Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 12-01-2011) 23-02-2011, n. 7067

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I ricorsi si appuntano avverso la sentenza di secondo grado che ha dichiarato prescritto il reato di falsa perizia ( art. 373 c.p.p.) ascritto a A. e S.C., esperti nominati dal Tribunale di Ivrea nella valutazione del ramo aziendale (il settore dedicato alla fabbricazione per conto del gruppo OLIVETTI, di personal computer, cespite che OP. Computers Spa. aveva acquistato presso OP.C. Spa., ed ha condannato, quale concorrente (destinatario di istigazione) nel reato di bancarotta fraudolenta impropria l’amministratore unico della citata OP COMPURERS (OP.Co) Spa.

(dichiarata fallita in (OMISSIS)). La condotta censurata è stata ravvisata nel pagamento della somma di L. 34 miliardi, prezzo effettivamente versato nella casse della venditrice, quando il bene negoziato non disponeva di alcuna valenza effettiva (anzi, doveva stimarsi in termini negativi).

Dal reato fallimentare la Corte d’Appello ha assolto tutti gli altri esponenti della fallita OP.Co. Spa. (i Sindaci B., F., ST.), nonchè i S., con la formula che il fatto non costituisce reato, avendoli ritenuto carente la prova sulla loro consapevolezza del comportamento fraudolento.

I ricorrenti erano stati tratti a giudizio avanti il GIP di Ivrea ed erano ivi stati assolti, in data 16.9.2005, con formula piena (il fatto non sussiste), al termine di giudizio abbreviato. La decisione venne appellata dalle parti civili (impugnazione che annoverava anche doglianza avverso la scelta del giudice di non acquisire documentazione a suo tempo esibita al processo) e dal Procuratore Generale (il cui ricorso fu convertito ex art. 580 c.p.p., in appello).

La Corte subalpina, decideva in data 11.2.2008, di procedere alla rinnovazione istruttoria ed ammetteva l’acquisizione della documentazione richiesta dalle parte civili, quindi, disponeva l’audizione in contraddittorio con quelli del PG., dei CT. delle parti private. p.2) La vicenda e le imputazioni.

Stando alle indicazioni rese dall’impugnata sentenza può così riassumersi la vicenda sottesa all’attuale ricorso.

Si contemplano gli ultimi atti di quella che era stata azienda leader del settore informatico, POLIVETTI Spa., da tempo in grave crisi economica a far data dai primi anni 90 (Sent. pag. 11). Essa decise di cedere settori ritenuti non più strategici. A tale scopo scorporò dalla capo-gruppo le attività operative nell’hardware, dismettendo la controllata OLIVETTI PERSONAL COMPUTERS Spa.

(abbreviato, O.P.C., che riguardava appunto la produzione di "personal computers" che, anni addietro, aveva ricevuto la relativa azienda, previo scorporo, dalla capo-gruppo OLIVETTI). Nel corso dell’anno 1995 O.P.C, dismise il relativo ramo di azienda, previa stima dello stesso, ai sensi dell’art. 2343 bis cod. civ.. Alla valutazione provvidero i commercialisti S., attuali ricorrenti, nominati dal Tribunale di Ivrea, ma previa indicazione del gruppo interessato (cfr. Sent. pag. 13). Costoro già avevano redatto la perizia estimativa al momento del passaggio da OLIVETTI ad OPC. La relazione venne asseverata il 27.3.1997.

L’elaborato denunciava un attivo di L. 34.576.279.189 (di cui ben L. 23.825.000.000 quale valore di avviamento), prezzo (arrotondato a L. 34. Miliardi), a cui OP.CO. acquistò da OPC. l’azienda in discorso.

La pronuncia oggetto di impugnazione menziona l’avvio di trattative con imprese americane (il gruppo CENTENARY PIEDMONT) per l’acquisto del ramo aziendale. Contestualmente fu costituito un nuovo organismo – OP.Co. Spa. – destinato ad acquisire il ramo aziendale di cui O.P.C., assunse il controllo totalitario.

Per concludere l’operazione, OP.Co. deliberò aumento di capitale da L. 200 milioni a 34 Miliardi, importo (L. 33.500.000.000), somma effettivamente bonificata alle casse della controllante OPC. (la quale sottoscrisse l’aumento del capitale della controllata), contestualmente al pagamento del prezzo del bene, che così fu possibile cedere ad OP.C. La provvista di tale importo provenne da altra società del gruppo – OLIVETTI SOLUTION – la quale (per disposizione della capo-gruppo OLIVETTI Spa) si impegnò a versare ad OP.Co ulteriore somma di L. 40 miliardi, quale prezzo di forniture che OP.Co avrebbe venduto ed a concedere prestito di pari importo da utilizzare per il pagamento dei fornitori.

