Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-01-2011) 25-02-2011, n. 7550

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 16/4/2007 il G.U.P. del Tribunale di Brescia all’esito di giudizio abbreviato dichiarava F.M. colpevole del delitto di violenza sessuale ai danni di D. N. e la condannava alla pena di anni uno mesi due di reclusione;

dichiarava inoltre M.D. responsabile del reato di interferenze illecite nella vita privata e lo condannava alla pena di mesi dieci di reclusione e nel medesimo contesto assolveva per non avere commesso il fatto C.B. e lo stesso M. dall’imputazione di violenza sessuale in concorso in danno della D..

Si imputava ai predetti in concorso tra loro anche sotto il profilo della mancata osservanza dell’obbligo di impedire l’evento ex art. 40 c.p., in forza delle rispettive qualità di operatore tecnico per la F. e il M. e di medico responsabile per il C., tutti dipendenti della struttura ospedaliera, e in concorso con altri imputati giudicati separatamente, di continuativi e reiterati atti di violenza sessuale e di maltrattamenti posti in essere in danno dell’anziana paziente psichiatrica D.N., degente presso il Dipartimento di salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, alle dipendenze della quale tutti gli imputati prestavano la loro opera. Gli atti sessuali compiuti erano, secondo l’accusa, consistiti in toccamenti in mezzo alle gambe e al seno della paziente, nonchè nel buttarla sul letto, bloccandola e toccandole la parti intime; la violenza si manifestava, mantenendo un’abituale e sistematica condotta di sopraffazione e mortificazione, concretizzatasi sia in percosse, sia in atti ed espressioni verbali, idonei a umiliare e offendere il decoro e la dignità personale e sessuale della predetta. Inoltre si faceva carico al M. di essersi procurato indebitamente con il proprio cellulare immagini attinenti alla vita privata dei pazienti, fotografandone gli organi sessuali, mentre facevano la doccia.

Perveniva il G.U.P. a pronuncia assolutoria per tutti gli imputati in riferimento all’addebito di maltrattamenti aggravati sul rilievo che la fattispecie delittuosa era da ritenersi assorbita nel più grave reato di violenza sessuale, e quanto ai diversi addebiti di violenza sessuale e di interferenze illecite nella vita privata individuava gli elementi atti a supportare la propria decisione principalmente nelle deposizioni accusatorie dei dipendenti B. e P., della dott.ssa B., della caposala S. e di altri dipendenti paramedici, nonchè dalle risultanze delle videoregistrazioni effettuate all’interno della comunità psichiatrica, dubitando tuttavìa del coinvolgimento del M. nelle condotte di sopraffazione a sfondo sessuale e della conoscenza delle stesse da parte del C..

A seguito di gravame del Procuratore Generale, del Procuratore della Repubblica e degli imputati M. e F., la Corte di appello di Brescia con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello del primo, dopo avere espresso il dubbio che i comportamenti a sfondo sessuale fossero nel caso in esame finalizzati a soddisfare un soggettivo fine di concupiscenza e ad appagare un proprio desiderio sessuale e quindi ad arrecare pregiudizio al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, non condivideva la decisione del giudice di primo grado, laddove aveva ritenuto assorbiti i maltrattamenti nelle contestazioni di violenza sessuale, richiamando sul punto la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il delitto di cui all’art. 572 c.p., ben poteva concorrere con quello di violenza e abuso sessuale, quando le sopraffazioni oltre a cagionare sofferenze fisiche alla vittima ledano anche la sua libera determinazione in ambito sessuale, e osservando, che una volta escluso l’addebito di violenza sessuale, come era accaduto per il M. e il C., non poteva non riconoscersi nella sistematica condotta di sopraffazione e mortificazione, ad opera di coloro che ben conoscevano la minorazione dell’anziana donna, essendo deputati alla sua cura e custodia, l’esistenza di tratti tipici del delitto di maltrattamenti, assolveva la F. dagli addebiti di violenza sessuale e maltrattamenti, riqualificati i fatti quale violazione degli artt. 110 e 572 c.p. e art. 61 c.p., n. 9 per non avere commesso il fatto, dichiarava il C. e il M. colpevoli di tale reato, riconoscendo a quest’ultimo la continuazione con l’addebito ex art. 615 bis c.p., condannandoli alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, e confermando nel resto l’impugnata sentenza.

