T.A.R. Campania Napoli Sez. V, Sent., 24-02-2011, n. 1105 Bellezze naturali e tutela paesaggistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Espone in fatto il ricorrente di essere titolare di studio odontoiatrico in Scafati e di aver presentato in data 27/3/2008 istanza per l’autorizzazione allo scarico nella pubblica fognatura del Comune di Scafati di acque provenienti dallo studio odontoiatrico; a seguito di una richiesta di documenti, con nota n.14725 del 22/12/2008 l’Ente d’Ambito Sarnese Vesuviano comunicava il mancato accoglimento per la mancata indicazione dei pozzetti di ispezione precedentemente richiesti dalla GORI. Il ricorrente faceva allora presente che il TAR di Napoli aveva annullato la Delibera di Giunta Regionale e relativi disciplinare e nota della Provincia di Napoli in tema di scarichi per categorie produttive assimilabili, ma comunque successivamente interveniva l’impugnato e definitivo provvedimento di diniego dell’autorizzazione.

L’Ente d’Ambito Sarnese Vesuviano si è costituito per evidenziare l’inammissibilità del gravame e comunque l’infondatezza del medesimo, atteso che le acque reflue in questione vanno ricomprese negli scarichi industriali e non tra quelli domestici.

Alla pubblica udienza del 17 febbraio 2011 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione come da verbale.
Motivi della decisione

1.Con il ricorso in esame parte ricorrente lamenta la violazione degli artt.74, 101, 107, 124 e 131 del Decr. Legisl n.152 del 2006, nonché il contrasto con giudicato reso dal Tribunale.

2. Il Collegio ritiene di poter prescindere dall’eccezione di inammissibilità attesa l’infondatezza nel merito.

3. Detto che non è configurabile in senso sostanziale alcun contrasto con il giudicato cui fa riferimento parte ricorrente, dal momento che la citata sentenza del TAR di Napoli si é limitata ad affermare l’incompetenza della Giunta Regionale a favore del Consiglio Regionale e non è entrata nel merito della questione, in ordine alle ulteriori censure dedotte da parte ricorrente e che si prestano ad una trattazione unitaria va in via preliminare osservato che, come peraltro affermato dalla giurisprudenza penale richiamata da parte resistente, mentre "l’immissione" – secondo la definizione di cui all’art. 74, comma 1, lett. ff) del D.Lgs. n. 152 del 2006 come modificato dall’art. 2, comma 5 del D.Lgs. n. 4 del 2008 – di acque reflue domestiche in pubblica fognatura e senza la prescritta autorizzazione è punita con sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 133, comma 2 del D.Lgs. n.152 del 2006 l’immissione di acque reflue industriali è prevista come reato dall’art. 137, comma 1, del medesimo D.Lgs.

3.1 In sostanza la definizione di acque reflue industriali si caratterizza, ai sensi dell’art. 74, lett. h) del D.Lgs. n. 152 del 2006, per la sua connotazione negativa, essendo così definito qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento; il criterio generale adottato dal Legislatore per individuare le acque industriali è, dunque, quello afferente alla qualità del refluo, tant’è che, in applicazione del citato criterio sostanziale, sono individuate dall’art. 101, comma 7, del D.Lgs. alcune tipologie di acque assimilate quelle domestiche ai fini della disciplina degli scarichi.

Tra tali tipologie di acque, alla lett. e), sono indicate le acque "aventi caratteristiche equivalenti a quelle domestiche e indicate nella normativa regionale". Costituiscono inoltre "acque reflue industriali", ai sensi dell’art. 74, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n. 152 del 2006, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 4 del 2008, "qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento". Nello specifico la natura non domestica dello scarico deriva dalla non riconducibilità dello stesso alla nozione di cui all’art.74, comma 1, lett.g) del citato D. Lgs., disposizione questa operativa a prescindere dall’emanazione di un provvedimento a mezzo del quale la Regione potrebbe provvedere ad includerlo tra quelli assimilabili agli scarichi domestici: ciò appare alquanto arduo attesa la non prevalenza di prodotti del metabolismo umano e provenienti da attività domestica, ciò ove si consideri che nello scarico di uno studio odontoiatrico vengono convogliati soprattutto i reflui provenienti da postazioni dentistiche che immettono in fogna anche sostanze pericolose come medicinali e derivati dall’attività radiologica svolta in sede.