OP.Co Spa., fu amministrata dall’attuale ricorrente A. C.. La sua vita fu assai breve, avendo evidenziato costanti perdite (ma per espressa segnalazione della medesima società interessata, ai commercialisti S..

Per chiarezza e sintesi: si può affermarsi che OPC. vendette l’azienda a OP.CO., che la pagò per L. 34 miliardi, mediante denaro corrisposto dal comune gruppo di appartenenza. All’atto dell’acquisto OP.Co. risultò priva di immobilizzi, ma dispose di un capitale (liquido) incrementato a L. 34 Miliardi. Tuttavia questa rilevante liquidità fu interamente impiegata, come da previa intesa, per il versamento a OPC. del prezzo del ramo aziendale. O.P.C., quindi, si vide restituire l’investimento effettuato, mentre OP.CO. si trovò priva di liquidità e di sostanza patrimoniale.

La debolezza estrema di OP.Co fu l’immediata cagione del dissesto, nel contesto della perdurante crisi del settore (tant’è che, dopo un inane tentativo di sopravvivenza gestito mediante la procedura di amministrazione controllata, i Commissari della stessa OP.Co ne richiesero il fallimento).

L’azione penale si sviluppò sia nella contestazione del delitto di cui all’art. 373 c.p. (falsa perizia), attesa la valutazione considerata grandemente discosta (in eccesso) dal vero. Questo addebito coinvolse i S. e l’ A., reato che è stato ritenuto (in guisa quasi automatica) premessa logica all’addebito di fraudolenza, donde l’imputazione del delitto di bancarotta fraudolenta impropria per distrazione, focalizzandosi l’accusa nella sproporzione della somma di denaro impiegata per l’acquisto del ramo aziendale, prezzo che – come si è detto – era stato così definito dall’accertamento peritale dei due S.. p.3) I ricorsi.

I ricorsi avverso la Sentenza dei giudici d’appello si articolano sui seguenti motivi:

Ricorso A..

– mancanza di motivazione sia sulla ricorrenza oggettiva del delitto di bancarotta fraudolenta sia sulla presenza del necessario elemento soggettivo in capo al prevenuto; nonchè mancato esame di elementi di fatto essenziali per valutare la ricorrenza del delitto di bancarotta, poichè nel caso in esame non si determinò diminuzione del patrimonio della fallita OP.Co, avendo ricevuto l’apporto di un netto positivo; mancanza del dolo di bancarotta nel contesto di un’operazione meticolosamente da altri studiata e di cui il ricorrente fu soltanto esecutore;

– illogicità della motivazione in relazione all’addebito di falsa perizia ed erronea applicazione della legge penale, attesa la lettura distorta dell’art. 2423 bis cod. civ.;

– inosservanza della legge processuale nell’accoglimento della memoria del PG trascurando che essa rappresenta ulteriore consulenza tecnica e che la nomina dei consulenti può intervenire nella fase del giudizio in cui la perizia viene disposta.

Ricorso S.:

– carenza ed illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 373 c.p. e art. 2343 bis cod. civ.;

– inosservanza della legge processuale in relazione all’art. 129 c.p.p.;

– inosservanza della legge processuale in relazione in relazione alla mancata acquisizione di documentazione ed al rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale;

– illogicità della motivazione quanto all’elemento oggettivo del reato di falsa perizia;

– erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 373 c.p. e art. 2343 bis cod. civ.;

– inosservanza della legge processuale per avere prosciolto gli imputati per la prescrizione e non già con formula di merito;

Per l’odierna udienza la difesa di A. faceva pervenire distesa memoria difensiva a sostegno dell’impugnazione. p.4a) In diritto.

I ricorsi sono fondati, poichè il Collegio ritiene inadeguata la motivazione resa dalla Corte d’Appello ed annulla con rinvio, per nuovo esame, la sentenza impugnata in relazione alle due imputazioni ascritte, escludendo interesse alle ulteriori censure in diritto.

