Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-04-2011, n. 7978 Concordato preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato nel luglio 1998 la Banca popolare di Sondrio soc. coop. a r. l. convenne dinanzi al tribunale di Monza la società Reziafil s.r.l. in liquidazione, ammessa al concordato preventivo, nonchè il liquidatore giudiziale nominato nel concordato, C. E. e il commissario giudiziale R.E. e chiese che fosse accertato il suo credito nella misura di L. 2.536.317.403 e comunque in quella risultante all’atto della domanda di concordato, nella misura intera senza la detrazione di quanto incassato successivamente per effetto del realizzo dei titoli costituiti in pegno da terzi.

La società resistette alla domanda e chiese che il credito fosse accertato in L. 756.043.977; analoga resistenza espresse il liquidatore giudiziale, mentre mancò di costituirsi il commissario giudiziale.

Il giudice istruttore dispose che la banca notificasse la citazione agli eredi di M.G., commissario originario deceduto; ma la notifica rimase senza effetto non essendosi gli eredi costituiti.

Il tribunale di Monza rigettò la domanda nei termini in cui era stata proposta e determinò il credito nella misura indicata dalla società, che aveva proposto una riconvenzionale in tal senso.

La sentenza fu gravata d’appello da parte della banca, la quale chiese che fosse dichiarata la nullità dell’intero giudizio di primo grado, per la mancata contemplazione, anche nel dispositivo, del commissario giudiziale del concordato; nel merito insistette perchè il suo credito fosse determinato nella misura richiesta e in subordine in quella di L. 853.458.227.

La società contestò la impugnazione, mentre restarono contumaci liquidatore e commissario giudiziali. La corte di appello di Milano con sentenza 28 gennaio 2005, ritenuto che la mancata indicazione di R.E., nella intestazione, nella motivazione e nel dispositivo della sentenza non costituisse motivo di nullità, ma mera irregolarità, essendo stato egli tempestivamente citato, dopo che era risultato il decesso del precedente commissario giudiziale, e disposto in conformità, nel senso che il dispositivo fosse integrato, mercè annotazione sull’originale della sentenza di primo grado del nome del R. quale commissario giudiziale, ha rigettato l’appello e condannato la appellante al pagamento delle spese processuali.

Con riferimento alla tesi della appellante, secondo cui il terzo datore di pegno doveva essere parificato al coobbligato solidale, per cui, in applicazione della L. Fall., artt. 61 e 62, il credito concorsuale doveva restare quello originario, in quanto il pegno era stato realizzato in data successiva all’inizio della procedura concorsuale, la Corte di merito ha ritenuto che invece la normativa invocata non fosse applicabile nè in via di interpretazione estensiva nè in via analogica, essa trovando giustificazione nel principio per cui il creditore può agire per l’intero nei confronti di ognuno dei coobbligati solidali, ma solo all’interno della disciplina delle obbligazioni solidali, alla quale non è riconducibile la posizione del terzo datore di pegno, esclusivamente soggetto all’azione satisfattiva del creditore, in caso di inadempimento del debitore garantito.

Ha aggiunto che neanche dall’art. 1203 c.c., n. 3 può desumersi che nella nozione di coobbligato di cui all’art. 61 sia ricompreso il terzo datore e che la surrogazione legale nel diritto di credito a favore di quest’ultimo, una volta che la garanzia sia escussa, esclude il diritto del creditore di insinuarsi nel passivo per l’intero, spettando al terzo di proporre la istanza di ammissione per soddisfare il proprio credito in moneta fallimentare. Quanto alla misura del credito accertata in L. 756.043.977, ha rilevato che la realizzazione dei titoli costituiti in pegno per complessive L. 1.780.273 226 aveva portato a determinare il credito residuo in quella misura ed ha disatteso la censura posta a sostegno della tesi che l’importo preteso fosse già al netto di quanto conseguito con la escussione delle garanzie, atteso che non era stato contestato che alla data di ammissione al concordato preventivo i crediti della banca ammontassero a L. 2.536.317.403 e che i titoli costituiti in pegno fossero stati realizzati successivamente.

Propone ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria, la Banca Popolare di Sondrio; resiste con controricorso la società Reziafil.
Motivi della decisione

1 – Col primo motivo la ricorrente denunzia nullità della sentenza e del procedimento per violazione del principio del contraddittorio, ai sensi degli artt. 101 e 102 c.p.c., in quanto era mancato il contraddittorio con una parte necessaria del processo e cioè con il commissario giudiziale dott. R.E., dal momento che l’atto di citazione era stato proposto nei confronti della società in liquidazione e nei confronti del concordato preventivo, attraverso il liquidatore C.E. e il commissario M.G., mentre il dottor R. non risultava tra i convenuti.

