Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-04-2011, n. 8368 Intermediazione finanziaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

In data 6 maggio 2004 C.G. proponeva ricorso avverso il D.M. dell’Economia e delle finanze del 2 marzo 2004, con il quale – essendo state riscontrate violazioni del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi della L. 6 febbraio 1996, n. 52, artt. 8 e 21) e del regolamento CONSOB 1 luglio 1998, n. 11522 – era stata irrogata al predetto e ad altre persone fisiche la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 41.300,00 ed ingiunto alla Fineco Group s.p.a., quale responsabile in solido, il pagamento dello stesso importo.

La Corte d’appello di Milano, con decreto depositato il 3 dicembre 2004, ha rigettato l’opposizione.

Disattesa tanto l’eccezione di estinzione della pretesa sanzionatoria L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 14 per tardività della contestazione rispetto all’accertamento, quanto l’eccezione di violazione del termine di durata del procedimento sanzionatorio, per il denunciato superamento del termine complessivo di 180 giorni previsto dal regolamento CONSOB 2 agosto 2000, n. 12697, emesso in ottemperanza alla previsione contenuta nella citata L. n. 689 del 1981, art. 2 la Corte territoriale, nel merito, ha rilevato la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito in capo al C..

Per la cassazione del decreto della Corte d’appello il C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 27 ed il 28 luglio 2005, sulla base di cinque motivi.

Hanno resistito, con controricorso, il Ministero e la CONSOB, mentre la Fineco Group s.p.a. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 14 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente si duole che il termine di novanta giorni dall’accertamento, entro il quale gli estremi della violazione devono essere notificati agli interessati, sia stato calcolato a partire dalla deliberazione in composizione collegiale della CONSOB di procedere alle contestazioni, anzichè dalla acquisizione dei risultati conclusivi dell’ispezione. E deduce che il diverso principio di diritto applicato dalla Corte d’appello di Milano sarebbe costituzionalmente illegittimo, per la diversità di trattamento rispetto agli intermediari soggetti al controllo delle altre Autorità.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 14 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del termine di durata del procedimento sanzionatorio. Ad avviso del ricorrente, il termine di 180 giorni come durata massima del procedimento sanzionatorio era scaduto, perchè il dies a quo avrebbe dovuto calcolarsi dalla conclusione delle indagini ispettive.

1.1. – I due motivi – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

La Corte d’appello si è attenuta al principio secondo cui in materia di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, la distinzione tra gli organi della CONSOB, deputati, rispettivamente, alla constatazione ed alla valutazione dei fatti costituenti violazioni amministrative, è ininfluente ai fini della decorrenza del termine da rispettare per la contestazione degli illeciti, che va individuata nel giorno in cui la Commissione in composizione collegiale, dopo l’esaurimento dell’attività ispettiva e di quella istruttoria, è in grado di adottare le decisioni di sua competenza, senza che si possa tenere conto di ingiustificati ritardi, derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati ai suddetti organi (Cass. , Sez. Un., 9 marzo 2007, n. 5395, e successiva giurisprudenza conforme:

Cass., Sez. 1^, 18 marzo 2008, n. 7257; Cass., Sez. 2^, 8 aprile 2009, n. 8561; Cass., Sez. 5^, 30 ottobre 2009, n. 23016).

D’altra parte, è da escludere che, così interpretato, il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 195 contrasti con l’art. 3 Cost.

Vi sono ambiti, come appunto quello dell’intermediazione finanziaria, che richiedono valutazioni complesse, non effettuabili nell’immediatezza della percezione. Ciò, tuttavia, non esclude che a tali va-lutazioni si debba procedere in un tempo "ragionevole" e che in sede di opposizione il giudice, ove l’interessato abbia fatto valere il ritardo come ragione di illegittimità del provvedimento sanzionatorio, sia abilitato a individuare il momento iniziale del termine per la contestazione non nel giorno in cui la valutazione è stata compiuta, ma in quello in cui avrebbe potuto – e quindi dovuto – esserlo.

