Cons. Stato Sez. IV, Sent., 24-02-2011, n. 1235 condono

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

r il resistente Comune;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1.Il Club ippico di Pescara, in applicazione dell’allora vigente art. 31 e ss. della L. 28 febbraio 1985 n. 47, ha chiesto al Comune di Pescara un condono edilizio per opere varie (box per cavalli, lavatoio, tettoia di servizio, selleria, archivio, club house, rimessa attrezzi, palco giuria e gradinate, ulteriore tettoia, deposito e altri locali) insistenti su di un lotto di mq 54.365, ubicato nell’ambito della c.d. "Pineta Dannunziana", altrimenti nota come "Pineta D’Avalos" o "Parco D’Avalos", dal nome dei marchesi di Pescara all’epoca dei Borboni, e ubicata nell’area a sud di tale città.

Va da subito precisato che la Pineta costituisce Riserva naturale di interesse provinciale e costituisce porzione di un vasto territorio in passato già coperto da un’ininterrotta serie di pinete e dalla macchia mediterranea che si estendeva per la parte litoranea di gran parte del territorio comunale.

L’urbanizzazione ha interrotto la continuità di tali pinete, e al fine di tutelarne l’area residua con L.R. 28 giugno 2000 n. 96 come modificata dalla L.R. 22 dicembre 2010 n. 60, dalla L.R. 9 maggio 2001 n. 19 e dalla della L.R. n. 26 novembre 2002 n. 25 è stata ivi – per l’appunto – istituita la Riserva naturale di interesse provinciale "Pineta Dannunziana" per una superficie di 85 ettari.

Il Club espone di aver puntualmente corrisposto la prima rata dell’oblazione contemplata dall’art. 34 della medesima L. 47 del 1985 e di aver peraltro redatto anche un modello esplicativo con pagamento a saldo di altra oblazione, essendo stato rilevato un errore di calcolo delle superfici da sottoporre a condono, in quanto non era stata inizialmente inclusa un’ulteriore superficie di mq. 251.

Lo stesso Club e l’Istituto Principe di Napoli per ciechi, proprietari degli immobili per i quali era stato richiesto il condono, hanno quindi alienato i beni all’odierna ricorrente, Sig.ra G. G..

Con provvedimento n. 3993 dd. 14 luglio 2003 è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria, poi peraltro annullata in via di autotutela con provvedimento n. 70678 dd. 30 giugno 2005.

1.2. Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. per l’Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, la G. ha quindi chiesto l’annullamento di tale provvedimento, deducendo al riguardo

a) Erronea applicazione dell’art. 21nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241 e dell’art. 151 del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 ed eccesso di potere per difetto di motivazione, in quanto il cospicuo versamento di 26.216.000.- di vecchie lire (pari, quindi, a 13.538,97.- Euro) renderebbe assimilabile il condono edilizio ad un atto di carattere sinallagmatico ed oneroso, per cui con il provvedimento di annullamento avrebbe dovuto essere contestualmente disposto pure il rimborso delle somme versate;

b) violazione dell’art. 21nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241, incompetenza, eccesso di potere e difetto di motivazione, in quanto l’annullamento del condono ha come presupposto l’annullamento del nulla osta dei beni ambientali, rilasciato in via di subdelega dal settore pianificazione urbana che lo ha rimesso per competenza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e alla Regione Abruzzo, i quali – per loro parte – non hanno esercitato i poteri di annullamento;

c) travisamento dei fatti, eccesso di potere, erronea applicazione della L. R. 96 del 2000, nonché erronea applicazione degli artt. 21nonies e 21octies della L. 241 della 1990, in quanto le ragioni sulle quali è fondato l’atto di annullamento comunale, ossia il difetto di istruttoria e la violazione della legge regionale istitutiva della riserva pineta dannunziana, sarebbero pretestuose ed inesistenti.

d) erronea applicazione dell’art. 7 e segg., nonché dell’art. 21nonies della medesima L. 241 del 1990, nonché eccesso di potere per travisamento dei fatti, in quanto il bilanciamento tra interesse pubblico e privato non parrebbe suffragato da idonei riscontri;

e) eccesso di potere, erronea applicazione dell’art. 21nonies della L. 241 del 1990 e delle norme sul condono edilizio, in quanto pretestuosamente ci si riferirebbe ad un ritardo della presentazione della richiesta per un modesta parte del terreno di soli 251 mq che sarebbero, semmai, i soli a non poter essere condonati;

f) erronea applicazione della disciplina dettata in tema di condono edilizio, eccesso di potere, nonché travisamento dei fatti, in quanto non sarebbe vero che i manufatti e l’area su cui insistono verserebbero in stato di fatiscenza e di abbandono e che non sarebbero funzionali ad alcuna esigenza;

g) in subordine, illegittimità costituzionale della L.R. 96 del 2000 per contrasto con la normativa europea in materia e per violazione dell’art. 81 Cost. in quanto non recante l’individuazione dei mezzi finanziari con cui far fronte agli adempimenti connessi all’istituzione della Riserva, con conseguente invalidità di provvedimenti attuativi della legge regionale medesima.