Infondato, invero, è il motivo circa l’irritualità della memoria depositata dal PG. nel corso del dibattimento di appello, poichè le parti conservano sempre il diritto alla prova ( art. 190 c.p.p.) e nessun termine, dopo la cesura disposta dall’art. 407 c.p.p., preclude la possibilità di introdurre nel processo le risultanze di nuovi accertamenti svolti sia direttamente sia a mezzo di consulenti tecnici. Tanto è anche dato desumere dal testo dell’art. 230 c.p.p. che non pone termine all’espletamento di questa attività, anche successivamente al conferimento dell’incarico peritale: la convinzione che il relativo esercizio debba ritenersi confinato nella fase del giudizio nel quale la perizia viene disposta non è sorretta da alcun dato normativo.

Così come il principio può ricavarsi anche dall’art. 121 c.p.p., che fornisce rilievo (vincolando il giudice alla risposta) alle memorie della parte, senza limitazione di fase giudiziale ("In ogni stato e grado del procedimento"). E deve sottolinearsi, come ritenuto da questa Corte, che rientrano, tra le memorie scritte che le parti e i difensori possono presentare al giudice in ogni stato e grado del procedimento, i pareri di carattere professionale in ordine ai fatti di causa, quand’anche non provenienti dal difensore nominato (cfr.

Cass. pen., sez. 6^, 23 settembre 2008, Rossini, Ced Cass., rv.

242522). Il contenuto dell’apporto fornito dall’atto non consente di modificarne la fisionomia processuale.

Con specifico riferimento, all’impugnazione dei S., non può configurarsi alcun potere di iniziativa delle parti in ordine all’assunzione delle prove – condizione essenziale per la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale – in quanto, prestando il consenso all’adozione del rito abbreviato, esse hanno definitivamente rinunciato al diritto alla prova (cfr. Cass. Sez. Un., 13 dicembre 1995, Clarke, CED. Cass. 203427). L’acquisizione della memoria del PG. non rappresenta l’introduzione di nuove prove, come sarebbe il compendio di nuova documentazione, bensì il commento ad arresti dimostrativi già versati al processo, onde la eccezione non può trovare accoglimento.

Mentre coglie nel segno, come si è detto, la censura afferente all’apparato motivazionale del provvedimento.

Infatti, la decisione si diparte da premesse non giuridicamente corrette, circostanza che inficia profondamente la congruenza dell’argomentazione giustificativa.

Innanzitutto essa – dissentendo dagli esiti valutativi della Perizia G. – ha concluso per la sua falsità ed ha soggiunto, con il richiamo alla decisione del giudice di legittimità (Cass. Sez. 2, 19 febbraio 2008 Palladini, CED Cass. 239552), rilevando che, a fronte di una accertata causa estintiva, la formula liberatoria nel merito presuppone una prova "assolutamente incontestabile" di innocenza, espressamente argomentando dall’art. 129 c.p.p., comma 2 (Sent. pag.

22: nb., la numerazione delle pagine – mancando nell’originale – è stata effettuata dallo scrivente relatore).

Ma, nel caso in esame, siffatta indicazione risulta inappropriata alla luce della (successiva) pronuncia di Cass., Sez. Unite, del 28 maggio 2009, Tettamanti, CED Cass. 244274, arresto che ha negato la vigenza di quel principio, richiamato dalla Corte subalpina, nel caso in cui, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., il giudice di appello – intervenuta una causa estintiva del reato – sia chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile; ovvero nel caso in cui a una sentenza di assoluzione in primo grado resa ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, appellata dal p.m., sopravvenga una causa estintiva del reato e il giudice di appello ritenga infondato nel merito l’appello del pubblico ministero.

La fattispecie processuale in esame palesa, per l’appunto il quadro sotteso dalla sentenza delle Sezioni Unite da ultimo richiamata, poichè la pronuncia impugnata segue ad un’assoluzione nel merito (scaturita dal giudizio abbreviato celebrato in primo grado) ed è stata promossa da parti civili, destinatane di una istanza risarcitoria. Donde la necessità di un completo ed esauriente riscontro del reato, sulla base degli elementi probatori acquisiti.

