Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15-04-2011, n. 8772 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte:

Rilevato che:

1. la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la sentenza di prime cure che aveva dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 20 ottobre 1998 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con C.R.;

2. per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso; il lavoratore è rimasto intimato;

3. col primo motivo di censura la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 112 cod. proc. civ. nonchè vizio di motivazione in relazione al mancata considerazione della circostanza, dedotta nel ricorso introduttivo del giudizio di appello, che, successivamente alla sentenza di primo grado, il C. era stato licenziato e che tale licenziamento non era stato impugnato nel termine di legge;

la censura è inammissibile per difetto d’interesse; secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 23 maggio 2008 n. 13373; in argomento cfr., altresì, Cass. SSUU. 21 giugno 2010 n. 14889) l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire – sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’ari. 100 cod. proc. civ. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere nell’interesse alla soluzione di una questione giuridica priva di riflessi sulla decisione adottata; nel caso di specie, l’oggetto della controversia è costituito, come si evince dalla sentenza impugnata, dalla legittimità o meno del termine apposto al contratto stipulato tra le parti con decorrenza dal 20 ottobre 1998 e dalle conseguenze derivanti dall’eventuale accertamento dell’illegittimità del suddetto termine; rispetto a tale petitum la circostanza del sopravvenuto licenziamento del lavoratore (in data 14 aprile 2004, secondo quanto allegato in ricorso) è del tutto inconferente atteso che essa, contrariamente a quanto allegato nel motivo di ricorso, non determina la cessazione della materia del contendere la quale (cfr., ad esempio, Cass. 22 settembre 1999 n. 10269) è infatti ravvisabile solo a fronte di fatti che esauriscano oggettivamente e definitivamente il tema del dibattito, elidendo l’interesse alla prosecuzione della causa;

4. col secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375, 2697, 1427, 1431 cod. civ., dell’art. 100 cod. proc. civ. e vizio di motivazione con riferimento alla statuizione della sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso;

la censura è infondata;

secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e dì eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, stante la sua durata, e in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso;

5. col terzo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dell’art. 1362 c.c. e segg. nonchè vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta illegittimità del termine;

anche tale censura è infondata; osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo, tra l’altro, alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998;

tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo;

al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (cfr. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063;

cfr. altresì Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (cfr., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378); in tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866); in particolare, quindi, come questa Corte ha univocamente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza dei presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti in contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 gennaio 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.);

6. col quarto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 1453, 1460, 2094, 2099, 2043, 2697 cod civ. e art. 91 cod. proc. civ. nonchè vizio di motivazione con riferimento a due distinti profili:

a) le conseguenze patrimoniali derivanti dalla declaratoria di illegittimità del termine; b) la condanna alle spese del giudizio di appello;

7. quanto al primo dei suddetti profili osserva il Collegio che, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, si pone il problema dell’applicabilità alla fattispecie in esame dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.;

in proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; in particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, e che gli stessi siano ammissibili; l’inammissibilità delle censure produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze;

nel caso di specie la censura è inammissibile;

ed infatti, premesso che la Corte territoriale ha esplicitamente individuato l’atto col quale il lavoratore ha offerto la propria prestazione determinando così, a carico del prestatore di lavoro, una situazione di mora accipiendi, la censura deve essere considerata inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non essendo stato riprodotto nel ricorso il testo del suddetto documento, del quale viene contestata l’idoneità a costituire atto di costituzione in mora (cfr., ad esempio, Cass. 10 agosto 2004 n. 15412); sotto altro profilo è inammissibile in quanto del tutto generica e priva di autosufficienza anche la censura relativa all’aliunde perceptum; ed infatti la società ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum, in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione dell’allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato (cfr. Cass. 16 maggio 2005 n. 10155, Cass. 20 maggio 2006 n. 14131, Cass. 10 agosto 2007 n. 17606, Cass. S.U. 3 febbraio 1998 n. 1099);

8. è invece fondata la censura concernente la condanna alle spese del giudizio di appello atteso che, come si evince chiaramente dalla sentenza impugnata, il lavoratore non era costituito nel suddetto giudizio e non aveva svolto alcuna attività processuale;

9. la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente all’accoglimento della suddetta censura; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto sussistono i presupposti di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, per decidere la causa nel merito e per l’effetto dichiarare non dovute le spese del giudizio d’appello;

10. tenuto conto dell’esito della controversia e del fatto che nel giudizio di cassazione il lavoratore è rimasto intimato e non ha svolto alcuna attività processuale, nulla deve essere statuito in relazione alle spese di questo giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie l’ultimo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e decidendo nel merito dichiara non dovute le spese del giudizio di appello; nulla spese per il giudizio di cassazione.

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