La ricorrente ha pure successivamente proposto motivi aggiunti, affermando l’incompetenza e l’erronea composizione del Comitato di Gestione della Riserva della Pineta Dannunziana, nonché la sussistenza dell’ulteriore vizio di eccesso di potere laddove il Comitato medesimo, asseritamente presieduto da un rappresentante politico inidoneo a esprimere pareri in materia di gestione edilizia, avrebbe dato risposta ad un quesito reputato dalla stessa difesa della G. fuorviante e così formulato: "se esista la possibilità di realizzare manufatti all’interno della Riserva naturale Pineta Dannunziana, e nella fattispecie chiede l’esame della proposta della ditta C.I.P. – Sig.ra G.G., ricadente nell’area relativa al comparto n. 1 della Riserva Naturale Pineta Dannunziana".

La ricorrente ritiene che il quesito surriportato abbia fatto debordare il Comitato dal corretto apprezzamento della fattispecie in quanto quest’ultima presuppone la sanatoria di manufatti esistenti, e non già la realizzazione di nuovi manufatti.

1.3. Si è costituito in giudizio il Comune di Pescara, replicando puntualmente alle censure avversarie.

1.4. Con sentenza n. 1 dd. 9 gennaio 2006 il T.A.R. per l’Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, ha respinto l’impugnativa proposta dalla G..

2.1. Con il ricorso in epigrafe la medesima G. ha pertanto proposto appello avverso tale statuizione, sostanzialmente riproponendo le medesime censure già da lei dedotte nel giudizio di primo grado.

2.2. A sua volta si è costituito pure nella presente sede di giudizio il Comune di Pescara, concludendo per la reiezione dell’impugnativa avversaria.

3. Alla pubblica udienza del 18 gennaio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4.1. Tutto ciò premesso, il ricorso in epigrafe va respinto.

4.2. Come detto innanzi, con il primo motivo di ricorso dedotto in primo grado la G. ha dedotto l’illegittimità dell’autoannullamento del condono edilizio precedentemente assentito in quanto non recante in via contestuale la disposizione di rimborso delle somme già da lei pagate a titolo di oblazione.

Secondo la tesi della ricorrente, pertanto, il condono edilizio, pur configurandosi quale provvedimento amministrativo deputato a inserire in un contesto di legittimità le realità abusivamente realizzate mediante un riscontro al riguardo della sussistenza dei requisiti voluti dalla legge, in realtà sarebbe ormai da riguardare quale provvedimento finalizzato alla monetizzazione di quegli interventi abusivi che non si ha il coraggio di reprimere e, pertanto, di fatto si configurerebbe come atto sinallagmatico e a contenuto comunque oneroso.

A ragione il giudice di primo grado ha respinto tale tesi, rilevando per parte propria che il provvedimento che nega il condono non può essere ricondotto alla violazione di un accordo nel quale vengono in rilievo aspetti di inadempimento di entrambe le parti, ma assume carattere vincolato ed è fondato su aspetti di interesse pubblico che, se violati, impongono all’Amministrazione Comunale un intervento.

In conseguenza di ciò, quindi, l’eventuale omissione da parte dell’Amministrazione Comunale della restituzione contestuale delle somme già pagate a titolo di oblazione non refluisce negativamente sulla legittimità della determinazione di non sanare l’abuso edilizio a suo tempo commesso, potendo – al più – generare soltanto una responsabilità contabile in capo all’Amministrazione medesima con salvaguardia in ogni caso del diritto di chi ha pagato in tutto o in parte l’oblazione alla restituzione della stessa, trattandosi di indebito oggettivo a" sensi dell’art. 2033 cod. civ.

Nel ricorso in appello la ricorrente nulla di nuovo ha sostanzialmente aggiunto alla propria tesi svolta in primo grado, limitandosi a evidenziare che il provvedimento di condono non è, di per sé, atto vincolato ma discrezionale in quanto – anche nella specie – emesso previa istruttoria e con espressa valutazione del pubblico interesse, e che a" sensi dell’art. 151, comma 4, del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 gli atti del Comune sono esecutivi per effetto dell’apposizione del visto di regolarità contabile.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che anche di recente questa stessa Sezione ha ribadito, in totale difformità della tesi sostenuta dalla ricorrente, che il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, con la conseguenza che in ordine al medesimo non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere quali la disparità di trattamento, propri dell’esercizio del potere discrezionale, atteso – altresì – che il rilascio del condono registratosi in analoghi casi di abusi non condonabili, e quindi suscettibili di annullamento giurisdizionale o amministrativo, non può ex se legittimare la fattispecie provvedimentale sub iudice, che resta regolata dall’insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del condono richiesto (cfr. in tal senso la decisione 14 aprile 2010 n. 2105).

