Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Parte ricorrente è un ex assistente capo della Polizia di Stato che, in esito a operazione di p.g. condotta dall’Arma dei CC, è stato, il 5.3.2002, arrestato unitamente a conoscente trovato in possesso di 5 confezioni di sostanza stupefacente(cocaina): quantitativo cui si aggiungevano, di seguito a perquisizione del domicilio di quest’ultimo, altre 548 dosi di cocaina e 385 dosi di hascish (nell’occasione si procedeva a sequestro di bilancino di precisione e di strumenti da taglio dello stupefacente). Lo stesso giorno (5.3.2002) il dipendente veniva cautelativamente sospeso dal servizio in pendenza del relativo p.p. che si definiva con sentenza, pubblicata il 18.3.2003, la quale – pur mandandolo assolto ex art.530 c.p.p. – ricollegava, in motivazione, tale esito "all’assenza piena di prove in ordine alla sussistenza dell’elemento materiale dei delitti.. contestati".
Il 20.5.2003 venivano contestati al dipendente addebiti disciplinari punibili con la sanzione della destituzione ex nn.2 e 4 dell’art.7 del d.P.R. nr. 727 del 1981, ritenendo dolosamente lesiva dei doveri assunti col giuramento l’assidua frequenza di persona (si tratta del conoscente di cui sopra che, all’esito del medesimo p.p., è stato condannato a due anni di reclusione) notoriamente dedita all’assunzione di stupefacenti. Tale rapporto di frequentazione veniva qualificato dal ricorrente meramente occasionale pur se tale persona (in precedenza incensurata) fosse da lui conosciuta sin dall’infanzia essendo cresciuta nello stesso quartiere ed appartenente a famiglia che "mai aveva avuto problemi con la giustizia". Tanto il ricorrente riferiva in sede di replica alla lettera di addebiti, ivi precisando di avere rassegnato le sue dimissioni dal 27.5.2003 (dimissioni, successivamente accettate dalla p.a. il 10.7.2003).
Il procedimento disciplinare si concludeva con la destituzione dell’incolpato e con la declaratoria di invalidità ai fini giuridici, nonché di quiescenza e previdenza, del periodo di sospensione cautelare protrattosi dal 5 marzo al 9 luglio 2003.
Tale determinazione è stata dal S. avversata col ricorso in epigrafe perché:
a) contrastante con l’art.6 nr.6 del d.P.R. nr.737 del 1981 che punisce con la sospensione dal servizio "l’assidua frequenza, senza necessità di servizio ed in maniera da suscitare pubblico scandalo, di persone dedite ad attività immorale o contro il buon costume ovvero di pregiudicati"; e dunque si riferisce a fattispecie nel cui ambito sarebbe, al più, sussumibile la condotta ad esso addebitata;
b) contrastante con l’art.9 c.5 del medesimo d.P.R. che prevede – una volta pronunciata sentenza di assoluzione – la revoca della sospensione cautelare dal servizio, a tutti gli effetti; e dunque non consente che il dipendente assolto possa subire alcun pregiudizio spettandogli il ripristino integrale della sua posizione giuridica ed economica; vale a dire – con riguardo al caso di specie – spettandogli sia il trattamento economico non corrisposto durante il periodo di sospensione cautelare dal servizio che il computo del medesimo periodo ai fini del T.f.r e previdenziali.
L’evocata amministrazione, costituitasi in giudizio, per il tramite della Difesa erariale ha eccepito la carenza di interesse a ricorrere del S. (in quanto dimessosi prima della conclusione del procedimento disciplinare) e, nel merito, l’infondatezza del gravame avversario.
All’udienza del 16.2.2010 la causa è stata trattenuta per la relativa decisione.
Motivi della decisione
I)- L’eccezione di inammissibilità della domanda di giustizia di cui trattasi – per difetto di interesse a promuoverla – sollevata dalla resistente amministrazione non è condivisibile.