Contro tale decisione ricorrono il M. e il C. a mezzo dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.

In difesa del M. si denuncia con il primo motivo la illogicità, e contraddittorietà della motivazione testualmente rilevabile in riferimento all’affermazione della colpevolezza, ed in particolare a) in riferimento alla valutazione delle dichiarazioni rese dalla teste P., la cui attendibilità era stata irragionevolmente ritenuta dalla corte di merito, nonostante che la teste avesse assistito quasi quotidianamente ai maltrattamenti della D. da parte del R., del D.G. e del M., del cui turno faceva parte, e inspiegabilmente fosse andata esente da quel concorso morale, che era stato invece addebitato alla Z. e alla F., e nonostante fosse stata indagata per truffa ai danni dello Stato per avere fatto favori anche significativi ai predetti, come quello di timbrare cartellini al loro posto; b) in riferimento alla erroneità dell’assorbimento degli episodi di maltrattamenti in quelli di violenza sessuale, che i giudici del gravame avevano ritenuto, ponendosi in contrasto con quella giurisprudenza di legittimità, che in forza del principio di specialità ha ritenuto il reato di cui all’art. 572 c.p., assorbito in quello di cui all’art. 609 bis, di guisa che, una volta affermata l’insussistenza di tale ipotesi criminosa, alcuna altra valutazione andava fatta delle contestate condotte criminose; c) in riferimento alla contraddittorietà della motivazione e all’erronea applicazione della norma incriminatrice ex art. 572 c.p., la cui sussistenza era stata ritenuta pur in assenza di una seria verifica dell’elemento psicologico del reato e dell’elemento oggettivo della sofferenza psico-fisica inferta alla persona offesa, affermando apoditticamente l’esistenza di una continua condotta di sopraffazione e mortificazione della D. e irragionevolmente ritenendo che l’apparente adesione della donna alle iniziative dei correi, lungi dallo scriminare gli imputati, costituivano il frutto della sindrome maniaco-depressiva, da cui la predetta era affetta; d) in riferimento alla mancata valutazione della sentenza irrevocabile di assoluzione dei coimputati R. e G., che avevano scelto il rito ordinario, fondata sulle dichiarazioni dei medesimi testi P. e B., le quali in sede dibattimentali avevano sminuito in buona parte le dichiarazioni accusatorie con particolare riguardo ai comportamenti della donna, che, quando era euforica o aveva il morale alle stelle, era lei a cercare e a provocare gli operatori, facendo allusioni e provocazioni a sfondo sessuale; aveva omesso la corte di merito di valutare le deposizioni dei numerosi altri operatori in servizio presso la struttura, escussi dal Tribunale nella sede dibattimentale, di cui si riportavano alcuni stralci, che si discostavano dalle dichiarazioni della P. e della B. sia sull’origine e le ragioni del clima conflittuale creatosi all’interno della struttura sia sulle condotte oggetto dell’accusa.

Con il secondo motivo si deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, non rivestendo il M. la qualifica di infermiere professionale, ma svolgendo limitate funzioni di inserviente, addetto alle pulizie, al riassetto delle camere e alla preparazione dei pasti, che non gli conferivano la qualifica di incaricato di pubblico servizio.

Con il terzo e quarto motivo si eccepisce la manifesta contraddittorietà della motivazione in riferimento alla raggiunta prova del reato di cui all’art. 615 bis c.p. e all’equivoco in cui erano incorsi i giudici del merito nel ritenere l’imputato reo confesso, laddove il predetto si era limitato solo a spiegare come mai si fosse trovato in possesso delle immagini incriminate, nonchè in riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, senza la prova che la contestata interferenza nella vita privata fosse indebita e che mancasse il consenso dell’avente diritto. Infine con il quinto e ultimo motivo si lamenta l’erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in riferimento alla mancata applicazione delle generiche e del beneficio della non menzione della condanna.