Inoltre, risulta altrettanto evidente che l’obbligazione pecuniaria del pagamento dell’oblazione conseguente al provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria si configura come del tutto accessoria e consequenziale rispetto all’atto autoritativo con il quale è stata valutata la conformità dell’intervento edilizio nel contesto delle condizioni normativamente contemplate per l’emissione dell’atto che ne dispone la sanatoria, con la conseguenza che l’eventuale violazione della disciplina contabile non refluisce sulla legittimità del susseguente atto con il quale, nei riguardi del richiedente la sanatoria medesima, è disposto l’annullamento di quest’ultima in via di autotutela: e, per l’appunto, la sussistenza dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ. determina in capo al destinatario del provvedimento di annullamento il consequenziale diritto alla restituzione delle somme da lui pagate sine titulo entro il competente termine prescrizionale.

In conseguenza di ciò, quindi, la tesi della ricorrente sulla pretesa sinallagmaticità del rapporto tra Amministrazione Comunale e richiedente la sanatoria edilizia risulta manifestamente infondata.

4.3. Anche la censura di incompetenza a provvedere sulla domanda di condono è stata rettamente respinta dal giudice di primo grado.

Giova precisare in tal senso che l’autorizzazione paesistica ad eseguire i lavori è stata rilasciata nella vigenza dell’art. 151 del D.L.vo 29 ottobre 1999 n. 490, a quel tempo riproduttivo della disciplina precedentemente contenuta nell’art. 82, commi 1, 2 e 9 del D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 come modificato dal D.L. 27 giugno 1985 n. 312 convertito con modificazioni nella L. 8 agosto 1985 n. 431 e rimasta vigente sino al 31 dicembre 2009 per effetto della sua susseguente recezione nell’art. 159 del D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 42 come sostituito dall’art. 26 del D.l.vo 24 marzo 2006, n. 157, dall’art. 2, comma 1, lettera hh) del D.L.vo 26 marzo 2008 n. 63 e – da ultimo -dall’art. 4quinquies, comma 1 del D.L. 3 giugno 2008 n. 97 convertito con modificazioni in L. 3 agosto 2009 n. 102.

Il Settore Pianificazione Urbana del Comune di Pescara ha conseguentemente emesso l’autorizzazione ambientale a" sensi della subdelega disposta per effetto dell’art. 1, comma 2, della L.R. 13 febbraio 2003 n. 2 come modificato dall’art. 1 della L.R. 15 dicembre 2004 n. 49 – e, peraltro, già operante nell’ordinamento regionale per effetto dell’art. 1 della L.R. 3 luglio 1996 n. 47 – trasmettendo tale provvedimento alla Regione Abruzzo e alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per l’Abruzzo, la quale ultima non ha esercitato al riguardo il potere di annullamento previsto dagli anzidetti art. 151 del D.L.vo 490 del 1999 e dall’art. 159 del D.L.vo 42 del 2004.

Per quanto attiene al potere di annullamento in sede di autotutela, risulta altrettanto evidente che, nel sopradescritto regime normativo, l’Amministrazione Comunale ben poteva esercitare il potere medesimo in ordine alle autorizzazioni da essa emesse e già divenute efficaci in quanto non annullate dalla Soprintendenza: e ciò, dunque, senza reinvestire quest’ultima di qualsivoglia ulteriore decisione al riguardo, posto che la disciplina legislativa di delega e di subdelega non recavano alcuna disposizione nel senso voluto dall’appellante.

Corretta è pertanto la notazione del giudice di primo grado secondo cui il potere di annullare il nullaosta appartiene – anche in questo caso, e in conformità alla regola generale recepita dopo i fatti di causa dall’art. 21nonies, comma 1, della L. 7 agosto 1990 n. 241 come inserito dall’art. 14, comma 1, della L. 11 febbraio 2005 n. 15 – allo stesso organo che lo ha emanato

Né può essere accolta la prospettazione dell’appellante secondo cui l’atto di autoannullamento dell’autorizzazione ambientale sarebbe stato comunque nella specie emesso da un organo incompetente a provvedere al riguardo, ossia il Settore dell’Edilizia Privata, e non già dall’organo che aveva in precedenza adottato l’autorizzazione di cui trattasi, e cioè il Settore della Pianificazione Urbana del medesimo Comune: e ciò in quanto a quel tempo non risultava ancora codificato nell’ordinamento il principio della differenziazione tra differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanisticoedilizia, esplicitamente introdotto soltanto per effetto dell’art. 146, comma 1, del D.L.vo 42 del 2004 come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 2, comma 1, lettera s) del D.L.vo 26 marzo 2008 n. 63 e con effetto dall’1 gennaio 2010.

4.4. Né è possibile sostenere che il provvedimento impugnato abbia assunto come vizio di illegittimità una carenza istruttoria.

Come a ragione ha evidenziato il giudice di primo grado, la ragione assunta a fondamento della disposta autotutela non va identificata in una semplice carenza istruttoria, ma nell’omessa valutazione del vincolo esistente e, quindi, nella necessità di provvedere alla valutazione medesima; ovvero – e ancora, in altre parole – proprio a quell’attività che la stessa ricorrente, già nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, aveva riconosciuto come possibile laddove aveva affermato che "in caso di difetto di istruttoria si potrebbe, a una più, compiere nuova istruttoria per dedurne una accertata violazione di legge".