Il Regolamento di disciplina del personale della P.S. (d.P.R. n.737 del 1981 citato) dispone, difatti, all’art.31 (ma, vedi anche l’art.10), che, per quanto non previsto da tale Testo, si applicano le corrispondenti norme contenute nel T.U. per gli impiegati civili dello Stato n.3 del 1957. Per effetto di tale rinvio viene, pertanto, in considerazione la norma dell’art.118 del d.P.R. n.3 del 1957 che così dispone:"Qualora nel corso del procedimento disciplinare il rapporto d’impiego cessi anche per dimissioni volontarie o per collocamento a riposo a domanda, il procedimento stesso prosegue agli effetti dell’eventuale trattamento di quiescenza e previdenza": norma questa che trova applicazione anche in tutte le ipotesi nelle quali è ravvisabile l’interesse ad ottenere somme di danaro da parte del dipendente, non potendosi assegnare alla previsione una rigorosa tassatività (cfr. Cons.St., n.504 del 1993).
Dunque, e ferme restando le dimissioni rassegnate dal dipendente il 27.5.2003 (e, dunque, dopo l’inizio del procedimento disciplinare oggetto del corrente scrutinio), non può dubitarsi dell’interesse del S. a rimuovere il provvedimento destitutorio gravato: e tanto non al fine (ormai non più concretizzabile) di una sua riammissione in servizio ma, ovviamente (al fine), di eliminare gli effetti negativi da tale sanzione riflettentesi tanto sulle somme trattenute durante il periodo di sospensione cautelare quanto sul computo del periodo de quo per il calcolo dell’indennità di buonuscita e del trattamento previdenziale.
E’ pur vero che, anche ove condivisa la tesi attorea (secondo la quale la sanzione eventualmente applicabile, per punire la condotta addebitata, era quella della sospensione e non della destituzione dal servizio), l’amministrazione potrebbe rinnovare in tutto od in parte il procedimento (art.119 d.P.R. n.3 del 1957) e sospendere disciplinarmente l’ex dipendente per una durata pari o maggiore della già eseguita sospensione cautelare (privandolo, per l’effetto, dei benefici economici reclamati). Ma è altrettanto vero che l’amministrazione potrebbe determinarsi a non rinnovare il procedimento disciplinare ovvero potrebbe disciplinarmente pervenire ad una sanzione minore (es. pena pecuniaria) consentendo così l’operatività dell’art.96 del predetto T.U. che impone, per tali evenienze, la corresponsione al dipendente di tutti gli assegni non percepiti (esclusi quelli per prestazioni di carattere straordinario o per funzioni speciali) per effetto della sospensione (e, quindi, il loro computo ai fini del t.f.r. nonché previdenziali).
II)- Procedendo ora allo scrutinio dei profili di merito del gravame, deve rilevarsi che parte ricorrente, preliminarmente, rappresenta che il dipendente assolto con formula piena in sede penale non può essere sanzionato disciplinarmente per lo stesso fatto.
L’assunto è, ovviamente, in linea di principio, corretto. Ove però lo stesso debba essere inteso (e sul punto il ricorso non è cristallino) nel senso che nel caso di specie esso ricorrente non poteva essere disciplinarmente perseguito, allora va ricordato, (oltre al fatto che l’assoluzione è stata ricollegata, come già anticipato in narrativa, "all’assenza piena di prove in ordine alla sussistenza dell’elemento materiale dei delitti.. contestati") che il capo di incolpazione qui si ricollega all’assidua frequenza di persona notoriamente dedita al consumo di stupefacenti ed alla conseguente violazione dei doveri assunti col giuramento: dunque il fatto commesso dall’impiegato, pur non integrando gli estremi di un illecito penale, ben può configurasi come illecito disciplinare, sulla base di criteri e parametri di valutazione della liceità disciplinare diversi da quelli rilevanti in sede penale, fondandosi il giudizio disciplinare sulla trasgressione di norme deontologiche giuridicamente rilevanti e non sulla violazione di norme penali.
Fondato invece si presenta il profilo di doglianza che fa leva sulla non riconducibilità della condotta incolpata all’ambito applicativo di cui ai nn.2 e 4 del Regolamento di disciplina.
Al riguardo il ricorrente sottolinea che il citato articolo 6 prevede la sanzione della sospensione dal servizio da uno a sei mesi per "assidua frequenza, senza necessità di servizio ed in maniera da suscitare pubblico scandalo, di persone dedite ad attività immorale o contro il buon costume ovvero di pregiudicati"; nel suo caso egli sostiene vi sarebbero dei dubbi anche in ordine all’applicazione di questa sanzione considerata l’assenza di pubblico scandalo.
Le argomentazioni del ricorrente sono in parte condivisibili.
