Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 09-02-2011) 25-02-2011, n. 7246

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

lla Antonio di Roma e Grosso Carlo Federico di Torino.
Svolgimento del processo

S.S. proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza, in data 12 ottobre 2010, con la quale il Tribunale di Roma – Sezione per il Riesame, respingeva l’appello proposto avverso l’ordinanza con la quale il G.I.P. del Tribunale di Roma aveva rigettato, il 20 luglio 2010, la richiesta di revoca della misura degli arresti domiciliari in atto.

Con il primo motivo di ricorso deduceva la manifesta illogicità della motivazione e l’omessa decisione affermando che l’ordinanza impugnata, ponendosi in contraddizione con precedenti pronunce di questa Corte e dello stesso Tribunale rese sulla medesima vicenda cautelare, aveva omesso di valutare tutti gli elementi nuovi proposti dalla difesa e concernenti la sussistenza dei presupposti per il mantenimento della misura.

Con il secondo motivo di ricorso lamentava la violazione e l’erronea interpretazione della legge processuale con riferimento ai gravi indizi di colpevolezza.

Osservava, a tale proposito, che l’ordinanza impugnata erroneamente aveva ritenuto la permanenza delle condizioni per il mantenimento della misura sulla base di una distorta e non condivisibile valutazione degli elementi a favore e quelli a carico dell’indagato.

Con il terzo motivo di ricorso denunciava la violazione ed erronea applicazione della legge processuale per l’identificazione del pericolo di inquinamento della prova con la "cointeressenza" della maggior parte degli indagati alla difesa nel processo ritenuta dai giudici del gravame.

Con il quarto motivo di ricorso denunciava la violazione ed erronea applicazione della legge processuale per l’identificazione del pericolo di reiterazione del reato con l’alta capacità professionale ritenuta dal Tribunale quale elemento determinante.

Con il quinto motivo di ricorso osservava che il termine massimo di custodia cautelare per il reato fiscale era di mesi tre e risultava pertanto spirato a far data dal 25 maggio 2010 mentre, per quanto riguarda il reato associativo, il termine era di mesi sei ed il termine di fase massimo doveva individuarsi nella data del 25 agosto 2010.

Osservava che, su richiesta del Pubblico Ministero, il G.I.P. aveva emesso decreto di giudizio immediato il 10 agosto 2010, ma la conseguente decorrenza dei nuovi termini di custodia non poteva ritenersi validamente iniziata in ragione di quanto disposto dall’art. 452 c.p.p., comma 2.

In particolare, il G.I.P. aveva emesso il decreto senza considerare che il giudizio immediato poteva essere disposto solo per il reato in relazione al quale l’indagato si trovava in stato di custodia cautelare (nella fattispecie, il reato associativo) mentre, in presenza di connessione con altro reato per il quale mancavano i presupposti per il ricorso al rito (nella fattispecie, il reato fiscale) avrebbe dovuto procedersi previa separazione dei procedimenti o mediante rito ordinario.

La ammissione al rito al di fuori dei casi previsti avrebbe così impedito il decorso di nuovi termini di custodia mentre quelli relativi alla fase delle indagini preliminari risultavano ormai decorsi.

Lamentava, conseguentemente, che il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi tanto sulla scarcerazione per decorrenza dei termini in ordine al reato fiscale quanto sulla invalidità del decreto di giudizio immediato.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Va premesso che, nel corso dell’udienza, la difesa del ricorrente ha dichiarato di rinunciare al secondo e quinto motivo di ricorso.

Ciò posto, deve osservarsi, con riferimento ai residui motivi di ricorso, che il Tribunale ha dato preliminarmente atto dell’esistenza delle precedenti pronunce di questa Corte e dello stesso Tribunale inerenti la medesima vicenda processuale, ricordando come questa sia stata oggetto di ampio ed approfondito esame.

Ha inoltre inequivocabilmente chiarito che il provvedimento del G.I.P. oggetto di impugnazione era fondato sull’assenza di elementi sopravvenuti a discarico e che, anzi, evidenziava come ulteriori elementi a carico del ricorrente potessero individuarsi nelle dichiarazioni di un coindagato.

Date tali premesse, i giudici dell’appello affermavano che l’impugnazione si risolveva in una richiesta di nuova valutazione dell’intero impianto accusatorio già ampiamente valutato in precedenza.

Tale considerazione è del tutto coerente e conforme a legge qualora, come nella fattispecie, non si prospettino nuovi elementi di valutazione e di inquadramento dei fatti che consentano di superare eventuali preclusioni conseguenti a precedenti giudizi.

Il Tribunale, sulla base di tale premessa, ha ulteriormente considerato le risultanze della complessa indagine per ribadire la consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ampiamente valutati in precedenza, la attualità del pericolo di inquinamento probatorio ed il pericolo di reiterazione nel reato.

Si tratta, a ben vedere, di riferimenti a dati probatori che il Tribunale indica come già acquisiti e precedentemente valutati e menzionati solo per sottolineare la circostanza che, rispetto alla situazione precedentemente considerata, nulla risultava mutato.

Sotto tale profilo, pertanto, il provvedimento impugnato è immune da censure in quanto i giudici dell’appello hanno espresso il loro giudizio fornendo esaurienti risposte alle doglianze della difesa, legittimamente rifiutando di procedere ad una nuova valutazione delle circostanze già prese in considerazione in sede di riesame e di legittimità.

Del resto, lo stesso ricorrente non fornisce in ricorso alcuna specifica indicazione che consenta di individuare gli elementi nuovi la cui valutazione sarebbe stata pretermessa dal G.I.P. prima e poi dal Tribunale.

Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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