Sempre secondo la corretta affermazione del giudice di primo grado, per poter procedere a tale valutazione era necessario certamente che si impedisse che il provvedimento di condono potesse svolgere completamente i suoi effetti: e ciò è, per l’appunto, avvenuto.

Più in dettaglio, la ricorrente afferma che a supporto dell’autorizzazione paesistica autoannullata era stato introdotto nella relativa motivazione un richiamo al parere reso al riguardo dalla Commissione di professionisti incaricata dalla stessa Amministrazione Comunale e nel quale si afferma che le opere di cui trattasi non arrecherebbero pregiudizio alla conservazione delle caratteristiche dei luoghi resi oggetto di vincolo.

Sempre secondo la ricorrente, non sussisterebbe nella specie alcun contrasto con le esigenze di tutela affermate dalla L.R. 96 del 2000, essendo anzi il galoppatoio e le relative attrezzature pienamente coerenti con il parco e trattandosi – anzi – di attrezzature preesistenti alla legge medesima e in ordine alle quali la legge stessa e la conseguente disciplina attuato iva non contemplerebbero l’eliminazione.

La ricorrente rimarca pure che il Piano di assetto naturalistico della Pineta D’Annunziana non prevede a sua volta la demolizione di manufatti ma la riqualificazione e la ristrutturazione dell’esistente, e che la variante al P.R.G. del Comune di Pescara approvata il 13 dicembre 2004 destina l’area in questione, inserita in zona C, a verde con attrezzature sportive, con ciò modificando la precedente destinazione a verde pubblico contemplata nella previgente disciplina urbanistica.

Il giudice di primo grado ha già affrontato l’insieme di tali rilievi evidenziando – a sua volta – che secondo il parere espresso dalla predetta Commissione di professionisti incaricata dal Comune le opere abusive per le quali era stato chiesto il condono ricadevano in un’area urbanizzata, ove erano venuti meno i valori e ambientali originali e che nella motivazione del provvedimento in autotutela si osserva che tale considerazione confligge peraltro con il fine complessivamente perseguito dalla L.R. 96 del 2000.

Inoltre – prosegue sempre il ragionamento del giudice di primo grado – se, in effetti, nel piano naturalistico sono regolarmente indicate le opere esistenti e non se ne prevede affatto l’eliminazione, allo stesso tempo va comunque evidenziato che le eventuali opere considerate nell’istituzione della riserva non possono che identificare quelle che sono state legittimamente assentite e non già opere abusive, dimodochè la stessa circostanza dell’avvenuta istituzione della riserva avrebbe dovuto impedire il rilascio del titolo edilizio in sanatoria: e, se è vero che l’art. 33 della L. 47 del 1985 di per sè prevede che eventuali vincoli dovevano essere stati imposti prima dell’esecuzione delle opere e che all’epoca della realizzazione delle opere medesime la riserva non era stata ancora istituita, era comunque già previsto nello strumento urbanistico all’epoca vigente un vincolo di inedificabilità assoluta, dato che l’area in questione era da esso destinata a verde pubblico ed insisteva comunque in una zona a protezione ambientale.

D’altra parte, sempre secondo il giudice di primo grado, l’ulteriore affermazione della ricorrente secondo cui per effetto della variante del 2004 l’area è stata destinata a verde con attrezzature sportive non è comunque sufficiente a giustificare il condono: pur prescindendo, infatti, dalla circostanza che, al momento della concessione in sanatoria, la variante stessa non era stata ancora introdotta, per lo stesso è del tutto ipotetico stabilire che le opere in questione, in quanto connesse ad un galoppatoio, siano per se stanti compatibili con la riserva.

La locuzione "connesse" – rimarca ancora il T.A.R. – è, invero, del tutto insuscettibile di individuare quali opere siano concretamente compatibili con le previsioni oggi in vigore e fissate dall’istituzione della riserva, trattandosi – a ben vedere -di stabilire se le stesse siano effettivamente attrezzature sportive o se consistano in opera diverse e rilevanti agli effetti della protezione prevista; e, in tal senso, sempre ad avviso del primo giudice. la ricorrente si limiterebbe, in buona sostanza, ad enunciare in via del tutto apodittica che si tratta di opere compatibili in quanto connesse ad un galoppatoio e, quindi, di carattere sportivo cosi come prevedono le norme di piano; dal che discende, pertanto, la conclusione dello stesso T.A.R. per cui, in relazione alla disciplina introdotta per effetto dell’istituzione della riserva, va comunque acclarato se le opere siano in concreto compatibili con il vincolo e che, se così è, sussisteva un evidente difetto di istruttoria sia nell’autorizzazione paesistica, sia nel titolo edilizio poi annullati in via di autotutela.

