Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 26-01-2011) 23-02-2011, n. 6921 Prova penale Sentenza penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

vi assistiti.
Svolgimento del processo

Con sentenza in data 25 maggio 2010, la Corte d’ Appello di Torino, 3^ sezione penale, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Novara appellata da B.A., C. I. e C.P., riconosciute alla B. le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulle aggravanti, riduceva la pena nei confronti di costei due anni quattro mesi di reclusione e seicento Euro di multa e nei confronti degli altri due imputati a quattro anni di reclusione e mille Euro di multa ciascuno;

eliminava per la B. le pene accessorie dell’interdizione legale e di quella perpetua dai pubblici uffici e per C.I. quella dell’interdizione legale con sostituzione della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea per la durata di cinque anni; confermava nel resto la sentenza impugnata con la quale questi erano stati dichiarati colpevole di concorso, assieme a G. M. (giudicato separatamente), di rapina aggravata ai danni di T.H., T.F. e Cu.Pa. commessa mentre questi si trovavano nello studio legale (clienti i primi due e collega il terzo) della B. e con la quale era stata applicata a quest’ ultima l’interdizione dall’esercizio della professione di avvocato per la durata della pena principale.

La Corte territoriale riteneva fondata la prova della responsabilità sulla scorta delle confessioni di C.P. e G. M., i quali riferivano di essere stati gli esecutori materiali del delitto ideato dalla B. in collaborazione con C. I., il quale a sua volta ammetteva, sia pure parzialmente gli addebiti ed invocava la desistenza volontaria. Ulteriori elementi di riscontro erano tratti dalle ammissioni della B. in ordine al suo rapporto sentimentale con I. e alla conoscenza con il fratello di questi C.P. nonchè dal contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, dimostrative dell’interesse della donna al ricavato della vendita degli oggetti preziosi nonchè dalla considerazione di ordine logico che solo lei poteva essere a conoscenza dell’appuntamento con i T. e della loro disponibilità di oggetti preziosi di notevole valore.

Contro tale decisione hanno proposto tempestivi ricorsi gli imputati, che ne hanno chiesto l’annullamento per i seguenti motivi: 1) B. A., a mezzo dell’avv. Alessandro Cardinali: violazione dell’art. 546 c.p.p., comma 1 e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per omessa motivazione in ordine alle censure mosse con l’appello in relazione all’inesistenza di elementi di prova posti a fondamento della decisione della sentenza di primo grado (conversazione telefonica con la quale la ricorrente aveva chiesto la sua parte a C.P. e rinvenimento di parte della refurtiva presso la di lei abitazione); – per avere la sentenza impugnata sorvolato sugli argomenti posti con l’appello in ordine alla non compatibilità della rapina con l’organizzazione della stessa da parte della B. perchè le modalità seguite si risolverebbero in un vero e proprio suicidio dell’organizzatore; – perchè, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, la chiamata in correità dei coimputati è poco credibile, perchè resa con dichiarazioni spontanee dopo che le indagini espletate avevano reso evidenti le responsabilità dei dichiaranti che quindi avevano interesse a coinvolgere la B. per attribuirle la responsabilità dell’organizzazione e perchè da tale delitto ella non ha tratto alcun profitto ed anzi ne è stata vittima (come risulta dal recupero presso il ricettatore delle cose che le erano state sottratte) ed inoltre perchè le dichiarazioni non sono concordanti e fanno riferimento ad un tentativo posto in essere in primavera, smentito dal Sig. T. il quale afferma di esser venuto in Italia a gennaio e anche dal coimputato G. che nulla sa del tentativo primaverile. La telefonata tra G. e C.P. del 1.10.08 ore 13.15 con la quale quest’ ultimo informa l’interlocutore di aver ricevuto la visita di I. e della B. che rivendicavano la loro parte di bottino è smentita dai tabulati oltre che dai contenuti delle conversazioni. L’assunto contenuto in sentenza secondo cui la richiesta dei rapinatori di voler conferire con l’avv. B. non avrebbe conferma probatoria è smentito dalle dichiarazioni del Sig. T.. Illogicamente si pretende di trarre argomenti a carico dalla sottrazione dei monili proprietà dell’imputata per effetto del travisamento delle dichiarazioni di C.P.. La telefonata dell’1.10.08 (allorchè la B. insiste per avere almeno "un centone" conversazione del 6.10.08) e la successiva in cui accusa I. di aver fatto "un affare di merda" perchè avrebbe potuto pretendere il doppio non vale a provare che la B. abbia ideato la rapina dalla quale (unico dato sicuro) non ha tratto alcun vantaggio. In maniera contraddittoria si attribuisce valore probatorio alla telefonata delle 17.44 del 22.9.08, perchè a quell’ora i T. non erano ancora arrivati e la B. non avrebbe potuto quindi dare conferma della loro presenza e a maggior ragione della disponibilità dei gioielli. La valutazione come prova delle dichiarazioni di C.P. avrebbe dovuto comportare il confronto tra il contenuto della telefonata n. 54 dell’1.10.08 con quella in pari data tra I. e la B. perchè dimostrative della capacità di mentire di P., così come, per G., il suo racconto sull’affermato incontro la sera precedente la rapina a casa dell’imputata. La Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che alla confessione non ha fatto seguito la restituzione della somma ricavata dalla vendita dei gioielli; che dalla lettura delle dichiarazioni di C.I. emerge l’ipocrisia di un soggetto che ha sfruttato il sentimento che la B. nutriva per lui, sentimento che è alla base della scelta di non presentare denuncia, subito dopo il fatto, nei confronti di C.P. (del quale aveva anche timore); – violazione dell’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), artt. 133 e 69 c.p. in relazione all’606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione al giudizio di sola equivalenza delle riconosciute attenuanti generiche, tenuto conto che in sede di appello l’imputata ha dato prova della presa di coscienza del disvalore dei propri comportamenti, che certo non poteva giungere al riconoscimento di responsabilità non proprie;

