violazione di legge e difetto di motivazione per la non dimostrata partecipazione alla commissione di reati fine, non essendo le dichiarazioni dei collaboranti (in particolare Ba.Ca. e Ta.Gi.) suffragate da attività investigativa, non avendo affrontato la Corte il tema della responsabilità dell’imputato per i fatti omicidari riferiti dai pentiti, evidenziando circostanze incompatibili con le dichiarazioni degli stessi. Rilevava, inoltre, come la Corte territoriale avesse improntato il suo giudizio sui principi probatori della convergenza del molteplice, con riferimento alle dichiarazioni dei collaboranti e della frazionabilità in merito alla valutazione delle divergenze, ritenendo, con riferimento alla abitazione di C. da Judeca che in base alle dichiarazioni del Ta. sarebbe stata teatro degli omicidi di Fa.Mi. e P.C., nonchè base della latitanza dei Cammarata, il travisamento della prova in quanto il collaborante Ba. indicava, invece, come teatro di tale episodi, la diversa casa di C.da Figotto, risultando la prima abitazione occupata, all’epoca dei fatti, dalla famiglia dell’imputato, lamentando anche la mancata vantazione delle dichiarazioni del teste Be.. b) mancata concessione delle attenuanti generiche, trattandosi di imputato incensurato ed eccessività della pena inflitta.
Motivi della decisione

1) Le censure proposte dai ricorrenti, pur investendo formalmente la motivazione del provvedimento impugnato o la conformità dello stesso ai presupposti giuridici che lo giustificano, in realtà si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. Tali censure sono pertanto improponibili, perchè superano i limiti cognitivi di questa Suprema Corte, che, quale giudice di legittimità, deve far riferimento solo all’eventuale mancanza della motivazione o alla sua illogicità o contraddittorietà. (Si vedano fra le tante: C SU 12/12/1994, De Lorenzo, CEDI99391; C 6, 15/05/2003, P., GD 2003, n 45,93).

Va premesso che la modifica normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di Cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. E’ perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorchè si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di Cassazione di verificare la correttezza della motivazione.

Infine il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività non essendo possibile da parte della Corte di Cassazione una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito. Nel caso in esame i Giudici, di merito, hanno ampiamente motivato sulla sussistenza del delitto associazione a delinquere di stampo mafioso.

In buona sostanza i giudici di merito hanno ben motivato la rilevanza probatoria che hanno ritenuto di accordare alla situazione di fatto accertata.

La Corte territoriale ha, con motivazione coerente e logica evidenziato l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, inseriti nell’ambito della famiglia mafiosa di Riesi e che, in tale qualità, ben possono conoscere i fatti e gli avvenimenti riguardanti la consorteria mafiosa.

Evidenziava altresì la Corte di merito come tali dichiarazioni apparissero autonome e spontanee, oltre che disinteressate, non essendo emerse ragioni di rancore personale nei confronti degli imputati, evidenziando le plurime e convergenti dichiarazioni corroborate dagli esiti dell’attività investigativa che hanno consentito di acquisire importanti riscontri oggettivi, tra cui anche le diverse chiamate in correità, a riprova dell’inserimento organico di tutti gli imputati nella famiglia mafiosa di Riesi.

La presenza di eventuali "smagliature e discrasie" nelle dichiarazioni dei collaboranti non implica, in base alla valutazione coerente e logica della Corte di merito,il venir meno della loro sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguate motivazioni, risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali.