Con il secondo motivo è denunziato il vizio di motivazione, nonchè la violazione della L. Fall., artt. 61, 62, 135, 184, in relazione alla disconosciuta qualità di coobbligato solidale del terzo datore di pegno. Osserva la ricorrente che, pur non essendo qualificabile a stretto rigore come debitore, il terzo datore gode del beneficio della surrogazione legale, che l’art. 1203 c.c., n. 3, riserva esclusivamente al soggetto tenuto con altri e per altri al pagamento del debito e ad un tempo al creditore il beneficio di mantenere integra la propria pretesa, sino al completo soddisfacimento del credito.

A tali prospettazioni lamenta la banca che sia mancata la risposta da parte della sentenza impugnata, che comunque ha indicato ragioni oppositive, negando la applicazione analogica e l’interpretazione estensiva della L. Fall., art. 61, e così ignorando la ratio dell’art. 61, costituita dal favor creditoris.

Con il terzo motivo si torna a censurare la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio motivazionale, in riferimento all’importo di lire 765.043.977; nega la banca l’assunto della corte territoriale che non fosse stato da essa contestato che alla data di ammissione alla procedura di concordato i titoli costituiti in pegno, per complessive L. 1.780.273.226, fossero stati realizzati successivamente e fosse dunque residuato il credito di L. 765.043.977, avendo al contrario dedotto che l’importo comunicato dalla banca al commissario giudiziale il 9 novembre 1992 era già al netto del pegno escusso nei confronti della società Valfin il 4 novembre 1992 di L. 97.259.550, oltre che del pegno escusso nei confronti dell’ing. S.F..

2 – Il primo motivo è infondato.

La corte di merito ha giudicato irrilevante la omissione del nome del commissario giudiziale R.E. nella epigrafe, nella motivazione e nel dispositivo della sentenza di primo grado, esso – e la sua condizione di contumace – risultando dalle conclusioni dell’istituto di credito trascritte nella sentenza e comunque essendo stato correttamente convenuto, in forza di citazione a lui notificata, una volta verificato il decesso del suo predecessore nella carica; e in forza di tale rilievo ha disposto la integrazione del dispositivo con la menzione di quel nome.

Le ragioni esposte meritano di essere condivise, atteso che con la citazione del commissario giudiziale, notificata prima all’originario titolare della carica e poi al suo successore, il contraddittorio si è pienamente realizzato; sicchè non rileva che nell’atto di citazione sia mancata la indicazione del dottor R., essendo sufficiente che ad essere convenuto fosse stato il commissario giudiziale e la notifica dell’atto fosse avvenuta a chi in quel momento svolgeva quella funzione.

Non ha sorte migliore il secondo motivo, articolato sul doppio fronte del vizio di motivazione – insufficiente e contraddittoria – e della violazione delle norme fallimentari, che non è dato riscontrare.

Posto che la doglianza della appellante abbia riguardato il rapporto con la normativa fallimentare dell’art. 1203 c.c., n. 3, relativo alla surrogazione legale del terzo, tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, che la banca medesima riconosce essere attribuita al terzo datore di pegno, benchè "non qualificabile striato iure quale debitore", da un lato appare incongrua alla premessa la conseguenza che se ne è tratta della esistenza, cioè, di un principio di favore, secondo cui "sussistendo patrimoni diversi da quello del debitore su cui poter soddisfare il proprio diritto il creditore concorsuale mantiene integra la sua pretesa sino al completo soddisfacimento del credito" (f. 11 ricorso) – conseguenza che è il frutto di una proposta di lettura delle norme fallimentari, piuttosto che un loro diretto derivato – dall’altro finisce per svuotare di contenuto la portata dell’addebito, nel momento in cui identifica il vizio motivazionale denunciato nella risposta della sentenza impugnata difforme rispetto alle aspettative di parte. E infatti la corte di merito, dopo aver osservato che l’obbligo del terzo datore di pegno si concreta nella soggezione all’azione satisfattiva del bene che costituisce oggetto della garanzia da lui prestata, tant’è che "non sussiste neppure la possibilità di aggressione della massa patrimoniale del terzo, che, secondo lo stesso assunto della appellante costituisce il presupposto del diritto del creditore concorsuale di conseguire il soddisfacimento integrale del proprio credito", ha rilevato che non solo dall’art. 1203 c.c., n. 3 non può desumersi la inclusione del terzo datore nella nozione di coobbligato di cui alla L. Fall., art. 61, ma che anzi nel comma 2 di quest’ultima norma si rinviene l’ostacolo espresso alla proposta interpretativa dell’istituto di credito, laddove non consente il regresso tra i coobbligati falliti, sino a quando il creditore non sia stato soddisfatto per l’intero credito, che invece la norma codicistica consente attraverso la surrogazione al terzo datore di pegno, qualora la garanzia venga escussa, con l’effetto che viene meno il diritto del creditore di insinuarsi per l’intero nel passivo, quel diritto competendo al terzo.