Questa disamina (coerentemente con l’errata premessa) non è stata svolta dai giudici di appello, poichè la motivazione, sotto questo profilo, palesa appagante giustificazione argomentativa in merito all’addebito di falsa perizia, sia quanto al piano oggettivo, sia – soprattutto – in ragione della consapevolezza della infedeltà dell’elaborato. p.4 b) In secondo luogo, non deve sfuggire che – nel contesto degli accertamenti valutativi (e tanto vale indiscriminatamente per ogni operazione di stima o considerazione di una realtà che non si presenta immediatamente oggettivata) – la dimostrazione della falsità dell’indagine richiede un procedimento logico assai delicato come dimostra l’evidente cautela giurisprudenziale al riguardo e l’opinione di autorevole dottrina, che ha persino negato la proponibilità in questi casi del paradigma del falso, laddove non si controverta di dati assolutamente obiettivi.

A riguardo della presente fattispecie la concorde dottrina ravvisa l’integrazione del reato nel contrasto tra l’intimo convincimento del perito e quanto manifestato, divergenza che costituisce il punctum dolens in sede di accertamento, ciò che spiega come in pratica il mendacio assai difficilmente possa essere appurato.

Del resto, tanto è anche dimostrato dall’incertezza del medesimo legislatore che, novellando la fattispecie di false comunicazioni sociali, ha dovuto precisare che l’oggetto del reato è rappresentato da "fatti materiali non rispedenti al vero, ancorchè oggetto di valutazione".

Sicchè si è ritenuto che il referente a cui riguardare sia il cd.

"vero legale", quella soglia di apprezzamento che risulti indicata espressamente dal legislatore ovvero quando sia possibile affermare che la valutazione contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondata su premesse contenenti false attestazioni (cfr. tra le altre Cass. pen., sez. 5^, 24 gennaio 2007, Marigliano, Ced Cass., rv. 236550, a proposito di fattispecie di falso ideologico).

Orbene, esclusa l’ipotesi di prospettazione mendace circa le premesse poste a base dello sviluppo valutativo (ipotesi che non è stata affacciata), nel caso qui esaminato non sembra che la scienza dell’estimo abbia raggiunto certezze fatte proprie dal legislatore o parametri tecnicamente indiscussi (salvo un generale richiamo normativo alla prudenza).

La circostanza che, proprio in seno a questa vicenda processuale, siano stati avanzati difformi pareri (provenienti anche da insigni studiosi, i sospetti al riguardo affacciati a pag. 10, scontrano con la successiva pronuncia giudiziale liberatoria) nonchè l’adesione del primo giudice ad una stima diversa da quella infine accolta dalla Corte subalpina, sono elementi atti a dimostrare che il risultato della stima debba considerarsi obiettivamente controvertibile e difficilmente rapportabile alla certezza dello schema dettato dall’art. 373 c.p., salva una giustificazione attenta a raccordare a delicatezza del quesito offerto al perito e la certa infedeltà del risultato da questi reso, argomentazione carente nella pronuncia oggetto di ricorso.

Osservazioni che assumono maggiore interesse ove si rifletta che questa stima si allaccia alla valutazione resa qualche anno prima (1996) in occasione del conferimento di quello stesso ramo aziendale da OLIVETTI Spa. a OPC. e che, in quella occasione, i periti avevano proceduto ad un pesante abbattimento della valenza attiva e dall’inserimento di poste rettificative passive, mostrando autonomia dai dati pervenuti loro dalla holding (Sent. pag. 17).

Indubbiamente la tecnica utilizzata si mostrò fallace e degna di una bocciatura scientifica, come annota la decisione riprendendo le considerazioni del G. (pag. 18), ma l’assunto non rileva ancora per il giudice penale, concretandola mera prova di un giudizio sbagliato, non falso. Inoltre, come osservato dal primo giudice vi era stata la certificazione del bilancio consolidato 1996, premessa che conferiva maggiore tranquillità di stima.

Rilievi che – per un’analisi utile ai presenti fini – deve riportarsi al momento della valutazione e che secondo il parere del citato perito l’errore dei S. era consistito nel superficiale giudizio sull’affidabilità dell’acquirente nei cui confronti i S. "non avevano avuto la perspicacia di cogliere i segni premonitori negativi" (Sent. pag. 19).

Quest’ultimo asserto è stato negato in radice dai giudici di appello, ritenendo che la valutazione delle condizioni dell’acquirente fosse "totalmente estranea all’ambito ed alle finalità della perizia", ma – a questo assunto così reciso – non ha fatto seguire alcuna nota giustificativa, se non la funzione svolta nell’ordinamento dall’art. 2343 bis cod. civ. a cui i periti si sarebbero sottratti.