Questo giudice – a sua volta – condivide pienamente le testè riassunte notazioni del T.A.R., evidenziando a sua volta che, come correttamente rappresentato dalla difesa del Comune, nell’istruttoria che aveva portato all’adozione dell’autorizzazione paesistica e al rilascio del titolo edilizio in sanatoria era stata – altresì – omessa l’acquisizione sia dello studio di compatibilità ambientale contemplato dagli artt. 8 e 49 delle N.T.C. del Piano Regionale Paesistico, sia del parere del Comitato di Gestione della Riserva da rendersi a" sensi dell’art. 32, comma 1, della L. 47 del 1985 e che, diversamente da quanto prospettato al riguardo dalla ricorrente, l’istruttoria non doveva essere completata ex post, stante la ben palese difformità delle realizzazioni rispetto alla disciplina vigente e pregressa.

Decisiva risulta infatti la constatazione che le opere in questione erano, comunque, ab origine difformi dalla disciplina di piano antecedente all’istituzione della Riserva, e non già sanate dalla disciplina di variante allo strumento urbanistico e da quella contenuta nel Piano di Assetto Naturalistico della Riserva medesima, in quanto entrambe successive al rilascio del provvedimento di condono, in disparte restando – altresì – l’ulteriore constatazione che le opere medesime, nel loro assieme, possono invero per ampia parte sembrare nominalisticamente "connesse" al galoppatoio laddove si contempla la realizzazione di un box per cavalli, di un lavatoio, di una rimessa attrezzi e di una selleria; ma laddove si prevede pure la costruzione di palchi, gradinate, di club house e "altri locali" all’evidenza si prefigura una sostanziale trasformazione dell’attività del preesistente maneggio, allo stato coerente nelle proprie dimensioni con l’assetto salvaguardato dal vincolo, con un’attivitàdi ben maggiore impatto e che si colloca, pertanto, rispetto al vincolo medesimo in termini perlomeno problematici.

4.5. Anche il quarto motivo di impugnazione va respinto.

Lo stesso, come puntualmente colto dallo stesso T.A.R. nella trattazione del corrispondente motivo di ricorso in primo grado, attiene alla valutazione del bilanciamento tra interesse pubblico e privato e sarebbe perciò irrilevante ancorché fondato e sufficiente a giustificare l’interesse all’annullamento perché, anche ove tale valutazione sia stata pretermessa, l’assoluta inedificabilità della zona, allo stato, prima di un compiuto accertamento da parte dell’Amministrazione Comunale, renderebbe di per sé impossibile un annullamento del provvedimento di autotutela sotto il profilo della mancata valutazione dell’interesse del privato: ma, in ogni caso, pur considerando che – in effetti – è stata espressa una valutazione alquanto evanescente su quale sia l’interesse della ricorrente che certamente appare giustificato e non contrastato dalle osservazioni contenute nel provvedimento, è altresì vero che risultano pienamente giustificate le ragioni di interesse pubblico che presiedono all’annullamento dell’autorizzazione paesistica e del condono edilizio conseguentemente rilasciato, posto che l’interesse pubblico va nella specie riconosciuto in ordine alla tutela di un bene che presenta interessi non soltanto ambientali ma anche storicoletterari, e che l’Amministrazione Comunale, in dipendenza di ciò, non solo ha correttamente affermato la necessità del ripristino di tali valori, ma ha anche l’esigenza della completa fruizione del bene da parte della collettività.

La ricorrente, sia nel corso del giudizio di primo grado che nella presente sede di appello, ha ancora una volta rimarcato – per parte propria – che nella disciplina di vincolo non è prevista la demolizione ma la ristrutturazione ed il risanamento dell’esistente e che, comunque, la fruizione dei cittadini non potrebbe avvenire direttamente, trattandosi di proprietà privata e non essendo ancora previste o progettate nel sedime per cui è causa opere pubbliche, ovvero di pubblico interesse.

Correttamente il giudice di primo grado ha evidenziato, a sua volta, che tali affermazioni possono essere agevolmente contraddette, posto che la stessa ricorrente riconosce che le opere necessarie non si limitano ad una mera ristrutturazione ma all’ultimazione di opere abusivamente realizzate e che neppure viene data concreta dimostrazione che, anche con riferimento a quanto già evidenziato al Par. 4.4. si tratti di opere esclusivamente sportive.

Sempre secondo il giudice di primo grado, è evidente che al fine della libera fruizione dell’area da parte della collettività dovranno intervenire degli espropri, e che – per l’appunto – tale evenienza verrebbe di fatto vanificata laddove si consentisse definitivamente all’interessata di ottenere una sanatoria prima di accertare se le opere da completare permetterebbero o meno una simile fruizione, con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, risulta giustificato l’intervento diretto all’annullamento dell’atto di sanatoria.