E’ anzitutto necessario rilevare come il comportamento attribuito al ricorrente abbia un indiscutibile rilievo disciplinare. Non è seriamente dubitabile che sia censurabile il comportamento di un appartenente alla Polizia di Stato che – al di fuori dell’attività di istituto – accetta di intrattenersi con persona notoriamente dedita al consumo di pesante sostanza stupefacente (e che ha dichiarato di distribuire la stessa agli amici in occasione di feste ed incontri) fornendo di tale comportamento giustificazioni diverse.
Nondimeno la sanzione applicata appare effettivamente sproporzionata all’entità del fatto, alla luce non della disposizione richiamata in ricorso (articolo 6, numero 6 del D.P.R. n. 737) ma: a) della disposizione dell’articolo 4, comma 2, numero 3) del medesimo D.P.R. che sanziona con la pena pecuniaria "il mantenimento, al di fuori di esigenze di servizio, di relazioni con persone che notoriamente non godono in pubblico estimazione o la frequenza di locali o compagnie non confacenti al proprio stato"; b) della disposizione dell’articolo 6, comma 2 numero 1 che sanziona con la sospensione dal servizio le "mancanze previste dal precedente art. 4, qualora rivestano carattere di particolare gravità ovvero siano reiterate o abituali".
In altri termini, nel caso di specie, la sanzione applicabile era:
a) o quella dell’art.6 c.2 nr. 1 citato attesa la particolare gravità del fatto accertato ovvero l’abituale frequentazione di persona notoriamente priva in pubblico di buona estimazione;
b) ovvero, e in considerazione del fatto che il ricorrente era stato, in passato, già disciplinarmente sospeso dal servizio, quella dell’art.7 nr. 6 che consente la destituzione del dipendente per reiterazione delle infrazioni per le quali è prevista la sospensione dal servizio (ovviamente, è solo il caso di ricordare che nel caso di specie non è questa la scelta sanzionatoria operata dall’amministrazione).
Certamente in astratto le mancanze attribuite al ricorrente sarebbero sussumibili nella previsione dell’articolo 7, comma 2 numero 2 del D.P.R. n. 737 ("atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti col giuramento") ovvero n.4 ("dolosa violazione dei doveri che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all’amministrazione della p.a. ad enti pubblici od a privati"); tuttavia questa previsione deve essere interpretata secondo un criterio sistematico e tenendo conto che nella materia in esame trova applicazione sia il principio di specialità che quello di proporzionalità. Del resto più o meno tutte le mancanze disciplinari previste negli articoli 5, 6 e 7 del D.P.R. n. 737 costituiscono (anche) manifestazione di mancanza di senso morale o di senso dell’onore. Da ciò deriva, considerate anche le esigenze di determinatezza e tipizzazione degli illeciti disciplinari, che le disposizioni dell’articolo 7, comma 2 n. 2 e n. 4 devono essere interpretate restrittivamente come una sorta di previsioni di chiusura del sistema, cioè come disposizioni che sanzionano comportamenti di particolare riprovevolezza non previsti e puniti da altre disposizioni. Altrimenti detto in presenza di un" ipotesi tipizzata di illecito disciplinare, cui è correlata una determinata sanzione, non residua all’Amministrazione un’area di discrezionalità per una diversa graduazione della misura afflittiva, dando rilievo, come avvenuto nella fattispecie di cui è controversia, all’incidenza del comportamento qualificato riprovevole sui doveri assunti col giuramento il cui rispetto deve caratterizzare la condotta in servizio e la stessa vita di relazione degli appartenenti al corpo di polizia. Detto giudizio di disvalore resta assorbito dalla scelta afflittiva operata dalla norma regolamentare, che esplica effetto vincolante sull’esercizio della potestà disciplinare e che non può da essa discostarsi.
Conclusivamente, il ricorso – ritenuti assorbiti gli ulteriori motivi dedotti – dev’essere accolto con conseguente annullamento del decreto del Capo della Polizia del 12 novembre 2003. Rimane ovviamente impregiudicata la facoltà dell’amministrazione di determinarsi in ordine all’eventuale riattivazione del procedimento disciplinare ove compresenti i relativi presupposti. La peculiarità della causa consente di compensare interamente tra le parti le spese della presente fase processuale.
P.Q.M.
definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla il decreto del Capo della Polizia 20 giugno 2003.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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