Ma, a prescindere dalla diffusa incertezza nella scienza civil/commercialistica su quale sia la tutela apprestata dall’art. 2343 bis, e sul conseguente inquadramento dell’evento lesivo (nel caso in esame la tutela era soprattutto da ravvisarsi all’esterno nel contesto della divisata compra/vendita delle azioni), l’assunto dimentica come l’oggetto da stimare (il pacchetto azionano, frutto di aumento di capitale) non fruiva sul mercato di una valutazione corrente, nè le opportunità di negoziarlo si palesavano così frequenti da consentire una valutazione in termini quasi oggettivi.

L’affermazione giudiziale contrasta con autorevole dottrina aziendalistica che reputa, invece, comunque necessario un vaglio sulle caratteristiche del soggetto contraente nel passaggio del bene societario. Invero, la conclusione trascura l’essenziale circostanza che il negoziato su di esso si era consolidato in una fase antecedente alla redazione della perizia e che, quindi, era essenziale l’accertamento dei suoi esiti in ragione della fondata prospettazione della stima del bene, sicchè unica verifica atteneva alla affidabilità commerciale del gruppo americano che si era offerto per l’acquisto. Così come restano pur sempre estranei al problema qui posto, le pur attente osservazioni sull’errore nel metodo utilizzato dai S., dal G., nonchè dal prof. M. (pag. 20/21) nella lettura di quella complessa realtà di impresa e, coerentemente, la sentenza impugnata accenna a "carenza" di verifica dei flussi di reddito o "confusione" di poste, indici di condotta colposa e non intenzionale.

Pertanto, non è logicamente accettabile l’equazione per cui una stima "sbagliata" sia attestativa di una valutazione "falsa".

Siffatta conclusione è frutto di una sbrigativa considerazione che sembra affiorare nella parte conclusiva del tracciato argomentativo (mentre nelle premesse si riscontra la corretta diversificazione dei concetti) nella decisione impugnata, mancando una riflessione su alcuni profili essenziali quali, per esempio:

– la previsione di puntuale adempimento del contraente (anche in questo caso risulta formalistica la conclusione per cui la stima dell’esperto può prescindere dalla capacità solutoria del soggetto a cui sarà ceduto il bene, soprattutto se rapportato al contesto negoziale a cui si riferisce il processo, in cui risulterebbe imprevisto l’inadempimento del gruppo americano);

– la tempistica preventivata nell’adempimento del negozio, nel quadro di un trend deficitario dell’impresa, in ragione della capacità di questa di generare nuova ricchezza e modificare i propri assetti attivi o deficitari;

Ma, soprattutto, ragionevolmente la difesa segnala la mancanza di argomentazione che attesti la consapevole conoscenza del falso in capo agli operatori.

Per i S. la prova della consapevolezza del falso è (fugacemente) individuata nella richiesta di dati alla "casa-madre" sull’avviamento.

Ma tanto non significa, ancora, certezza dell’infedeltà delle notizie così acquisite; ma – al più – superficialità e negligenza nel sondare una fonte informativa interessata all’esito della valutazione.

Nulla è detto al riguardo di A.. I giudici non si sono soffermati a considerare l’angolo della visuale da cui gli era consentita la conoscenza della genesi della trattativa e della conclusione del negozio.

Vero che la sua posizione in seno all’azienda oggetto di cessione permetteva la conoscenza del negozio, ma non è priva di interesse l’osservazione, avanzata dai ricorrenti (ma non vi è smentita nel contesto della pronuncia), che sottolinea come il prezzo risultasse frutto di intese pregresse, scaturite da approfondite analisi svolte sotto il controllo di entrambi i gruppi societari contraenti che avevano dato l’assenso alla conclusione dell’affare, sicchè il valore definito era assicurato dalla duplice volontà negoziale.

E’ chiaro che una diversa considerazione di questi essenziali profili necessita di un approfondimento in fatto, precluso a questo giudice di legittimità.

Non deve sfuggire che – stando alle indicazioni sulla vicenda risultanti dalla pronuncia – per la fallita società la cessione del ramo aziendale trovava (sin dalle intese iniziali) compensazione immediata nel contestuale aumento di capitale che assicurava importo in denaro pari alla stima del bene oggetto della divisata cessione, onde l’operazione appariva priva di effettiva incidenza finanziaria e l’esagerazione dei valori di stima risultava sostanzialmente ininfluente, se non nei rapporti esterni (per i quali, tuttavia, l’ordinamento non appresterebbe, secondo la prevalente dottrina, l’onere del vaglio peritale).

