Cass. civ. Sez. I, Sent., 15-04-2011, n. 8753 Società di fatto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Venezia dichiarò, con sentenza del 16 ottobre 1997, il fallimento del sig. C.C. quale gestore di una "cassa peota" denominata Cassa Peota Popolare di Caltana. Con successiva sentenza del 9 aprile 1999 estese il fallimento, su istanza del curatore ai sensi della L. Fall., art. 147, ai figli del fallito An. e A., nonchè al genero B.E., quali soci di fatto.

Con citazione notificata al curatore, Ca.An. propose quindi opposizione, chiedendo revocarsi il fallimento della società e comunque il suo personale.

Il Tribunale dispose che il contraddittorio fosse esteso ai creditori istanti dell’originario fallimento. L’integrazione fu quindi eseguita nei confronti del Comitato dei soci creditori della Cassa peota popolare di Caltana e dei componenti di esso sigg. C. M., N.G., R.A., V.L. e M.R., i quali resistettero in giudizio.

L’opposizione fu infine respinta dal Tribunale.

La Corte d’appello di Venezia respinse poi il gravame del soccombente, cui avevano resistito gli avellati. Osservò (per quanto ancora rileva):

che, quanto alla qualità dell’alienante di socio occulto del padre, l’acquisizione da parte di C.C., con denaro della Cassa, dell’azienda agricola poi intestata all’appellante; il libero accesso di quest’ultimo ai fondi disponibili sui conti e depositi della Cassa; il riconosciuto, frequente coinvolgimento del medesimo in atti di gestione della Cassa; la commistione del patrimonio della Cassa con quello dell’impresa agricola a lui formalmente intestata e da lui condotta; tutto ciò dimostrava l’esistenza di una società di fatto avente ad oggetto l’esercizio di un complesso di attività economiche finanziate con le disponibilità della Cassa;

che la società era soggetta a fallimento e non a liquidazione coatta amministrativa, non prevista per le c.d. banche di fatto ma solo per le imprese qualificabili come banche ai sensi del R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 1, lett. b), (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385) per essere titolari di debita autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria;

che, infine, neppure poteva dirsi decorso il termine annuale di cui alla L. Fall., art. 10 per essere la dichiarazione del fallimento dell’appellante sopraggiunta oltre un anno dopo l’originaria dichiarazione del fallimento di C.C. e perciò della cessazione dell’impresa: infatti il termine annuale in discorso non decorre, per il socio occulto receduto, dalla data del recesso, ma soltanto dalla data in cui quest’ultimo sia stato reso noto ai terzi con mezzi idonei; nè, tantomeno, decorre dalla data della dichiarazione del fallimento della società, dato che il fallimento non comporta lo scioglimento della medesima; e del resto nella specie l’appellante non aveva neppure dedotto in giudizio il proprio recesso, avendo negato la stessa esistenza della società.

Ca.An. ha quindi proposto ricorso per cassazione per quattro motivi, cui ha resistito con controricorso il curatore del fallimento.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione del R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 80 t.u.b. e vizio di motivazione, si ripropone la questione dell’assoggettabilità della c.d. banca di fatto a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

Se, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto esercente la stessa impresa, una volta dichiarato il fallimento della società e di altri soci non è più possibile per questi ultimi contestare la sussistenza dei presupposti di fallibilità dell’imprenditore individuale, dovendo tale contestazione essere sollevata con l’opposizione alla prima dichiarazione di fallimento, alla quale i soci di fatto sono legittimati come controinteressati; onde, una volta dichiarato il fallimento in estensione L. Fall., ex art. 147, la contestazione può riguardare solo la sussistenza della società di fatto e la qualità di socio del convenuto in estensione, essendo i restanti profili coperti da giudicato (cfr. Cass. 16594/2008, 1632/1982).

2. – Con il secondo motivo si denuncia insufficienza della motivazione in ordine al compimento, da parte del sig. Ca.

A., di atti comportanti l’acquisto della qualità di socio.