Tali rilievi sono sufficienti a ritenere manifestamente infondato il ricorso di B.O. che lamenta l’inattendibilità dei collaboratori Ta. e Ba., che lo hanno accusato, avendo trovato le rispettive dichiarazioni importanti elementi di riscontro nelle intercettazioni telefoniche. Il Ba., ha, infatti, riferito di essere stato formalmente affiliato all’associazione criminale anche alla presenza del B., dichiarando che lo stesso non era stato formalmente affiliato con il "rito della pungiuta", specificando che il covo di contrada De Susini fu messo disposizione del clan da Tr.Fr. tramite il B. che aveva preso parte ai delitti di sangue perpetrati dalla famiglia e in particolare agli omicidi F., Fa., e P.C., al tentato omicidio di Pi.Or. descrivendo, con dovizia di particolari, il ruolo attivo svolto dall’imputato in tali episodi omicidari, analiticamente descritti dalla Corte territoriale (pag. 17-22). Tali affermazioni trovano importanti riscontri nelle convergenti dichiarazioni di Ta.

G., con riferimento al covo utilizzato dal clan, messo a disposizione dal ricorrente, alla sua affiliazione alla mafia e ai fatti omicidari già riferiti dal Ba., specificando quanto al Fa., che lo stesso era stato effettivamente "preso" da B.O., condotto nella casa di T.G., ove venne strangolato, dopo essere stato torturato affinchè confessasse il luogo dove si incontrava con R.C., (pag.

24 sentenza), specificando il ruolo svolto, nell’occasione, dal T. che era rimasto, durante l’esecuzione, sul terrazzo a fare la guardia con un fucile. Il collaborante ha anche specificato le ragioni per le quali non è stato condotto a termine l’omicidio di Pi.Ro., dovuto al fatto che la mitraglietta in dotazione a B.O. si era inceppata essendo stata messa "a sicura" e non "a raffica".

Con riferimento all’omicidio dei fratelli D. il collaborante afferma che aveva partecipato ad entrambi il B. con il ruolo di killer, sparando anche l’ultimo colpo ad D.A. con il fucile a pompa in sua dotazione.

Il collaboratore C.L., ha dichiarato di aver conosciuto B.O. durante la detenzione presso la casa circondariale di Agrigento, negli anni dal 1991 al 1994 e afferma che in quel periodo, "riceveva i saluti" dei fratelli Ca., dichiarando di aver saputo, durante un periodo di codetenzione con gli stessi, negli anni 1998-2001 che il ricorrente era affiliato al clan Cammarata.

Le successive attività investigative confermano indirettamente i rapporti tra l’imputato e Ca.Fr. essendo stati visti insieme più volte,con fare confidenziale avendo ritenuto la Corte, in base agli elementi raccolti (bigliettino con ordini da parte di Ca.Pi.) che entrambi eseguissero gli ordini del fratello latitante.

Le intercettazioni telefoniche confermano anche il ruolo di intraneus all’associazione del ricorrente che commentando il fermo esprimeva viva preoccupazione per il rischio che le forze di polizia potessero "trovare il morto", esprimendo anche preoccupazione, parlando con il Ba., del fatto che R.C. si fosse pentito (pag. 38 sentenza), confidando sempre a Ba., in altra conversazione che "l’unica speranza potrebbe essere quella che muoia il loro accusatore", con riferimento al Ta. (pag. 39), aggiungendo che avrebbero dovuto ritenersi fortunati qualora fossero stati condannati a soli 20 anni.

Inoltre, sempre parlando con il Ba., il B. affermava di aver fatto fare lui "quel buco" a " circa 4 m", chiarendo, successivamente, il Ba., che trattavasi dello scavo che il ricorrente aveva fatto seguire a 4 m di profondità per seppellire il Fa., dichiarando al suo interlocutore di essere diventato "di 1000 colori" allorchè il suo avvocato lo informò delle ricerche della polizia volte a individuare il cadavere del Fa. (pag. 40). Inoltre, in altra conversazione, l’imputato riferisce sempre al Ba. che i fratelli D. erano stati uccisi per il sospetto che avessero preso soldi destinati alla famiglia (pag. 41).