3 – A fronte di tali argomentazioni non è dato identificare il prospettato vizio di motivazione, nè in termini di insufficienza e ancora meno in termini di contraddittorietà, poichè la sentenza impugnata, all’assunte che non è consentito di comprendere nella previsione della L. Fall., art. 61 il terzo datore di pegno, nè in via di interpretazione estensiva nè in via di applicazione analogica, ha fatto seguire la esplicitazione delle ragioni poste a base, tutte coerenti con quell’assunto, per effetto delle differenze degli istituti giuridici utilizzati.

Ma senza pregio è anche la censura incentrata sulla violazione di legge.

Argomenta la ricorrente dall’ipotizzato favor creditoris, individuato nella norma fallimentare dell’art. 61, la esigenza di parità di trattamento tra creditori, la cui pretesa sia assistita da garanzia personale esterna (fideiussione) e soggetti il cui credito sia assistito da garanzia reale costituita dal terzo; ma il rilievo non può essere condiviso.

Va premesso a riguardo che l’art. 61 costituisce la disciplina nelle procedure concorsuali del regresso tra condebitori solidali, che sul piano generale è regolato dall’art. 1299 c.c..

Tale disciplina contempla espressamente non l’intera area dell’art. 1203 c.c. – che il diritto di surrogazione attribuisce "a colui che, essendo tenuto con altri o per altri", abbia pagato – ma il solo coobbligato solidale, cioè chi è tenuto con altri; e su tale premessa è la stessa ricorrente a concordare, salvo poi a ricavare dal sistema un principio generale di favor creditoris, che è negato, nei termini da essa voluti, dal codice civile, prima ancora che dalla legge fallimentare.

La obbligazione solidale passiva suppone un rapporto obbligatorio tra più debitori e un creditore, in cui unica sia la prestazione, sia unitario il fatto costitutivo, quand’anche plurimi siano i rapporti giuridici di credito -debito e plurimi i titoli di responsabilità dei coobbligati, purchè unico resti l’oggetto della prestazione, in forza della quale l’adempimento di uno libera gli altri (Cass. 14 marzo 1996 n. 2120; 21 dicembre 1995 n. 13.022).

La eadem res debita, che costituisce il fondamento della solidarietà passiva e consente la liberazione di tutti, ove l’adempimento avvenga ad opera di uno solo ( art. 1292 c.c.), giustifica la disciplina del regresso contemplata dall’art. 1299 c.c. in forza della quale il debitore in solido può ripetere dagli altri quanto ha pagato ripetizione consentita in misura parziale, non operando la regola della solidarietà nei rapporti interni – solo se ha pagato l’intero debito.

Non è pertanto norma speciale l’art. 61 legge fallimentare rispetto al principio civilistico generale, del quale anzi rappresenta una puntuale applicazione, laddove stabilisce che il creditore di più coobbligati in solido concorre nel fallimento di quelli tra essi che sono falliti per l’intero credito, sino al totale pagamento, e precisa (comma 2) che il regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto per l’intero; norme speculari rispetto a quelle degli artt. 1292 e 1299 c.c., che non trovano le condizioni per essere applicate nella specie.

Va infatti osservato che rispetto all’art. 1299 c.c. la norma fallimentare in esame non costituisce deroga, essendo volta a tutelare il creditore che, facendo leva su una pluralità di obbligati e dunque sul rafforzamento generalizzato della sua garanzia personale, non la vede ridotta nel momento in cui uno di essi ha pagato la quota di sua pertinenza, la quale opera esclusivamente nel rapporto interno, restando immutata nella sua integralità verso tutti, proprio in nome della natura solidale della obbligazione.

Diversa è la fattispecie del terzo datore di garanzia reale, che non assume la contititolarità passiva della obbligazione, ma offre il proprio bene all’azione esecutiva, nel senso che si obbliga con quel bene a soddisfare, nei limiti della sua capienza, il credito garantito.

Sicchè, se per un verso nel caso di coobbligato solidale la ampia estensione della obbligazione, sino a concorrenza dell’intera pretesa, trova un contrappeso nell’assenza di un corrispondente specifico elemento patrimoniale, nel caso di terzo datore di pegno o ipoteca la situazione è interamente rovesciata, con l’effetto che la garanzia del creditore è da un lato rafforzate, in ragione del bene, dall’altro affievolito, in ragione della estensione della garanzia, in difetto appunto della solidarietà. Ne deriva che non trova ragione di essere applicato in via generalizzata il favor creditoris che si è invocato, poichè il terzo datore esaurisce la propria esposizione nel momento in cui sul bene o sul suo controvalore il creditore ottenga il soddisfacimento della pretesa, senza ulteriore titolo a far valere la propria ragione nei suoi confronti, per l’ambito limitato della garanzia reale, rispetto a quello della solidarietà passiva.

4 – Vero è che l’art. 1203 c.c., n. 3 consente la surrogazione nel credito a chi, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento e avendone interesse vi abbia provveduto, ma dalla assimilazione delle due situazioni considerate dalla norma, ai fini della surrogazione, non è dato ricavare l’identità di disciplina del regresso, sia per l’espresso testuale riferimento delle disposizioni codicistiche e fallimentari prima esaminate alle obbligazioni solidali, sia, soprattutto, per la ratio legis che le giustifica – e ad un tempo ne rende impossibile la interpretazione estensiva o la applicazione analogica essa consistendo nella garanzia del creditore, che verrebbe meno se fosse consentito il regresso a chi ha pagato in parte.

Regresso che non trova ostacoli nella fattispecie del terzo datore di garanzia reale, poichè il creditore quella garanzia esaurisce con il soddisfo parziale sul bene e la surrogazione del terzo può essere liberamente esercitata attraverso il regresso verso il debitore, con la conseguente compressione delle ragioni creditorie sulla parte rimasta insoddisfatta.

Invoca la ricorrente, a sostegno della contraria tesi, il precedente di questa Corte (4 giugno 2010 n. 13.620) che è pervenuto a conclusioni diverse, sulla base, tuttavia, di una diversa prospettazione dei termini dibattuti, che non ha riferimento alla questione per cui è causa, essendo stati in quella occasione in discussione gli effetti sull’avvenuta insinuazione di un credito nello stato passivo di un fallimento del realizzo parziale del credito attraverso il pegno; ma il thema decidendi era afferito alla natura del pegno – se regolare o irregolare – e alla anteriorità o meno del soddisfacimento parziale, rispetto alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, mentre era rimasto assolutamente estraneo alla lite il punto ora controverso, se cioè la L. Fall., art. 61 trovi applicazione alla fattispecie del pegno costituito dal terzo e realizzato dopo la ammissione del debitore al concordato preventivo.

5 – Senza fondamento è anche il terzo mezzo.

Alla deduzione della banca appellante di avere comunicato al commissario giudiziale che l’importo di L. 2.536.317.403 era già al netto del pegno escusso – con la vendita dei titoli – qualche giorno prima presso la società Valfin, di L. 97.259.550, la corte territoriale ha osservato che non era stato contestato dall’appellante che alla data di ammissione al concordato il credito fosse di L. 2.536.317.403 e che i titoli costituiti in garanzia fossero stati realizzati successivamente; sicchè con l’assunto di avere "rilevato che l’importo comunicato dalla banca al commissario giudiziale in data 4 novembre 1992 era già al netto del pegno escusso il 4 novembre 1992, ossia appena qualche giorno prima dal terzo datore soc. Valfin", la ricorrente si limita a prospettare una contrapposizione di elementi fattuali alla ricostruzione che ne ha compiuto la sentenza impugnata, senza riportare il testo integrale della comunicazione e indicare l’atto difensivo in cui fu esposta, in nome della esigenza di autosufficienza, utile anche a verificare se l’errore addebitato al giudice del merito avesse costituito o meno vizio revocatorio, insuscettibile, in quanto tale, di essere denunziato con il ricorso per cassazione.

Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in Euro 10.200,00, di cui 200,00 per esborsi e 10.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in Euro 10.200,00, di cui 200,00 per esborsi e 10.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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