Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 12 e 16-10-1998 R. A. evocava in giudizio dinanzi al Tribunale di Vercelli L. Z. e A. Z. e, premesso che a seguito del decesso del padre M. A., avvenuto il omissis, si era aperta la successione per quote uguali in favore dei figli R. e Ro. A. e della moglie G. F., esponeva:
– con atto di divisione del omissis i figli del “de cuius”avevano diviso una parte dei beni ereditari, con esclusione delle partecipazioni di R. A. nella società omissis nella quale M. A. deteneva il 99.86% del capitale sociale;
– con atto di cessione del omissis Ro. A. e G. F., dopo aver dichiarato di essere le uniche socie della predetta società, avevano ceduto le proprie quote ad A. Z. ed a L. Z., figli di Ro. A.;
– questi ultimi avevano acquistato da eredi solo apparenti la quota societaria di pertinenza dell’esponente delle compartecipazioni del “de cuius”.
L’attore chiedeva pertanto la restituzione ex art. 534 c.c. o, in subordine, ex art. 948 c.c. della quota societaria ricevuta in eredità dal padre.
I convenuti costituitisi in giudizio assumevano di aver acquistato le quote sociali in buona fede, atteso che l’attore non era indicato come socio nelle scritture contabili dell’omissis s.r.l.; chiedevano comunque di chiamare in manleva Ro. A. e G. F..
Con sentenza del 23-3-2002 il Tribunale adito condannava i convenuti in solido alla restituzione all’attore del 33,29% delle quote della suddetta società oltre ai frutti maturati dalla data dell’acquisto a quella della effettiva restituzione.
Proposto gravame da parte di A. Z. e L. Z. cui resisteva R. A. la Corte di appello di Torino con sentenza del 28-7-2004 ha rigettato l’impugnazione.
Avverso tale sentenza A. Z. e L. Z. hanno proposto un ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo cui R. A. ha resistito con controricorso; i ricorrenti hanno successivamente depositato una memoria.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo formulato i ricorrenti, denunciando errata applicazione della legge e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver affermato che fosse onere degli esponenti provare l’iscrizione del proprio titolo onde poter usufruire dell’applicabilità dell’art. 534 secondo comma c.p.c.
Essi, premesso che la controparte aveva introdotto la propria azione non contestando la qualità dei convenuti di soci della suddetta s.r.l., rilevano come dato pacifico e comunque risultante dal registro delle imprese che al omissis i soci della omissis erano Ro. A. e G. F., e aggiungono che d’altra parte il notaio che aveva rogato l’atto di cessione delle quote in favore degli esponenti non avrebbe potuto procedere in tal senso senza prima accertare chi fossero i titolari delle quote stesse come emergenti dal libro soci e dal registro delle imprese; pertanto non sussisteva alcun obbligo ulteriore a carico di A. e L. Z. “rispetto a quanto già realizzato in sede di acquisto delle azioni dalle cedenti”, cosicché la motivazione resa dal giudice di appello in ordine alla pretesa inapplicabilità dell’art. 534 secondo comma c.c. si rivelava illogica e contraddittoria; inoltre lo stesso R. A. avrebbe dovuto e potuto sapere sin dal omissis che le quote relative alla suddetta s.r.l. erano intestate a Ro. A. e G. F..
I ricorrenti sotto ulteriore profilo rilevano che la Corte territoriale, nell’affermare la mancanza di idonea prova da parte degli appellanti circa la propria buona fede nell’acquisto delle quote per cui è causa, ha rafforzato il proprio assunto richiamandosi allo stretto rapporto di parentela tra coloro che avevano ceduto le quote e gli esponenti; orbene in proposito A. e L. Z. sostengono che, se era indubitabile tale legame, si sarebbe dovuto trarre le stesse conclusioni per quanto riguardava lo strettissimo rapporto parentale tra la teste G. A. e R. A. di cui era la figlia; invece la sentenza impugnata, mentre ha attribuito piena attendibilità alla deposizione della suddetta teste, non ha prestato alcuna credibilità alle affermazioni, documentalmente provate, degli esponenti.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale, premesso come elemento emergente documentalmente che R. A. era erede di M. A. e titolare di una quota pari ad un terzo delle compartecipazioni sociali del “de cuius” nella s.r.l. omissis, e confermato l’inquadramento della domanda proposta dal R. A. nell’ambito della petizione ereditaria conformemente a quanto già ritenuto dal giudice di primo grado, ha rilevato che gli appellanti non avevano fornito idonea prova ai sensi dell’art. 534 secondo comma c.c. della ricorrenza della loro buona fede incolpevole al momento dell’acquisto delle suddette quote; a tal fine la sentenza impugnata ha ritenuto insufficiente il riferimento alla mancata iscrizione del R. A. nel libro soci, atteso che ciò non escludeva l’applicabilità del menzionato art. 534 c.c. e che tale mancata iscrizione non costituiva indice assoluto della buona fede del terzo.