La Corte evidenzia anche la genuinità delle conversazioni intercettate in mancanza di alcun sospetto che possa essere stato indotto a rendere tali dichiarazioni, peraltro accusatorie, anche nei propri confronti. Trattasi di elementi di riscontro, in aggiunta agli altri già evidenziati dalla Corte, non equivoci nè contraddittori ma convergenti e univoci, stante la ritenuta attendibilità del collaborante Ba. che ha ammesso la sua partecipazione a gravi delitti, a cui ha partecipato anche l’imputato, dimostrando una conoscenza diretta degli eventi delittuosi, non suggerita o condizionata da terzi.

Anche il collaborante Ta. ha ammesso la propria partecipazione a gravi episodi delittuosi e, sia pure dopo qualche tentennamento e un andamento travagliato della collaborazione, ha riferito circostanze precise e riscontrate chiamando in causa altri sodali, rispetto ai quali non aveva motivo di astio o rancore.

La Corte evidenzia la convergenza delle dichiarazioni rese dal Ba. e dal Ta. e i riscontri esterni alle dichiarazioni di quest’ultimo vanno individuati nelle attività investigative compiute dagli inquirenti che hanno ritrovato le armi collegate all’omicidio di D.A., al tentato omicidio di Pi.Ro., delitti eseguiti dalla famiglia di Riesi, rendendo possibile anche, con le proprie dichiarazioni il rinvenimento del cadavere di Fa.Mi., sotterrato con tutta l’autovettura ad una profondità di 4 m.

Le divergenze riscontrate sulla dinamica degli omicidi riferiti da entrambi non incide, in base a una coerente valutazione della Corte, sul giudizio di attendibilità dei testi, non costituendo l’accertamento di responsabilità dei singoli correi oggetto di indagine finalizzata invece ad accertare la esistenza del reato associativo.

Gli argomenti proposti dal ricorrente costituiscono, in realtà, solo un diverso modo di valutazione dei fatti, peraltro contraddetto dalle non equivoche emergenze processuali, avendo già la Corte territoriale adeguatamente risposto a tutte le obiezioni formulate nei motivi di ricorso (pag. 55-63), ma il controllo demandato alla Corte di cassazione è solo di legittimità e non può certo estendersi ad una valutazione di merito.

1) Le medesime considerazioni valgono con riferimento al ricorso di S.G..

Sono emersi,con riferimento al reato associativo, elementi certi relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati fine, anche se non oggetto del presente giudizio, effettivamente realizzati che hanno, comunque, influenza nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento dei soggetti nell’organizzazione, specie quando ricorrano elementi dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonchè delle modalità della loro esecuzione (Sez. 5, Sentenza n. 21919 del 04/05/2010 Cc. (dep. 08/06/2010) Rv. 247435).

Il difensore dell’imputato inoltre è stato messo sempre in condizioni di interloquire in riferimento ad ogni accusa a carico della suo assistito, come evidenziato dalla Corte territoriale (pag.

51).

Vanno evidenziate, anche nei confronti del prevenuto, le convergenti e plurimi dichiarazioni rese dal Ba. e dal Ta., da entrambi indicato quale intraneus al clan di Riesi, nonchè le risultanze dei riscontri della Polizia giudiziaria che hanno accertato la vicinanza del predetto al clan dei Cammarata.

La Corte motiva logicamente in ordine al mancato riferimento, da parte dei testi C., A. e R., all’imputato quale affiliato al clan Cammarata, rilevando come tali collaboranti abbiano reso dichiarazioni limitate soltanto a taluni specifici punti richiesti dall’accusa, essendo stato sentito il C. sulla sola posizione del B., il R. in ordine alla sua conoscenza su un contatto avuto con Fa.Mi., poco prima della sua morte, e l’ A. di quanto a sua conoscenza in relazione alla famiglia mafiosa di Riesi, con riferimento all’anno 1991. 2) Riguardo alla censura dedotta sia dallo S. che dal T., relativa alla violazione del diritto di difesa, con riferimento ai reati fine, da cui è stata desunta la partecipazione di entrambi all’associazione criminale, la Corte evidenzia la distinzione ontologica tra il reato associativo e singoli reati fine, con la possibilità di celebrare separati distinti procedimenti a insindacabile giudizio del PM, unico titolare dell’azione penale, escludendo alcuna compromissione dei diritti di difesa degli imputati che hanno avuto la possibilità di difendersi da ogni accusa.