2) C.P.: – perchè il dispositivo non è stato letto in udienza ma pubblicato sette giorni dopo mediante deposito in cancelleria e perchè si era dichiarato disponibile ad un giusto procedimento e collaborativi;

3) C.I.: – inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, mancato riconoscimento della desistenza, erronea qualificazione giuridica del fatto perchè la sua assenza al momento dell’esecuzione, l’estraneità alla fase organizzativa, la pretesa del fratello P. di escluderlo dalla spartizione del ricavato in ragione dell’inesistenza di un suo contributo evidenziano che il suo intervento si è limitato alla vendita dei gioielli in momento successivo alla consumazione della rapina. L’avere materialmente accompagnato in macchina il fratello e G. non ha rilievo, essendosi accertato che egli non rimase ad attenderli, elemento atto a dimostrare quantomeno la desistenza dall’azione illecita, in conformità a quanto da subito affermato, cioè di essere a conoscenza della progettata rapina ma di non condividere tale iniziativa, versione pienamente concordante con quella del fratello P. e di G. sì da evidenziare la mancanza del suo concorso; – mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla determinazione della pena, in ragione del ruolo marginale svolto e della sua quantificazione in misura sproporzionata rispetto a quella determinata per la B. nonostante il ruolo di ideatore e organizzatore di costei e il diverso comportamento processuale (pienamente collaborativo) tanto da consentire il recupero, ancorchè parziale, della refurtiva.
Motivi della decisione

1. Ricorso nell’interesse di B.A..

1.1. Il primo motivo di ricorso:

1.1.1 E’ infondato, per la parte in cui denuncia travisamento della prova da parte del primo giudice, perchè la sentenza di appello non fonda il suo ragionamento giustificativo della decisione adottata sui citati (ed indicati come inesistenti nell’atto di appello) elementi di prova, sicchè deve logicamente dedursene che, per implicito, ha ritenuto fondata la doglianza e quindi non ha omesso di motivare sul punto;

1.1.2. è ancora infondato per la parte in cui denuncia manifesta illogicità della motivazione per avere affermato che C. I. e B.A. si erano interessati della vendita a terzi degli oggetti sottratti nel corso della rapina, allo stesso modo di C.P. e G.M., al rilievo che tale parte della sentenza si limita a riportare per sintesi le motivazione della sentenza di primo grado, che non sono fatte proprie dalla Corte di appello, la quale articola il proprio convincimento con autonome considerazioni che non tengono conto di tale (inesistente) interessamento, volto che ha dato rilievo al palesato disappunto da parte della B. per la modestia della somma ricavata da C.I.;

1.1.3. ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per la doglianza che attiene alla parte descrittiva della motivazione. La circostanza di non aver riportato in dettaglio gli argomenti spesi nell’atto di appello a dimostrazione dell’incompatibilità dell’attribuito ruolo di organizzatrice con le concrete modalità esecutive è funzionale all’esigenza di sintesi imposto dalla legge ( art. 546 c.p.p., comma 1 lett. e) che prevede la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata). Quel che rileva è che la doglianza è stata oggetto di esame (v. pag. 11). In ordine ad essa la Corte ha espresso ragionata valutazione avendo giudicato come indimostrato l’assunto difensivo secondo il quale l’imputata non avrebbe aderito alla rapina ove non fosse stata perfettamente organizzata, anche per la sommarietà del materiale probatorio, per effetto della scelta del rito abbreviato. L’assunto, svolto nel motivo di appello, secondo il quale "non è pensabile che l’organizzatore agisca stupidamente" è affermazione difensiva sfornita di qualsiasi verifica, ancorchè di natura empirica;

1.1.4. l’ulteriore motivo di ricorso che critica la sentenza impugnata per aver ritenuto attendibili e riscontrate le dichiarazioni auto ed etero-accusatorie di C.P. e G.M. è svolto in maniera inammissibile mediante il riferimento al contenuto degli atti (peraltro genericamente indicati, in violazione di quanto stabilito dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, che impone la specificità) a suffragio dell’indimostrato assunto di contrasto tra le dichiarazioni dei coimputati e quelle del T., posto che dalla sentenza impugnata (ancorchè risulti che C.P. abbia fatto riferimento ad una ideazione risalente alla primavera del 2008, non attuata perchè non si sentiva pronto) non risulta che T. abbia affermato di esser stato in Italia a gennaio e non in primavera del 2008 nè la ricorrente (ancora in violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) indica l’atto dal quale tale circostanza risulti.

Vero è che, come rilevato dal ricorrente e per come risulta dalla sentenza impugnata, il coimputato G. nelle sue dichiarazioni non ha fatto alcun riferimento all’ideazione risalente, secondo C.P., alla primavera precedente. La sentenza impugnata non trascura tale dato. Lo affronta e lo risolve al rilievo che la circostanza era stata confermata anche da C.I., ma non smentita da G. il quale non ne aveva parlato ma che in relazione a tale particolare non si era visto rivolgere domande.

Tale motivazione è stata oggetto di censura da parte della ricorrente che sollecita una corretta interpretazione di quanto riferito dal G. e quindi un giudizio di merito come tale non consentito in questa sede, volto che non può ritenersi manifestamente illogica quella operata dalla Corte territoriale.

L’ulteriore assunto secondo il quale la versione di I. contrasterebbe con quella del fratello, perchè nell’ideazione primaverile la rapina "doveva avvenire all’uscita di una pizzeria" e non nello studio della B. non trova alcun riscontro nella sentenza impugnata e non vi è indicazione specifica dell’atto dal quale essa risulterebbe.

Le doglianze difensive proseguono con l’individuazione di elementi di natura fattuale e considerazioni che sconfinano nel merito (considerazioni sulla affermata inverosimiglianza di quanto affermato da P. in occasione della telefonata con G. per che asseritamene in contrasto con la telefonata in pari data tra I. e la ricorrente) che non trovano riscontro nella sentenza e che avrebbero dovuto essere oggetto di doglianza nella sede propria e non nel giudizio di legittimità.

Quanto alle modalità di ingresso dei rapinatori e delle parole da costoro pronunciate nella circostanza, al contenuto e al rilievo della telefonata delle ore 17.44, al significato da attribuire alla sottrazione dei monili anche in danno della B., alle telefonate di costei con le quali chiede "un centone" e successivamente rimprovera I. con lo scarso ricavato dalla vendita dei gioielli, al mancato conseguimento di utile per non essere stata la B. destinataria di parte del ricavato dalla vendita, la sentenza impugnata ha formulato considerazioni e valutazione non manifestamente illogiche e quindi la pretesa di ottenerne un’ alternativa lettura in questa sede non può trovare accoglimento.

L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostenere il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.

Esula infatti dai poteri della Corte di cassazione quello della "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice del merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30.4/2.7.97 n. 6402, ric. Dessimone e altri; Cass. S.U. 24.9-10.12.2003 n. 47289, ric. Petrella).