2. – Il terzo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione della disciplina dei servizi di investimento, in particolare del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 190, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti di fatto decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente sostiene: che non ha fondamento l’affermazione della Corte territoriale per cui il C. doveva rispondere delle violazioni contestategli in qualità di componente pro tempore del consiglio di amministrazione, perchè la comune coscienza sociale oggi richiede che il fatto illecito sia caratterizzato da un apporto individuale e non considera più come valore da tutelare la indiscriminata responsabilità di ciascun amministratore per il fatto omissivo della vigilanza sul generale andamento della gestione da svolgersi in ogni caso; che il C. non avrebbe avuto alcun dovere di sorveglianza in qualità di semplice consigliere, considerato che la nomina sarebbe avvenuta ad assetto già compiuto da tempo dalla società, in condizioni di sudditanza psicologica e dietro costrizione; che sarebbe infondata la tesi secondo cui ciascun amministratore sarebbe tenuto ad attivare il costante "controllo sui controllori". Si rileva, inoltre, che la Corte di Milano non avrebbe tenuto conto che tutta l’attività interna al gruppo bancario BiPop era accentuata nelle mani dell’amministratore delegato e del direttore generale.

Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione della disciplina dei servizi di investimento, in particolare D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 190, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti di fatto decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5) si deduce che la Corte territoriale sarebbe caduta in errore quando è pervenuta alla conclusione che il C., nella sua veste di vice direttore generale della banca, avesse la delega per le operazioni di intermediazione mobiliare. Inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del merito, "l’unità organizzativa titoli e depositaria" non avrebbe nulla a che spartire con l’attività di intermediazione mobiliare o con i servizi di investimento.

Con il quinto mezzo (violazione e falsa applicazione della disciplina dei servizi di investimento, in particolare dele D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 190, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti di fatto decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, si afferma che non corrisponde al vero che il C. sia stato collocato al vertice della struttura organizzativa deputata alla prestazione dei servizi di investimento. Da nessun atto della banca emergerebbe che il vice direttore generale sia stato investito della delega di settore. Non avendo una specifica delega, al vice direttore generale non potrebbe essere ascritta la responsabilità per atti ai quali non può determinarsi per non essere stato preventivamente legittimato. Infine, il ricorrente lamenta il trattamento privilegiario riservato al condirettore generale, che non è stato incolpato.

2.1. – I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto prospettano questioni analoghe o, comunque, connesse.

Essi sono infondati.

Occorre premettere che in tema di procedimento sanzionatorio previsto in materia di intermediazione finanziaria dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 195 il decreto della corte d’appello (che decide l’opposizione contro il provvedimento con cui, su proposta della CONSOB, il Ministero ha applicato la sanzione amministrativa) è impugnabile esclusivamente con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., non con il ricorso ordinario previsto dall’art. 360 cod. proc. civ.; di conseguenza, nella disciplina ratione temporis applicabile, anteriore alle modifiche introdotte con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il vizio di motivazione del decreto è insindacabile in sede di legittimità e assume rilievo esclusivamente se si concreta in una totale carenza dell’apparato argomentativo, ovvero in una mera apparenza di esso, perchè sviluppato con argomentazioni inidonee a rivelare il procedimento logico attraverso il quale il giudice di merito è pervenuto alla decisione, ovvero logicamente inconciliabili tra loro (Cass., Sez. 1^, 8 agosto 2004, n. 6934; Cass., Sez. 1^, 14 febbraio 2006, n. 3157).

Tanto premesso, questa Corte non può che rilevare la assoluta correttezza del ragionamento in diritto sviluppato dalla Corte milanese (pag. 19 ss. del decreto oggi impugnato).

In primo luogo, la Corte del merito ha fatto applicazione del principio (successivamente ribadito da Cass., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20933) secondo cui in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ed in fattispecie anteriore al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, i componenti del consiglio di amministrazione di una società, chiamati a rispondere, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 190 per la violazione dei doveri inerenti alla prestazione dei servizi di investimento posti a tutela degli investitori e del buon funzionamento del mercato, non possono sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto che abbia agito per conto della società, gravando a loro carico un dovere di vigilanza sul regolare andamento della società, la cui violazione comporta una responsabilità solidale, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 6 salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto.