Questa Corte, a Sezioni Unite, ha affermato, con valutazione condivisa dal Collegio, che in tema di associazione per delinquere (nella specie, di stampo mafioso) è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. U, Sentenza n. 10 del 28/03/2001 Ud. (dep. 27/04/2001) Rv. 218376. 3) La responsabilità del T. è stata affermata in base alle convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori Ba. e Ta. che hanno riferito che l’imputato faceva parte della "famiglia" di Riesi, specificando, anche, il Ba. che era addetto alla custodia delle armi dal 2005 in poi, ed avendo entrambi concordemente affermato che proprio nella casa di campagna dello stesso sono stati realizzati di omicidi di Fa. e P., avendo il Ta. anche rivelato che tale abitazione era stata utilizzata per favorire la latitanza dei Cammarata.

Ulteriori elementi di responsabilità sono stati individuati nelle risultanze delle conversazioni telefoniche con particolare riferimento a quelle in data 5/6/2006 tra il B. e il Ba. (nella quale il primo afferma che il prevenuto ha fatto "il passo", nel senso di aderire all’associazione mafiosa, a cinquant’anni) e 14/6/2006 in cui sempre il B. ha fatto riferimento al " P." (inteso quale omicidio P.), esprimendo preoccupazioni per quello che lo stesso T. (detto "(OMISSIS)") aveva già rivelato a Pe. ( Ta.) (pag. 64- 65 sentenza).

La Corte evidenzia anche, con motivazione coerente e logica, la differente interpretazione data dal perito trascrittore della medesima conversazione in data 4/6/2006 (pag. 65-66 sentenza), rilevando come eventuali discrasie potrebbero avere rilievo in ordine all’affermazione di responsabilità dell’imputato nel processo per l’omicidio di Fa.Mi., ma non ai fini del presente giudizio che non attiene all’accertamento di reati fine dell’associazione, evidenziando come, comunque, trattasi di una sola conversazione riferita a un singolo episodio delittuoso che non inficia la validità del compendio probatorio acquisito.

La Corte giustifica anche la utilizzabilità, come base logistica del gruppo criminale, della casa di campagna del T. per commettere gli omicidi di Fa. e P., apparentemente in contrasto con la sola, peraltro, dedotta,circostanza che la medesima abitazione potesse essere stata utilizzata dal nucleo familiare dell’imputato, ritenendo possibile che l’attività delittuosa del clan sia stata realizzata in un momento di temporanea assenza della famiglia da tale abitazione (pag. 68-69), non ritenendo rilevante che l’imputato non sia stato rinviato a giudizio per il tentato omicidio di Pi.

R., non potendosi escludere che il P.M. possa promuovere nei suoi confronti, in un momento successivo, l’azione penale, ove risulti ulteriormente corroborata la chiamate in correità del Ba. da ulteriori riscontri. Le questioni sollevate da parte ricorrente, col primo motivo di ricorso, attengono a profili di fatto che non possono essere valutati da questa Corte di legittimità, il cui esame sul punto deve arrestarsi alla verifica – nel caso di specie largamente positiva – del buon governo da parte dei Giudici del merito della norma incriminatrice. Le stesse questioni trovano, del resto, compiuta risposta nel percorso argomentativo seguito dal giudice di appello, in maniera esplicita o implicita, attesa la loro inconciliabilità logica con la ricostruzione della vicenda prescelta dalla Corte territoriale, risultando inidonee a sovvertire l’ordine logico prescelto e a giustificare una diversa soluzione, più favorevole al ricorrente che, pur avendo formalmente denunciato violazione di legge e vizio della motivazione, ha, nella sostanza, svolto ragioni che costituiscono una critica del logico apprezzamento delle prove fatto dai giudici del merito con la finalità di ottenere una nuova valutazione delle prove stesse; e ciò non è consentito in questa sede.