Né va sottaciuto che a conforto della propria tesi la ricorrente aveva pure affermato, nel corso del giudizio di primo grado, che a" sensi dell’art. 1bis della L. 241 del 1990, così come introdotto per effetto dell’art. 1 della L. 11 febbraio 2005 n. 15 e successivamente modificato dall’art. 7, comma 1, lett. a), della L. 18 giugno 2009 n. 69 "la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente", e che tale assunto andrebbe interpretato nel senso che negli atti di pianificazione l’Amministrazione Comunale dovrebbe seguire regole di diritto privato in quanto necessiterebbe perseguire il miglior risultato con la minima spesa, ossia la fruizione del parco a mezzo di iniziative private.

Questo giudice, a sua volta, non può che concordare con quanto già evidenziato nella sentenza di primo grado: anche ammesso, quindi, che l’assunto della ricorrente sia compatibile con l’autentico significato della disposizione da lei interpretata, la ricorrente invero non comprova che, ove fosse a lei rilasciata la sanatoria delle opere abusive, sarebbe pure assicurato il godimento delle medesime all’intera comunità e non ai soli soci dell’ivi esplicitamente previsto club house ippico.

Concludendo sul punto, va da ultimo soggiunto che la medesima ricorrente ha pure dedotto nel medesimo ordine di motivi di impugnazione l’avvenuta violazione dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 e successive modifiche, senza peraltro concretamente descrivere i vizi del procedimento da lei censurati.

4.6. Nel quinto ordine di censure la ricorrente deduce eccesso di potere, erronea applicazione dell’art. 21nonies della L. 241 del 1990 e delle norme sul condono edilizio, in quanto pretestuosamente ci si riferirebbe ad un ritardo della presentazione della richiesta per un modesta parte del terreno di soli 251 mq che sarebbero, semmai, i soli a non poter essere condonati.

A tale riguardo il giudice di primo grado aveva evidenziato che, a tale riguardo, "riemerge come del tutto corretta la preposizione giustificativa della necessità istruttoria, perché, anche in questo caso, si dovrebbe accertare in quali limiti questi 251 mq incidano rispetto alla sanatoria anche se di estensione minima come sostiene la ricorrente", non omettendo – altresì – di denotare "che tale pretestuosità non avrebbe alcun effetto rispetto alla restante parte del provvedimento che, per il principio della sufficienza della motivazione, sarebbe del tutto giustificato dalle altre preposizioni di annullamento".

La ricorrente, a sua volta, afferma nella propria impugnazione della sentenza di primo grado che, in realtà, non avrebbe potuto costituire motivo di annullamento del titolo edilizio rilasciato in sanatoria il mero riscontro della sua illegittimità sulla base di una domanda presentata oltre il termine contemplato dalla L. 47 del 1985 per quanto segnatamente attiene a superfici limitate rispetto al totale.

Questo Collegio, a sua volta, evidenzia che il termine per la presentazione della domanda di condono di cui all’art. 31 e ss. della L. 47 del 1985, inizialmente fissato dall’art. 35 della medesima L. 47 del 1985 alla data del 30 novembre 1985 e poi da ultimo confermato nella sua scadenza alla data del 30 giugno 1987 per effetto dell’art. 1 del D.L. 12 gennaio 1988 n. 2 convertito con modificazioni in L. 13 marzo 1988 n. 68, assumeva – all’evidenza – carattere perentorio, in alcun modo prorogato per effetto dell’art. 39 della L. 23 dicembre 1994 n. 724 e successive modifiche, ovvero dall’art. 2, commi 37 e 38 della L. 23 dicembre 1996 n. 662 e dall’art. 32 del D.L. 30 dicembre 2003 n. 269 convertito con modificazioni in L. 24 novembre 2003 n. 326, essendo queste ultime discipline recanti la fissazione di termini per la presentazione di nuove domande di sanatoria edilizia.

Semmai, tutto ciò induce a confermare l’esattezza della notazione del giudice di primo grado secondo la quale anche l’omessa valutazione di tale particolare profilo nel provvedimento di condono e della conseguente sua incidenza sulla totalità della sanatoria assentita avvalora ulteriormente la sussistenza del difetto di istruttoria per cui è stato disposto l’annullamento in sede di autotutela.

4.7. Anche la censura contenuta nel sesto motivo di ricorso in appello non è fondata.

Secondo la prospettazione della ricorrente la sentenza impugnata recherebbe un’erronea applicazione della disciplina dettata in tema di condono edilizio e traviserebbe i fatti, in quanto non sarebbe vero che i manufatti e l’area su cui insistono verserebbero in stato di fatiscenza e di abbandono e che non sarebbero funzionali ad alcuna esigenza.