Alle stesse conclusioni deve pervenirsi per la parte delle doglianze che definiscono ipocrita C.I. per le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio di garanzia, perchè di tali dichiarazioni in questa sede non può esservi considerazione per le ragioni sopra espresse, cosi come per rivalutare le ragioni che avrebbero spinto la B. a non denunciare nell’immediato C.P., nonostante l’immediato riconoscimento.

1.2. Il secondo motivo di ricorso, che attiene alla quantificazione della pena, sottopone ancora considerazioni che attengono al merito e quindi non possono avere accesso in sede di legittimità. 1.3. Il ricorso deve in conseguenza essere rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

2. Ricorso di C.P..

2.1. Il primo motivo è manifestamente infondato, perchè il procedimento di appello si è celebrato in camera di consiglio, a norma dell’art. 599 c.p.p., in quanto proveniente da giudizio abbreviato.

2.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per genericità perchè il riferimento al comportamento collaborativo serbato è indicato, ma non spiega quale rilievo esso assume in relazione alla richiesta di annullamento.

3. Ricorso nell’interesse di C.I..

3.1. Il primo motivo di ricorso è dedotto in maniera inammissibile per le parti in cui, anzichè formulare critiche alla sentenza impugnata, si preoccupa di fornire una minuziosa ed alternativa ricostruzione fattuale della vicenda attraverso il riferimento ai risultati probatori e al contenuto degli atti del processo (peraltro genericamente indicati), finalizzato a dare dimostrazione dell’infondatezza dell’ipotizzato (e ritenuto) ruolo di ideatore della rapina, ruolo che si afferma essere stato ricoperto dalla sola B.. Va invero ribadito che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostenere il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.

Esula infatti dai poteri della Corte di cassazione quello della "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice del merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30.4/2.7.97 n. 6402, ric. Dessimone e altri; Cass. S.U. 24.9-10.12.2003 n. 47289, ric. Petrella).

Quanto all’ipotizzata desistenza volontaria, il Collegio condivide i canoni ermeneutica secondo i quali in ipotesi di concorso di persone nel reato, l’interruzione dell’azione criminosa da parte di uno dei compartecipi non è sufficiente a integrare la desistenza, ma è necessario un "quid pluris" che consiste nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, e nell’eliminazione delle conseguenze che fino a quel momento si sono prodotte (Cass. Sez. 1, 1.2-4.3.2008 n. 9775); in tema di tentativo, il concorrente nel reato plurisoggettivo che intenda beneficiare della scriminante di cui all’art. 56 c.p., comma 3, deve attivarsi al fine di evitare la realizzazione concorsuale della condotta criminosa o, quanto meno, eliminare le conseguenze del suo apporto causale, rendendolo estraneo ed irrilevante rispetto al reato commesso dagli altri (Cass. Sez. 6, 20.5-4.7.2008 n. 27323).

La sentenza impugnata ha giustificato il convincimento di insussistenza dell’invocata scriminante, in ragione del contributo prestato nella fase di ideazione e organizzazione (per avere messo in contatto la B. con il fratello P. e G.M.) nonchè in quello di esecuzione (per avere accompagnato gli esecutori materiali in prossimità dello studio professionale). Ha escluso che l’allontanamento, senza attendere i concorrenti per riprenderli a bordo del veicolo, potesse costituire desistenza volontaria in ragione della condotta serbata successivamente, allorchè si attivò per vendere i gioielli compendio della rapina e per ottenere dal fratello la quota che riteneva di spettanza sua e della B..

3.2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

La sentenza impugnata ha infatti dato giustificazione dei criteri adottati ai fini della quantificazione della pena che, per il ricorrente, si sono fondati sulla negativa valutazione della personalità, per i precedenti specifici tanto da fondare la contestazione della recidiva reiterata e da impedire la prevalenza delle riconosciute attenuanti generiche.

Il ricorrente propone la critica ponendo a confronto la posizione della B., ma, a prescindere che l’eventuale trattamento eccessivamente mite della posizione della concorrente non può essere motivo di doglianza, la sentenza impugnata lo ha giustificato in ragione della incensuratezza della donna, sì da individuare un criterio giustificativo non manifestamente illogico.

La Corte ha anche tenuto conto del minor rilievo del contributo prestato (inferiore di quello del fratello P.) e tuttavia non ha trascurato di evidenziare il diverso comportamento processuale dei due.

3.3. Il ricorso deve in conseguenza esser rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di C.P.; rigetta i ricorsi di B.A. e C.I.; condanna tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e C.P. anche al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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