Il giudice di appello poi, ritenute non determinanti le deposizioni richiamate dagli appellanti, ha anzi evidenziato alcuni elementi probatori – già rimarcati dal giudice di primo grado a riprova della malafede degli Z. – correlati al loro coinvolgimento nelle vicende della s.r.l. omissis desumibile dalla documentazione in atti, ai rapporti familiari esistenti tra le parti nonché alle risultanze evincibili dalla deposizione resa dalla figlia dell’appellato G. A., attestante la consapevolezza degli appellanti circa le ripetute richieste avanzate dal di lei padre di iscrizione nel libro soci.
Infine la sentenza impugnata ha rilevato comunque la mancanza di prove in ordine alla inescusabilità della pretesa ignoranza addotta dagli Z. con riferimento alla perdurante intestazione delle quote, nella misura di un terzo, in capo al R. A..
Orbene alla luce delle argomentazioni sopra riportate offerte dalla Corte territoriale occorre rilevare che quest’ultima ha proceduto ad un accertamento di fatto in ordine alla assenza di buona fede da parte di A. e L. Z. all’atto dell’acquisto delle quote della suddetta s.r.l. sorretto da congrua e logica motivazione, come tale insindacabile in questa sede, dove i ricorrenti da un lato non appaiono sufficientemente consapevoli dell’onere probatorio posto a loro carico dall’art. 534 secondo comma c.c. e dall’altro tendono inammissibilmente a prospettare una diversa valutazione delle risultanze probatorie ad essi più favorevole.
Sotto un primo profilo invero ai sensi della disposizione ora menzionata il terzo avente causa a titolo oneroso dall’erede apparente (come nella specie A. e L. Z. per quanto riguarda l’acquisto della quota societaria di cui era titolare R. A.) ha l’onere di provare la sua buona fede, consistente nella dimostrazione dell’idoneità del comportamento dell’alienante ad ingenerare la ragionevole convinzione di trattare con il vero erede, nonché dell’esistenza di circostanze indicative dell’ignoranza incolpevole di esso acquirente circa la realtà della situazione ereditaria al momento dell’acquisto (Cass. 9-7-1980 n. 4376); pertanto è ininfluente l’affermazione dei ricorrenti circa la conoscibilità da parte del R. A. del fatto che le quote della predetta s.r.l. erano intestate fin dal omissis a Ro. A. e G. F., laddove invece il punto decisivo della controversia è costituto dall’onere probatorio a carico degli Z. in ordine alla loro buona fede nei termini sopra chiariti.
Per il resto le censure dei ricorrenti trascurano il potere discrezionale del giudice di merito in ordine alla individuazione ed alla valutazione delle fonti di prova ritenute più convincenti alla ricostruzione in fatto delle vicende rilevanti al fine della decisione della controversia, sempre che dell’esercizio di tale potere egli abbia offerto una logica motivazione, come nella fattispecie; tale potere, in particolare, si estende anche al giudizio circa la maggiore o minore attendibilità della deposizione di un teste; può comunque rilevarsi che la valutazione delle dichiarazioni della teste G. A. configura soltanto uno dei diversi elementi probatori richiamati dalla Corte territoriale a sostegno del proprio convincimento.
Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento di euro 200,00 per spese e di euro 2500,00 per onorari di avvocato.
Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.