Motivazione incentrata dalla Corte d’appello sulla commistione patrimoniale, mentre invece, ad avviso del ricorrente, i fatti da provare – e nella specie, invece, smentiti dalle risultanze processuali – sono, secondo la giurisprudenza consolidata, l’elemento oggettivo della società di fatto, costituito dal conferimento di beni o servizi con formazione di un fondo comune e partecipazione degli autori dei conferimenti ai guadagni e alle perdite, e l’elemento soggettivo dell’affectio societatis.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

Esso è rubricato "insufficiente motivazione in merito a un punto decisivo della controversia"; il che significa che si intende dedurre il tipo di vizio previsto all’art. 360 c.p.c., n. 5, comma 1.

Il vizio di motivazione ai sensi del n. 5, cit., attiene però alla motivazione in fatto e richiede, quindi, la chiara indicazione di uno specifico fatto controverso (art. 366 bis c.p.c., comma 2, qui applicabile ratione temporis) che si deduca essere stato scorrettamente accertato dal giudice di merito.

Nella specie, tale indicazione manca. L’oggetto dell’insufficiente motivazione sarebbe, secondo quanto si legge nella rubrica del motivo in esame, il "compimento, da parte del signor Ca.An., di atti che abbiano comportato l’acquisto della qualità di socio".

Il che non costituisce certo indicazione dì un fatto specifico, ma solo il generico rinvio a fatti la cui individuazione implica la preliminare soluzione di una questione di diritto: quali siano, cioè, gli atti comportanti l’acquisto della qualità di socio. Nè costituisce indicazione di un fatto la generica richiesta, che il ricorrente rivolge a questa Corte a mò di sintesi finale del motivo, di considerare inidonea la motivazione fornita dai giudici di appello (e richiamata sopra in narrativa) sul riconoscimento della qualità di socio in capo al ricorrente stesso.

In realtà il ricorrente non critica l’accertamento di uno specifico fatto da parte dei giudici di merito; piuttosto ritiene che per qualificare un soggetto socio di fatto di un imprenditore siano necessari presupposti oggettivi e soggettivi diversi da quelli che la Corte d’appello ha considerato. La sua censura, allora, non è una censura in punto di fatto, bensì una censura in punto di diritto, che dunque andava dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, e corredata del quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., comma 1.

Quesito di cui, però, il ricorso è privo.

3. – Con il terzo motivo si denuncia "omessa motivazione in merito a un punto decisivo della controversia, ossia sull’inesistenza, in capo al signor Ca.An., della qualità di socio illimitatamente responsabile". Si fa presente che nel giudizio di merito era stata eccepito che, anche a voler considerare Ca.

A. socio di fatto del padre, restava comunque da accertare se il medesimo fosse socio illimitatamente responsabile, considerato sia che le casse peote vengono comunemente qualificate società cooperative, dunque con soci non illimitatamente responsabili, sia che il dominus e gestore unico dell’impresa bancaria era C. C., da qualificare perciò accomandatario di una società in accomandita di fatto nella quale i suoi pretesi soci erano meri accomandanti.

3.1. – Il motivo è inammissibile per ragioni analoghe a quelle indicate per il precedente.

Anche qui, infatti, pur dichiarandosi di formulare una censura di vizio di motivazione, si omette poi la chiara indicazione del relativo fatto controverso (tale non essendo, all’evidenza, la qualità di socio illimitatamente responsabile, che è qualificazione giuridica, non punto di fatto) e si pongono, invece, questioni che rimandano, semmai, alla soluzione di problemi giuridici senza tuttavia formulare i necessari quesiti ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., comma 2. 4. – Con il quarto motivo si denuncia violazione della L. Fall., artt. 10 e 147, nonchè vizio di motivazione.

Sotto il profilo della violazione di norme di diritto si sostiene che, nel caso di dichiarazione di fallimento di società di fatto in estensione del fallimento di un imprenditore individuale, il termine annuale di cui alla L. Fall., art. 10, decorre (a) dalla data della dichiarazione di fallimento dell’impresa individuale o, al più tardi, (b) del deposito (nella specie avvenuto il 16 gennaio 1998) dell’istanza del curatore di estensione del fallimento. Da tali accadimenti, infatti, andrebbe desunta la conoscenza, da parte dei terzi, della cessazione dell’impresa collettiva nonostante la mancanza di registrazione, in applicazione del principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 18618 del 2006, secondo la quale, per le società non iscritte nel registro delle imprese, il termine in questione decorre dal momento in cui la cessazione dell’attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata.