E’ il caso di precisare che la sentenza impugnata va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, di primo grado, in cui i Giudici di merito hanno spiegato in maniera adeguata e logica le risultanze confluenti nella certezza della responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli. Invero le decisioni di merito, quando utilizzano criteri omogenei e seguono un apparato logico-argomentativo uniforme, si integrano vicendevolmente confluendo in un unico prodotto, essendo anche possibile che la motivazione di seconda istanza attinga per relationem a quella di primo grado, trascurando di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.

Anche se la Corte non si è pronunciata in ordine alla richiesta rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, e sulla rivalutazione della testimonianza del Be., entrambe le richieste devono ritenersi implicitamente rigettate in quanto sia la richiesta di produzione di nuovi documenti che delle prove testimoniali richieste, sia la rivalutazione della testimonianza Be., in relazione agli elementi probatori acquisiti, avendo la Corte territoriale ritenuto non carente il materiale probatorio raccolto e sufficiente per poter decidere. Si deve, d’altronde, rilevare che la difesa del ricorrente non ha fornito a questa Corte di Cassazione alcuna indicazione dei motivi per i quali l’escussione dei testi, a suo giudizio, avrebbe potuto ribaltare o comunque modificare la decisione impugnata; e ciò, naturalmente, soprattutto in relazione a quanto rilevato dalla Corte territoriale e non tenuto in considerazione dal ricorrente.

Sul punto questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio – condiviso dal Collegio – che atteso il carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere detta rinnovazione in tanto può essere censurato in sede di legittimità in quanto risulti dimostrata, indipendentemente dall’esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione impugnata, la oggettiva necessità dell’adempimento in questione e, quindi, l’erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di "decidere allo stato degli atti", come previsto dall’art. 603 c.p.p., comma 1. Ciò significa che deve dimostrarsi l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento o da altri atti specificamente indicati (come previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello. (Si vedano: Sez. 1, Sentenza n. 9151 del 28/06/1999 Ud. – dep. 16/07/1999 – Rv. 213923; Sez. 5, Sentenza n. 12443 del 20/01/2005 Ud. – dep. 04/04/2005 – Rv. 231682).

4) Manifestamente infondate appaiono le censure, comuni a tutti e tre i ricorrenti sul diniego delle attenuanti generiche e sull’entità della pena inflitta, avendo i giudici di merito correttamente valutato i criteri di cui all’art. 133 c.p. (modalità della condotta criminosa, personalità degli imputati, precedenti penali).

Questa suprema Corte ha, d’altronde, più volte affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento. (Si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691). Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte – condivisi dal Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo.

La Corte territoriale, con motivazione coerente e logica, ha escluso le attenuanti generiche non risultando alcun elemento concreto da cui ritenere che gli imputati siano meritevoli di una attenuazione del trattamento sanzionatorio, nei confronti di imputati saldamente inseriti nell’organizzazione.

Con riferimento alla omessa motivazione, nei confronti di S. sulla mancata concessione delle attenuanti generiche va, preliminarmente, osservato che secondo il disposto dell’art. 597 c.p.p., comma 1, l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti). Pertanto il giudice d’appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell’appellante in ordine ai punti (o capi investiti dal gravame, ma non è tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate, come nella fattispecie, in sostegno dell’appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poichè in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993) Rv. 194804) Pertanto l’omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell’art. 606 c.p.p., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza allorchè, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perchè incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione, nonchè con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima.

Nella fattispecie la Corte di merito ha ben evidenziato, nel corpo motivazionale, la gravità dei fatti e il comportamento del prevenuto, circostanze ostative alla concessione delle attenuanti generiche. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278). Conclusivamente vanno rigettati tutti i ricorsi.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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