Analogamente in difesa del C. l’avv. Luigi Stortoni articola vari motivi.

Con il primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 580 c.p.p. e art. 606 c.p.p., comma 3, in riferimento alla mancata declaratoria di inammissibilità dell’appello del P.M., fondato su ragioni esclusivamente in fatto o irrilevanti, come quella concernente la mancata applicazione della regola di giudizio in ordine alla valutazione della deposizione P., e come tali non valutabili in sede di ricorso per cassazione, pur convertito in appello.

Con il secondo e terzo motivo denuncia ancora la nullità della sentenza per violazione dell’art. 580 c.p.p., e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e e), per vizio di motivazione e erronea applicazione della legge processuale, sostenendo che anche ove si ritenesse ammissibile l’impugnazione del P.M., esso sarebbe inammissibile o infondato a fronte di una motivazione della sentenza di primo grado, che giustificava ampiamente la decisione assunta, tanto vero che la sentenza di secondo grado non censura quella del G.U.P., per vizi motivazionali, ma per una asserita e non condivisa diversa ricostruzione e valutazione del fatto.

Con il quarto motivo deduce ancora la nullità della sentenza per violazione della legge processuale e penale in riferimento al malgoverno e all’omessa valutazione delle prove contenute all’interno del fascicolo del giudizio abbreviato, censurando i giudici del gravame, i quali avevano fondato il giudizio di colpevolezza, valorizzando alcune deposizioni e il contenuto di intercettazioni audio e video, avvenute nell’ambito della comunità terapeutica, ma omettendo di valutare e confutare tutta una serie di prove di senso opposto, presenti all’interno del fascicolo e pienamente utilizzabili, ivi compreso il contenuto della sentenza n. 2979/08 acquisita ex art. 238 bis c.p.p., che aveva assolto i coimputati dal medesimo delitto, la quale forniva una completa messe di riscontri alle indagini difensive. In particolare e in sintesi la difesa evidenzia che l’accusa trovava sostegno unicamente nelle deposizioni dei testi B. e P., di cui era stata dimostrata la inattendibilità per l’astio che le due donne nutrivano per tutti gli imputati e per le numerose contraddizioni in cui erano incorse, e che in un solo episodio, quello in data 24/8/2005 l’imputato era stato visto presente all’interno della struttura, onde, trovando l’imputazione ascritta all’imputato il suo esclusivo fondamento nella norma di cui all’art. 40 c.p., comma 2, non poteva ipotizzarsi a carico del predetto la possibilità concreta di impedire con il proprio comportamento commissivo doveroso l’evento lesivo da altri causato, posto che dal 26/8 al 16/9/05 l’imputato era assente per ferie. Secondo la difesa mancava una seria valutazione dell’abitualità, requisito fondamentale per la configurabilità del delitto di cui all’art. 572 c.p., atteso che dall’unica fonte certa di accusa, proveniente dalle riprese audio-video, risultava che su un periodo di 29 giorni i presunti abituali e continui maltrattamenti ammontavano a 39 minuti e 26 secondi.

Allo stesso modo nessuna prova concreta la corte territoriale aveva evidenziato in ordine alla sussistenza in capo alla persona offesa di una situazione di svilimento e umiliazione della dignità fisica e morale, laddove invece sia dalle investigazioni difensive, integralmente riportate nel ricorso, sia da quanto argomentato nella sentenza del Tribunale di Brescia, sia dalle deposizioni rese durante l’udienza preliminare da D.D. e N.L., rispettivamente fratello ed ex marito della D.N., del tutto ignorate dal giudice del gravame, nulla emergeva da parte della paziente, circa la asserita sofferenza, causatale dai maltrattamenti inflitti e omissivamente causati dal dott. C..