A tale proposito nella sentenza impugnata si legge "che la stessa ricorrente riconosce che la concessione consentirebbe non la immediata fruizione dei beni ma la sola ultimazione a rustico, ove la rilevata fatiscenza si dimostri fondata", dimodochè "è evidente che non vi è alcun interesse ad ottenere un condono rispetto a beni che non sarebbe possibile allo stato utilizzare, non esistendo alcuna esigenza di carattere abitativo, commerciale od altro. Ciò dimostra una volontà sottesa nella ricorrente di ottenere un condono non per ristrutturare alcune modeste opere di carattere sportivo ma una sanatoria generalizzata di strutture suscettibili di diversa destinazione urbanistica. E’ quest’ultima che deve ottenere una precisa indicazione e questo è sufficiente a dimostrare che l’intervento del Comune, che è evidentemente preordinato a stabilire una concreta compatibilità delle opere sia con la pineta, che con la riserva, che con la stessa zona marittima nei pressi della quale il tutto insiste, è pienamente giustificato. Né sembra possibile rilevare dall’atto del Comune una volontà distruttiva di opere esistenti sin dal 1939, la cui elencazione, invece, dimostra proprio come il complesso stesso delle opere è tutt" altro che irrilevante e contrasti con l’asserita volontà della legge regionale di destinare ad una vera e propria riqualificazione, con l’impedire nuove consistenti strutture, tutto l’ambito della pineta dannunziana".

La ricorrente a sua volta reputa, nel proprio atto di appello, che il provvedimento di annullamento del condono si fonderebbe, in via del tutto erronea, sul presupposto della non immediata fruibilità dei manufatti e che nella sentenza impugnata si ipotizzerebbe, senza comprova di sorta, una volontà di ristrutturazione dei manufatti per adibirli ad altri scopi in alcun modo manifestata, né comunque comprovabile.

Questo giudice evidenzia, per parte propria, che la circostanza dell’asserita non immediata fruibilità dei manufatti condonati non si configura in senso stretto quale presupposto dell’annullamento in autotutela, il quale – semmai – trova il proprio fondamento precipuo nella dianzi illustrata carenza di istruttoria e nella sussistenza di prevalenti ragioni di pubblico interesse deputate a garantire la fruizione pubblica dell’area, cui si aggiunge pure la considerazione dello stato di degrado del sito.

Per quanto poi attiene all’intendimento della ricorrente di adibire i manufatti a scopi diversi rispetto alla pubblica fruizione dell’area, si rinvia a quanto già evidenziato nel Par. 4.4. della presente sentenza: la costruzione di palchi, gradinate, di club house e "altri locali" all’evidenza viene a configurarsi quale sostanziale trasformazione dell’attività del preesistente maneggio in modo difforme con l’assetto salvaguardato dal vincolo.

4.8. Con il settimo motivo di impugnazione l’appellante solleva in subordine la questione di illegittimità costituzionale della L.R. 96 del 2000 per contrasto con la normativa europea in materia e per violazione dell’art. 81 Cost. in quanto non recante l’individuazione dei mezzi finanziari con cui far fronte agli adempimenti connessi all’istituzione della Riserva, con conseguente invalidità di provvedimenti attuativi della legge regionale medesima.

La questione stessa era stata già sollevata dalla ricorrente medesima nel corso del giudizio di primo grado, e a tale riguardo il T.A.R. aveva affermato che "la mancata previsione della spesa… che concreterebbe in tal modo un fondato sospetto di illegittimità costituzionale, allo stato non sussiste, in quanto al momento dell’annullamento dell’atto di condono non erano ancora scaduti i termini per i vincoli imposti con la legge istitutiva della riserva, ma posto che essi siano scaduti, la zona sarebbe allora priva di destinazione urbanistica, tuttavia pur sempre in area ambientale protetta e potrebbe trovare una nuova previsione di spesa nella istituzione di nuovi vincoli, nella cui sola eventuale mancanza, la ricorrente potrebbe attivare i mezzi offerti dall’ordinamento per ottenere il soddisfacimento dei suoi eventuali interessi. La previsione della spesa è indispensabile solo quando la legge è priva di un adeguata copertura finanziaria ma per esborsi che siano indispensabili e connaturati allo stesso provvedimento in modo immediato e diretto e non solo come mera previsione futura. La pretesa illegittimità costituzionale della legge istitutiva della riserva per mancanza di mezzi finanziari non è pertanto fondata".

Il Collegio, per parte propria, concorda con tali assunti.

La prospettazione di incostituzionalità è stata sviluppata dalla ricorrente con riferimento all’art. 81 Cost. in quanto la disciplina legislativa regionale non solo non risulterebbe sostenuta da un reale supporto finanziario, ma in quanto, con riferimento all’art. 42 Cost., non recherebbe termini di scadenza per i vincoli da essa imposti.

Correttamente nella sentenza appellata è stato affermato, per quanto segnatamente attiene all’asserita mancanza di sostegno finanziario, che la previsione di spesa è necessaria soltanto nell’esigenza di esborsi indispensabili e connaturati in modo immediato e diretto ad una determinazione puntuale del legislatore, non ravvisabile per certo nell’ipotesi di una legge istitutiva di una riserva naturale, ex se abbisognevole di provvedimenti applicativi di rango normativo subordinato.

Per quanto attiene invece alla scadenza dei vincoli, il giudice di primo grado ha evidenziato che essi non erano scaduti all’epoca dell’emanazione degli atti di annullamento del condono e della presupposta autorizzazione paesistica, e che lo stesso ambito di tutela in cui le opere ricadono postula – all’evidenza – l’imposizione di vincoli di carattere paesistico.