4. Correttamente, dunque, l’Amministrazione competente ha negato un’autorizzazione che opererebbe in deroga ai sensi art.103, comma 1 lett. C) del D.Lgs. n.152/2006 stante il generale divieto normativo di scaricare al suolo; è infatti evidente che l’autorizzazione eccezionalmente concessa in deroga dovrà contenere tutte le prescrizioni necessarie non solo a ridurre l’inquinamento, ma anche, possibilmente, a prevenirlo come previsto dall’art. 73, comma 2, lett.e) del D. Lgs. 152/2006. Del resto l’art. 124 del D.Lgs. cit. contiene una previsione di ampio respiro per quanto concerne le ulteriori prescrizioni tecniche opponibili all’autorizzazione allo scarico al fine di garantire che lo scarico, comprese le operazioni ad esso funzionalmente connesse, avvenga in conformità alle disposizioni della parte terza del D.Lgs. n.152/2006. Viceversa la tesi esposta in sede ricorsuale circa la coincidenza tra scarichi industriali e scarichi pericolosi tradisce la mancanza di qualsivoglia rispetto e attenzione nei confronti delle matrici ambientali contaminate dal momento che, secondo parte ricorrente, in assenza di una specifica prescrizione limitativa riferita in modo puntuale ad un dato inquinante sarebbe possibile contaminare le acque sotterranee a propria discrezione, senza correre il rischio di violare le norme a tutela dell’ambiente e di subirne le eventuali conseguenze sanzionatorie.

4.1 Peraltro a parere del Collegio l’operato di parte resistente risulta pienamente conforme al principio di precauzione, costituente uno dei canoni fondamentali del diritto dell’ambiente, avuto riguardo principalmente alla tutela delle acque e dell’ambiente ed alla loro preservazione dall’inquinamento (Cons. Stato, n. 30 del 2009). Com’è noto, il principio di precauzione può essere definito come un principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente e, se si pone come complementare al principio di prevenzione, si caratterizza anche per una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche previste, una tutela dunque che non impone un monitoraggio dell’attività a farsi al fine di prevenire i danni, ma esige di verificare preventivamente che l’attività non danneggia l’uomo o l’ambiente. Tale principio trova attuazione facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali valori sugli interessi economici (T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 304 del 2005 nonché, da ultimo, TRGA TrentinoAlto Adige, TN, 8 luglio 2010 n.171) e riceve applicazione in tutti quei settori ad elevato livello di protezione, ciò indipendentemente dall’accertamento di un effettivo nesso causale tra il fatto dannoso o potenzialmente tale e gli effetti pregiudizievoli che ne derivano come peraltro più volte statuito anche dalla Corte di Giustizia comunitaria, la quale ha in particolare rimarcato come l’esigenza di tutela della salute umana diventi imperativa già in presenza di rischi solo possibili, ma non ancora scientificamente accertati, atteso che, essendo le istituzioni comunitarie e nazionali responsabili – in tutti i loro ambiti d’azione – della tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente, la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle disposizioni del Trattato (Corte di Giustizia CE, 26.11.2002 T132; sentenza 14 luglio 1998, causa C248/95; sentenza 3 dicembre 1998, causa C67/97, Bluhme; Cons. Stato, VI, 5.12.2002, n.6657; T.A.R. Lombardia, Brescia, 11.4.2005, n.304).

In definitiva l’obbligo giuridico di assicurare un "elevato livello di tutela ambientale", con l’adozione delle migliori tecnologie disponibili, tende a spostare il sistema giuridico europeo dalla considerazione del danno da prevenire (principio "chi inquina paga") e riparare alla prevenzione, alla correzione del danno ambientale alla fonte, alla precauzione (principio distinto e più esigente della prevenzione), alla integrazione degli strumenti giuridici tecnici, economici e politici per uno sviluppo economico davvero sostenibile ed uno sviluppo sociale che veda garantita la qualità della vita e l’ambiente quale valore umano fondamentale di ogni persona e della società (informazione, partecipazione ed accesso). E’ pacifico che la stessa direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/Cee, deve essere interpretata alla luce della sua finalità, ossia la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, nonché alla luce dell’art. 174 n. 2, Ce, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (Corte Giustizia CE, III, 9.6.2005, n.270). La stessa politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni, ed è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga" (Corte Giustizia CE, I, 14.6.2005, n.6). Come significato dalla più autorevole giurisprudenza formatasi sul punto, "l’applicazione del principio di precauzione comporta, in concreto, che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri deve tradursi in una prevenzione precoce, anticipatoria rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche. E’ evidente, peraltro, che la portata del principio in esame può riguardare la produzione normativa in materia ambientale o l’adozione di atti generali ovvero, ancora, l’adozione di misure cautelari, ossia tutti i casi in cui l’ordinamento non preveda già parametri atti a proteggere l’ambiente dai danni poco conosciuti, anche solo potenziali" (cfr. sul punto, ex ultimis, T.A.R Piemonte, I, 3.5.2010 n.2294).

5. Per questi motivi il ricorso in oggetto va rigettato.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

La sentenza è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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