Si sofferma poi il difensore sull’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti, e censura i giudici del gravame, che si erano contraddetti in maniera esplicita, quando in un primo momento in riferimento all’imputazione ex art. 609 bis, ponendo l’accento sul piano della burla e dello scherzo, avevano affermato che la vittima non si era mai lamentata di essersi sentita compromessa o turbata nella libera determinazione della propria sessualità, e subito dopo, dimenticando lo scherzo e l’assenza di invasione della sfera sessuale, avevano ritenuto sussistente il dolo generico necessario ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, dimenticando che per tale reato non è necessario il dolo specifico, ma è sufficiente che la coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, che nel caso in esame era del tutto mancata, come affermato nella sentenza del Tribunale, divenuta irrevocabile. Anche in riferimento alla sciatteria dell’imputato, che la corte di merito aveva posto a fondamento della responsabilità concorsuale omissiva e del dolo omissivo, la difesa evidenzia come l’assunto era completamente avulso dalle emergenze processuali, che dipingevano il dott. C. come un professionista duro, che controlla i dipendenti, pronto a riprenderli, del tutto diverso da quello che traspariva dalla sentenza impugnata, tanto vero che nella lettera del 21/10/05 non si è limitato a dire di non avere saputo nulla dell’indagine in corso, ma aveva affermato e ribadito sempre che si trattava di un gioco di ruolo, stereotipato, ripetitivo, ragionevole tra due parti.

Tanto premesso in fatto, osserva il collegio che il ricorso del M. non ha fondamento e va pertanto rigettato con ogni altro consequenziale provvedimento in ordine alle spese processuali.

Ed invero, quanto alle censure di cui al primo motivo, non ha pregio la doglianza circa la inosservanza delle regole di giudizio, di cui all’art. 192 c.p.p. con riferimento al materiale dichiarativo della principale teste di accusa P.E., sulla quale si è già soffermato il giudice del gravame, correttamente osservando come non intercorresse alcuna connessione rilevante ai sensi dell’art. 12 c.p.p., nè alcun rapporto di collegamento ex art. 371 c.p.p., comma 2, tra i fatti di maltrattamenti, per cui vi è stata condanna e l’addebito di truffa ai danni dello Stato, ipotizzabile sulla base delle dichiarazioni auto ed etero indizianti, rese dalla predetta circa il fatto che i colleghi M. e D.G. abusavano del proprio cartellino marcatempo, così come priva di riscontro si ravvisa l’ipotesi prospettata dalla difesa circa una sua compartecipazione ai fatti criminosi, di guisa che del tutto motivata e legittima si ravvisa l’attendibilità che la corte ha attribuito alle dichiarazioni della teste, ritenute svincolate dalle limitazioni proprie della regola di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3.

Del pari corretta ed adeguatamente motivata si ravvisa la decisione della corte di merito nell’escludere il delitto di violenza sessuale e nel ritenere assorbiti gli episodi di cui al capo 1) della rubrica nel reato di maltrattamenti, contestato al successivo capo 2), oltre che in linea con la prevalente giurisprudenza di legittimità, a mente della quale è configurabile il concorso formale tra il delitto di maltrattamenti e quello di violenza sessuale, quando – come nel caso in esame, per quanto di qui a poco si dirà – le sopraffazioni oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledono anche la sua libera determinazione in ambito sessuale, attesa la diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme, vieppiù laddove la condotta si inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche della condotta di maltrattamenti (ex plurimis Cass. Sez. 3^ 12/11-17/12/08 n. 46375 Rv. 241798; 25/6-19/9/08 n. 35190 Rv.

241091).

Pienamente condivisibile e tutt’altro che illogica o contraddittoria appare la conclusione cui è pervenuta la corte distrettuale nel ritenere integrato il reato di maltrattamenti a fronte di una sistematica condotta di sopraffazione e mortificazione, consistita in atti di gratuito dileggio, di continua e immotivata molestia attraverso epiteti ingiuriosi e manifestazioni verbali o fisiche di disprezzo, in atti e gesti, quali toccamenti e palpeggiamenti, e talvolta anche di violenza fisica, idonei a provocare umiliazione, disdoro e serio pregiudizio al decoro e alla dignità della persona, posti in essere per di più nei confronti di un’anziana signora, affetta da patologie psichiche, e commessi proprio da coloro che ben conoscevano la minorazione della vittima e la malattia, da cui era afflitta, essendo deputati alla sua custodia e cura.

Sono quindi destituite di fondamento tutte le censure in ordine alla valutazione dell’elemento oggettivo del reato sotto il profilo della sofferenza psico-fisica inferta alla persona offesa e dell’elemento soggettivo, non potendosi esigere da parte di una paziente affetta da una grave sindrome maniaco-depressiva, che si rendesse conto di essere oggetto di sopraffazione, di svilimento e di umiliazione continua della propria dignità personale, senza dire che talvolta era la stessa paziente a lamentarsi con le infermiere P. e S. dei comportamenti molesti e degli approcci verbali disdicevoli del trio R., D.G. e M., così come non si vede poi sul piano soggettivo come possa dubitarsi del dolo proprio del delitto in questione, essendo l’imputato e i suoi correi perfettamente consapevoli della malattia di mente, da cui era affetta la vittima in ragione sia della loro qualità di infermieri professionali, sia della costante e diuturna assegnazione e compiti di custodia e vigilanza della paziente. Nè vale, come fa la difesa, richiamare la sentenza irrevocabile di assoluzione emessa dal Tribunale di Brescia nei confronti dei coimputati R. e D. G., che avevano scelto il rito ordinario, riguardando detto giudicato il reato di violenza sessuale e non quello di maltrattamenti, ovvero la sentenza, anch’essa irrevocabile, del G.I.P. dello stesso Tribunale, prodotta fuori termine dalla difesa del coimputato C., che ha prosciolto i suddetti coimputati anche dal reato di maltrattamenti perchè il fatto non sussiste e sollecitare in tal modo una rivalutazione del compendio probatorio alla luce delle risultanze processuali emerse, in quei processi, perchè equivarrebbe coinvolgere il collegio in una indagine di fatto, preclusa in sede di scrutinio di legittimità.

Quanto alla censura di cui al secondo motivo di ricorso, la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, è già stata valutata dal giudice del gravame e una sua rivisitazione integrerebbe anch’essa una "quaestio facti", preclusa in questa sede.

Destituite di fondamento sono anche le censure di cui al terzo e quarto motivo.

Ed invero il reato di interferenze illecite nella vita privata, previsto dall’art. 615/bis c.p., tende a tutelare la riservatezza della vita individuale contro le interferenze illecite nella vicenda privata di ognuno, semprechè tali interferenze provengano da terzi e riguardino comportamenti, sottratti alla normale osservazione all’esterno, onde è integrato il delitto de quo nella ripresa fotografica ad opera di una terza persona, che lede la riservatezza della vita privata (Cass. Sez. 6^ 19/2/-15/6/81 n. 5934 Rv. 149374;

1/10-30/10/08 n. 40577 Rv. 241213). Tale principio appare correttamente applicato nel caso in esame da parte dei giudici del merito, che hanno valorizzato a sostegno della affermazione della colpevolezza le dichiarazioni accusatorie delle testi B. e P., la deposizione dell’operatrice Z. e dell’operatrice R., la quale aveva anche affermato che la foto mostratale rappresentava, a dire del M., l’organo sessuale del paziente G., nonchè le ammissioni dello stesso M., che aveva riconosciuto di avere effettivamente fotografato con il proprio telefonino organi genitali e di averli mostrati ai colleghi, sìa pure negando che si trattasse di fotografie scattate ai pazienti. La difesa ha contestato la decisione sotto il profilo sia della prova del fatto, sia del mancato accertamento della natura indebita della interferenza, della identificabilità delle persone, la cui vita privata sarebbe stata violata, non bastando il generico riferimento a "pazienti", nonchè dell’eventuale consenso dell’avente diritto.