Tali vincoli, denota a sua volta questo giudice, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità ambientali indicate dalla legge, costituiscono una categoria originariamente di interesse pubblico, la cui disciplina è estranea alla materia dell’espropriazione e relativi indennizzi di cui all’art. 42, comma 3, Cost. anche per quanto segnatamente attiene al regime di scadenza, rientrando invece a pieno titolo in quella del comma 2 dello stesso art. 42, che affida alla legge la disciplina dei modi di godimento della proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (Corte cost. 20 maggio 1999 n. 179, 23 luglio 1997 n. 262 e 28 luglio 1995 n. 417; Cass. civ., SS.UU.,19 novembre 1998, n. 11713; Cons. Stato, Sez. IV, 8 giugno 2000 n. 3214 e 5 ottobre 1995 n. 781).

Concludendo sul punto va pure evidenziato che il parametro dell’ordinamento europeo viene evocato dalla ricorrente laddove afferma che "atti di pianificazione di singole parti del territorio operati con leggi regionali si traducono… in un chiaro sviamento di potere legislativo sottraendo atti sostanzialmente amministrativi al controllo giurisdizionale imposto dall’art. 113 Cost. e dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 848" (cfr. pag. 20 dell’atto introduttivo del presente giudizio di appello): assunto, questo, all’evidenza infondato proprio poiché la parte medesima ha ben potuto dedurre con compiutezza le proprie censure di costituzionalità avverso la stessa legge istitutiva della riserva senza alcuna compromissione del proprio diritto di difesa affermato dall’art. 24 Cost.; e il fatto che le censure stesse siano state ritenute dal giudice di primo e di secondo grado manifestamente infondate a" sensi dell’art. 24 della L. 11 marzo 1953 n. 87 non significa per certo che le prerogative processuali dell’attuale ricorrente siano state lese.

4.9. Da ultimo, la ricorrente ha dedotto un’ultima censura laddove ha affermato che il giudice di primo grado non ha annullato i provvedimenti emessi in pretesa autotutela da parte dell’Amministrazione Comunale per incompetenza ed erronea composizione del Comitato di Gestione della Riserva della Pineta Dannunziana, nonché per eccesso di potere.

La ricorrente afferma in tal senso che il Comitato medesimo, asseritamente presieduto da un rappresentante politico inidoneo a esprimere pareri in materia di gestione edilizia, avrebbe dato risposta ad un quesito reputato dalla stessa difesa della G. fuorviante e così formulato: "se esista la possibilità di realizzare manufatti all’interno della Riserva naturale Pineta Dannunziana, e nella fattispecie chiede l’esame della proposta della ditta C.I.P. – Sig.ra G.G., ricadente nell’area relativa al comparto n. 1 della Riserva Naturale Pineta Dannunziana".

Il Collegio, per parte propria, evidenzia in primo luogo che non è dato di comprendere il motivo per cui il Comitato di Gestione della Riserva Dannunziana non debba essere composto di persone nominate anche in rappresentanza delle amministrazioni locali con procedimento di secondo grado e che, unitamente a altri componenti dell’organo di estrazione tecnica, sono dunque deputati a svolgere collegialmente funzioni in ordine alle quali l’asserita mancanza di cognizioni tecniche da parte dei membri di estrazione "politica" risulterebbe nondimeno condizionante per il voto espresso da tutti i componenti dell’organo collegiale.

Ne, comunque, il surriportato quesito può reputarsi fuoviante, posto che – come ha riconosciuto la stessa ricorrente nel proprio atto d’appello – nell’oggetto del verbale era chiaramente indicato che trattavasi di "parere concessione edilizia a sanatoria" (cfr. ivi, pag. 23)e che, pertanto, l’affermazione dell’organo collegiale circa l’impossibilità "di realizzare manufatti all’interno della Riserva naturale Pineta Dannunziana" da parte "della ditta C.I.P. – Sig.ra G.G., ricadente nell’area relativa al comparto n. 1 della Riserva Naturale Pineta Dannunziana" non può che riferirsi alla domanda di sanatoria inoltrata da quest’ultima.

Il Comitato ha letteralmente espresso il proprio "parere negativo poiché" quanto richiesto dalla G. risultava "in contrasto con le norme ed i criteri stabiliti dal vigente Piano di Assetto Naturalistico", stante il fatto che – come sin qui evidenziato – la disciplina contenuta nel Piano stesso non consente, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la conservazione dei manufatti esistenti.

5. Il ricorso in espigrafe va pertanto respinto, con conseguente integrale conferma della sentenza resa in primo grado tra le stesse parti.

Le spese e gli onorari del giudizio di appello possono essere peraltro integralmente compensate tra le parti, confermando peraltro a carico della ricorrente il pagamento del contributo di cui all’art. 9 e ss. del D.L.vo 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio, confermando a carico della ricorrente il pagamento del contributo di cui all’art. 9 e ss. del D.L.vo 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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