Manca, pertanto, la spiegazione (che, ovviamente, attiene alla logica della prova, non alla dimostrazione dell’illecito in sè) del possibile motivo dell’artificioso e preordinato gonfiamento dei valori. Profilo che direttamente si riflette sulla dimostrazione della volontà e contezza di assegnare al bene una vantazione impropria.

E’ dato certo che, comunque, difetta – per giungere alla definizione di una sicura prova sulla rappresentazione della fissazione esagerata del prezzo – un riscontro ad una possibile intesa concordata tra i vari soggetti intervenuti in quell’affare, quale unica dimostrazione di comune e concertata volontà e, quindi, consapevolezza di mendacio.

Su questi punti il giudice del rinvio è chiamato ad una migliore considerazione, risultando essenziali per l’affermazione della responsabilità penale in ordine all’addebito in discorso. p.4c) Se carente, quindi, si presenta la decisione in relazione all’addebito di cui all’art. 373 c.p., analogamente insufficiente risulta, a carico di A., per la stretta consequenzialità assunta dalla decisione impugnata tra i due addebiti, anche il giudizio di penale responsabilità per la bancarotta fraudolenta.

Sicchè anche con riguardo a questa imputazione viene disposto l’annullamento.

Il Collegio, al contempo, esclude rilievo all’asserita mancata prova (affacciata all’odierna udienza dalla difesa) del nesso di continuità causale tra la condotta e l’evento fallimentare, postochè la fattispecie mcriminatrice, costituita dall’art. 216, comma 1, n. 1, richiamato dall’art. 223, comma 1, L. Fall., non condiziona l’esistenza del reato al collegamento eziologico (a differenza che le ipotesi del successivo comma).

La presenza di pregresse stime valutative, si ripete, accolte anche dall’acquirente del ramo aziendale posto in vendita (e motivato da interessi contrapposti al cedente), ritenute compatibili con la fissazione del prezzo dedotto nell’intesa, lascia insuperabili dubbi sulla consapevolezza della inadeguatezza dell’accordo che avrebbe dovuto vincolare le società inquisite. Eppertanto, la circostanza accende la forte perplessità – a cui non sovviene giustificazione diversa da parte dei giudici d’appello – sulla consapevolezza che la dismissione del bene realizzasse un impoverimento effettivo dell’asse patrimoniale.

Invero, in tema di bancarotta fraudolenta, ancorchè la fattispecie non richieda l’indefettibile volontà di pregiudicare i creditori, risultando sufficiente il dolo generico, è del pari indubbia la necessaria ricorrenza della prova, in capo al soggetto agente, del disvalore patrimoniale conseguente all’operazione che si assume concretare l’ingiustificato impoverimento del patrimonio d’impresa.

Anche per questo profilo risulta inammissibile ogni tipo di presunzione probatoria, e di tanto, si ripete, non è fornita dimostrazione adeguata nella motivazione della pronuncia oggetto di ricorso. p.4d) Piuttosto è data rilevare una diversa e ben più salda circostanza di probabile penale responsabilità: quella di avere ceduto così cospicua e decisiva (per il prosieguo dell’attività) dotazione di beni, senza che risulti dimostrata la pretesa di una seria garanzia da parte dell’acquirente debitore del prezzo (circostanza che, per il vero, era stata affacciata nel processo con l’appello del PG., cfr. Sent. pag. 9). Nulla è detto, anche a questo proposito in sentenza sulla percezione di siffatta evenienza, circostanza che, qualora risulti frutto di imprudenza o grave negligenza induce a ritenere, avuto riguardo alla complessiva situazione dell’impresa, fortemente deficitaria, nel contesto di un mercato ad essa prossimo assai fragile, la manifesta imprudenza consistita nell’omettere di pretendere sufficienti cautele negoziali per il puntuale adempimento del contratto e la possibile responsabilità ai sensi dell’art. 224, comma 1 nel suo richiamo all’art. 217, comma 1, n. 2, L. Fall..

Anche su questo punto il giudice del rinvio è chiamato a soffermarsi con opportuno scrutinio di merito, rilevando anche ai fini delle pretese patrimoniali della costituita parte civile (nonostante l’eventuale estinzione del reato per maturato decorso prescrittivo).
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della corte d’Appello di Torino.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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