Osserva sul punto il collegio che titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, nel cui ambito deve ricomprendersi la riservatezza, che connota i momenti tipici della vita privata, non è soltanto il soggetto direttamente attinto dall’abusiva captazione delle immagini, ma anche chiunque, nel luogo violato, compia abitualmente atti della vita privata, che necessariamente alle stesse si ricolleghino, sì da comporre un unitario quadro rappresentativo di un’area riservata e preclusa alle indebite intrusioni ab externo, idonee a scalfirlo. Ne deriva pertanto che rilevante non è l’accertamento delle persone la cui vita privata è oggetto di violazione, ma il rispetto alla riservatezza di comportamenti sottratti alla normale osservazione dall’esterno. In altri termini il concetto di "vita privata" tutelato dalla norma non deve essere inteso, ad avviso del collegio, in senso soggettivo, ma in senso oggettivo, di guisa che non può ritenersi rilevante ai fini dell’esclusione dell’ipotesi criminosa in esame la mancata o non identificabilità della persona, cui si riferisce l’immagine abusivamente captata.

Le altre censure prospettano questioni di mero fatto, che implicano una valutazione di merito, non consentita in questa sede, anche in riferimento ad un preteso consenso del soggetto ripreso, che mai potrebbe ritenersi efficace, siccome proveniente da paziente, ricoverato in un istituto di igiene mentale.

L’ultima censura concernente il trattamento sanzionatorio esula dal catalogo dei casi di ricorso, disciplinati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, profilandosi come doglianza non consentita ai sensi del comma 3, cit. art. volta, come essa appare, a introdurre come "thema decidendum" in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della non menzione della condanna una rivisitazione di merito, non consentita in questa sede, a fronte di una motivazione sul punto immune da vizi logici o interne contraddizioni e come tale non censurabile.

I primi tre motivi del ricorso del C. sono destituiti di fondamento.

E’ risaputo dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità che in tema di giudizio abbreviato, quando l’imputato propone appello contro la sentenza di condanna, l’eventuale ricorso per cassazione del pubblico ministero si converte in appello, ma conserva la propria natura di impugnazione di legittimità: ne consegue che la corte di appello deve sindacarne l’ammissibilità secondo i parametri dell’art. 606 c.p.p., e i suoi poteri di cognizione sono limitati alle censure di legittimità. Tuttavìa, una volta che ritenga fondata una di dette censure, la corte riprende la propria funzione di giudice di merito e può adottare le statuizioni conseguenti, senza necessariamente procedere in via formale all’annullamento della pronuncia di primo grado (ex multis Cass. Sez. 6^ 23/10-14/11/08 n. 42694 Rv. 241872; Sez. 4^ 11/7-26/10/07 n. 39618 Rv. 237986).

Nel caso in esame tale principio risulta correttamente applicato, dal momento che il P.G. aveva denunciato vizi di legittimità, quali la violazione della legge processuale e penale e il difetto di motivazione, che la corte territoriale, giustamente e sia pure in parte ha ritenuto ammissibili e fondati, procedendo direttamente alla rivalutazione della prova e pervenendo poi alla conclusione, oggetto di esame in questa sede.

Fondato, ma limitatamente al profilo dell’elemento psicologico del reato si profila la censura di cui al quarto motivo di ricorso.

Poichè infatti l’imputazione sollevata nei confronti del C. porta il suo esclusivo fondamento nella norma dell’art. 40 c.p., comma 2, e quindi, ha natura di responsabilità per omesso impedimento di condotte illecite poste in essere da altri, quanto detto in precedenza in riferimento alla posizione del M. in ordine all’erroneo assorbimento del delitto di maltrattamenti in quello di violenza sessuale e alla sussistenza dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 572 c.p., vale a delimitare il campo dell’indagine all’esame dei soli motivi, concernenti il profilo psicologico del reato, per i quali si richiede l’annullamento della sentenza.

E’ certo che sull’imputato, medico responsabile della struttura, gravava un preciso onere di vigilanza sulle condotte degli operatori sanitari, che ivi operavano, dai medici al personale infermieristico, e che egli rivestiva una indubitabile posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti. A differenza di quanto argomentato nella sentenza di primo grado il giudice del gravame non ha dubitato che il C. avesse avuto piena consapevolezza delle condotte illecite tenute dagli infermieri del reparto nei confronti della D., alla stregua del materiale probatorio in atti, che attestava come il C. fosse stato informato a varie riprese sia dalla infermiera P. che dalla caposala S. degli episodi di ingiurie verbali, di manipolazioni fisiche, che si succedevano ad ogni ora del giorno ed anche in presenza di tutti da parte del trio R., D.G. e M., nonchè delle numerose lamentele rivolte dall’anziana paziente circa i comportamenti e gli approcci verbali dell’infermiere R., valorizzando altresì la lettera, con la quale il C. rispondendo alle richieste del dott. F., che lo informava delle lamentele, riferitegli dalla S., riconosce di essere da tempo a conoscenza degli "scherzi" a sfondo sessuale tra l’infermiere R. e la paziente D..

Tuttavia l’iter argomentativo seguito dalla corte di merito per giungere a tale conclusione non sembra percorrere i canoni della logica e del diritto e perciò stesso non appare affatto persuasivo.

Ed invero la titolarità di una posizione di garanzia non comporta in presenza del verificarsi dell’evento un automatico addebito di responsabilità a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione da parte dell’agente di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità e evitabilità dell’evento dannoso, che la regola cautelare violata mirava a prevenire, sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile e l’evento dannoso (Cass. Sez. 4^ 6/11-17/11/09 n. 43966 Rv. 245526).

In altri termini ed in concreto la responsabilità ex art. 40 c.p., comma 3, anche per un medico richiede comunque un coefficiente di dolo, che, seppure non deve riguardare i singoli episodi, deve tuttavia investire la consapevolezza che i correi attivi pongano in essere condotte di reato che il soggetto in questione, per la particolare qualifica rivestita, è tenuto ad impedire.

Ed è proprio tale aspetto, quella della certa conoscenza da parte dell’imputato delle condotte di vera e propria sopraffazione fisica ai danni dell’anziana paziente e di pesante invasione della sua sfera sessuale, che la corte non sembra abbia approfondito con la dovuta attenzione. E’ possibile che il medico fosse al corrente o potesse immaginare che accadessero fatti di gratuito dileggio e di continua e immotivata molestia ai danni della D., e si può certamente dire che in ogni caso egli avrebbe dovuto vigilare più attentamente, perchè ciò di cui era a conoscenza non accadesse, ma non pare si sia dato conto della prova della consapevolezza dell’effettivo comportamento degli operatori.

Nella lettera di cui sopra è cenno il C. si dice certo trattarsi di "una pantomima o gioco delle parti scherzoso" finalizzati a svelare le velleità erotiche della paziente, afflitta da sindrome maniaco-depressiva, e sostiene che tale gioco, se pure espresso talvolta con toni pesanti e anche maneschi, tipici della tradizione popolare, non aveva mai superato "i limiti del buon senso", attribuendogli anche "una funzione liberatoria", con ciò stesso riconoscendo di non essere al corrente di come quelle condotte degenerassero in concreto in atti di maltrattamento.

La corte di merito non ha dato il giusto peso al contenuto di quella missiva, ha ad essa ingiustificatamente attribuito il valore di una conferma del giudizio di colpevolezza, negando valenza terapeutica e liberatoria alle modalità di approccio poste in essere dagli imputati nei confronti della D. e limitandosi a ritenerla in maniera apodittica un banale tentativo di trovare scusanti alla condotta omissiva.

Si impone pertanto l’annullamento sul punto della sentenza impugnata e il rinvio ad altra Sezione della medesima Corte di Appello, affinchè rivaluti alla stregua delle direttive summenzionate la posizione dell’imputato C.B. in riferimento al profilo psicologico del reato a lui contestato.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.B. e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Brescia. Rigetta il ricorso di M.D., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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