Si solleva, altresì, questione di legittimità costituzionale di una interpretazione della L. Fall., artt. 10 e 147 diversa da quanto sostenuto nell’ipotesi (b).

Il vizio di motivazione, infine, viene riferito al fatto della "cessazione dell’attività d’impresa in relazione alla decorrenza del termine di cui alla L. Fall., art. 10", lamentando che la Corte d’appello non abbia per nulla motivato riguardo ad esso, essendosi occupata del diverso fatto – invece non dedotto in giudizio – del recesso del socio occulto.

4.1. – Neppure questo motivo può essere accolto.

Secondo il ricorrente, in definitiva, la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale o, comunque, la successiva domanda di estensione del fallimento ai sensi della L. Fall., art. 147 rendono notoria la cessazione dell’attività svolta dalla società di fatto.

Ciò presuppone, evidentemente, la totale identità fra l’attività dell’imprenditore individuale e quella della società di fatto:

viceversa non sarebbe possibile associare alla cessazione della prima, per effetto della dichiarazione di fallimento (dell’impresa individuale), anche la cessazione dell’attività societaria (è invero la cessazione dell’attività societaria – non già di quella individuale – che rileva ai fini del decorso del termine annuale per l’estensione del fallimento alla società).

Nella specie, invece, l’attività bancaria svolta da C. C., e per la quale lo stesso fu dichiarato fallito, non esauriva, secondo quanto accertato dalla Corte d’appello, l’oggetto della società di fatto, ma costituiva solo parte di esso. Nel respingere il motivo di appello basato sulla illiceità e dunque nullità della società di fatto in quanto avente ad oggetto attività bancaria abusiva (censura poi non riproposta in sede di legittimità), la Corte veneziana afferma infatti che "le attività economiche costituenti l’oggetto della società non si esaurivano nella raccolta del risparmio tra il pubblico ma – come lo stesso appellante inavvertitamente finisce con il rivelare, allegando l’utilizzazione, per l’esercizio dell’impresa agricola di cui egli era titolare, dei fondi disponibili sui conti della cassa peota ed il versamento, sui medesimi conti, dei proventi di tale attività – si estendeva allo svolgimento di attività economiche diverse, rispetto alle quali la raccolta del risparmio risultava strumentale per l’acquisizione delle necessarie risorse finanziarie" (pag. 7 della sentenza impugnata). Il concetto è poi ribadito a proposito del coinvolgimento di Ca.An. nella società di fatto, allorchè, confermata "la commistione" già affermata dal Tribunale – "del patrimonio dell’impresa agricola formalmente gestito dall’odierno appellante con i fondi della cassa", si conclude – come già accennato sopra in narrativa – che "l’acquisizione, da parte del genitore dell’odierno appellante e con danaro della cassa, dell’azienda agricola poi intestata al secondo, il libero accesso a costui consentito ai fondi disponibili sui conti e depositi della cassa, il riconosciuto frequente – se non diuturno – coinvolgimento dello stesso nel compimento di attività di esercizio e gestione della cassa, la commistione del patrimonio della cassa con quello dell’azienda agricola formalmente intestata all’odierno appellante e da costui condotta, delineavano in termini inequivioci l’esitenza, tra C.C. ed i componenti della famiglia che lo coadiuvavano ed affiancavano nella gestione del complesso coacervo di attività economiche poste in essere e sostenute con le disponibilità finanziarie acquisite mediante la raccolta di risparmio operata dalla cassa, di una società di fatto avente ad oggetto l’esercizio del menzionato complesso di attività economiche" (pag. 8 della sentenza impugnata).

Il ricorso non contiene alcuna idonea censura dell’accertamento della complessità e molteplicità dell’oggetto sociale, eccedente l’attività bancaria svolta da C.C.. Il motivo in esame è dunque inammissibile (sotto ogni profilo, compresa la questione di legittimità costituzionale) perchè presuppone una versione dei fatti diversa da quanto definitivamente accertato dai giudici di merito.

5. – Il ricorso va in conclusione respinto.

Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 1.400,00, di cui 1.200,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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