La Corte ambrosiana ha rilevato che gli addebiti mossi (non avere predisposto procedure interne idonee ad assicurare l’ordinata e corretta prestazione del servizio di gestione individuale, nonchè a ricostruire le modalità, i tempi e le caratteristiche dei comportamenti posti in essere nella prestazione dei servizi; non avere predisposto un modello di rendiconto della gestione conforme a quanto previsto dalla regolamentazione di settore; non avere predisposto procedure interne idonee ad assicurare l’ordinata e corretta prestazione del servizio di ricezione e trasmissione di ordini, nonchè a ricostruire le modalità, i tempi e le caratteristiche dei comportamenti posti in essere nella prestazione dei servizi; non avere adottato risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee alla efficiente prestazione dei servizi di investimento; non avere operato nel rispetto dei principi di correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti, avendo offerto ai medesimi, nell’ambito del servizio di gestione, prodotti strutturati ed implementati con modalità difformi da quelle previste dall’ordinamento di settore) attengono a carenze di tipo organizzativo e procedurale di tipo generale, in relazione alle quali la responsabilità colposa dei consiglieri di amministrazione deriva dall’obbligo che compete all’organo amministrativo di predisporre le strutture organizzative e le procedure in grado di assicurare il rispetto della disciplina di settore. Esente da censure è pertanto la conclusione secondo cui, in presenza di accertate carenze procedurali e organizzative di tipo generale, e non emergendo elementi probatori in grado di far emergere comportamenti addirittura dolosi da parte del management della società, deve per ciò stesso reputarsi sussistente quanto meno la responsabilità colposa dei componenti del consiglio di amministrazione, non solo in quanto per la sussistenza della responsabilità da illecito amministrativo è sufficiente la sola coscienza e volontà dell’azione, con conseguente presunzione iuris tantum di colpa in capo ai predetti organi societari, ma anche perchè la accertate violazione di carenze procedurali e organizzative evidenziano in positivo la sussistenza di una condotta colposa per violazione di precisi obblighi di comportamento da parte di tali soggetti.

In questo quadro, nè la complessa articolazione della struttura organizzativa della banca, nè la addotta sudditanza psicologica del C. rispetto ai suoi superiori potevano comportare, ipso facto, un affievolimento del potere – dovere di vigilanza a suo carico.

Quanto alla responsabilità del C. anche nella sua veste di vice direttore generale, la Corte d’appello (a) ha rilevato che l’organigramma della banca, acquisito in atti, dimostra non solo che egli era preposto al settore intermediazione creditizia, ma anche che all’interno di detto settore era ricompresa l’unità organizzativa in cui si compendiava l’attività caratteristica dell’intermediazione mobiliare; (b) ha escluso che l’ufficio titoli della banca si rapportasse direttamente e solo al direttore generale; (c) ha affermato che nessun trattamento privilegiario è stato riservato al signor G., perchè, sebbene anche costui facesse parte della direzione generale della banca, era preposto ad attività del tutto diverse da quelle attraverso le quali la banca prestava servizi di investimento.

Di fronte al logico e stringente ragionamento che sorregge la motivazione della Corte di Milano, le critiche sollevate con i motivi di ricorso si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione del merito della causa e nella pretesa di contrastare apprezzamenti di fatti e di risultanze probatorie che sono inalienabile prerogativa del giudice del merito. Le censure in esame appaiono rivolte a denunciare, nonostante il richiamo formale contenuto nella rubrica del motivo, non già una violazione di legge nella definizione degli illeciti contestati, nè una completa assenza di motivazione integrante violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, ma mere carenze motivazionali in ordine all’accertamento della colpa, cosi da esorbitare dai limiti del sindacato consentito dall’art. 111 Cost.

3. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalle Amministrazioni controricorrenti, che liquida in Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese eventualmente prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *