Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-01-2011) 25-02-2011, n. 7427 Falsità ideologica in atti pubblici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.M., carabiniere in servizio presso la Compagnia di (OMISSIS), fu condannato in primo grado (sentenza 4.7.2006) alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento del danno in favore della costituita PC, R.L., in quanto ritenuto colpevole dei delitti di falso ideologico in atto pubblico, per avere redatto una annotazione di servizio nella quale attestava falsamente di avere invano tentato di "bloccare" il predetto R. (capo A), di perquisizione personale arbitraria in danno del predetto (capo B), di lesioni aggravate, sempre in danno del R. (capo C).

La CdA di Bologna, con la sentenza di cui in epigrafe, in modifica della pronunzia di primo grado, lo ha assolto dai delitti predetti con la formula della insussistenza del fatto.

Ricorre per cassazione il difensore della PC e deduce violazione della legge penale (sostanziale e processuale) e contraddittorietà della motivazione, argomentando come Segue.

Quanto al delitto di cui al capo A), la CdA, prima sostiene la innocuità del falso, quindi sostiene addirittura la insussistenza materiale dello stesso. Il falso sarebbe innocuo in quanto, pur avendo il M. in effetti bloccato il R., egli ebbe a scrivere di non essere riuscito nel suo intento; ma ciò avrebbe fatto, in un atto interno, e al solo scopo di giustificare la richiesta di intervento di una pattuglia di Carabinieri. L’errore giuridico e il vizio logico sono palesi e, già solo per questo, la sentenza merita annullamento.

Quanto al delitto di cui al capo B), essendo stato costretto il R. a mostrare il contenuto del sacchetto dell’immondizia prelevato, pochi istanti prima, da un cassonetto situato in strada, certo non può dirsi che perquisizione personale arbitraria non vi sia stata. Questo è però quel che afferma la Corte bolognese, sostenendo che non vi fu alcun abuso di poteri, dimenticando che non vi è stata alcuna osservanza delle forme e dei modi previsti dal codice di rito con riferimento al compimento di tale attività di polizia giudiziaria. La CdA dunque sembra ammettere che la perquisizione vi fu, ma ne esclude il carattere arbitrario.

Successivamente (a pag. 8), però, nega addirittura che la perquisizione vi sia stata, il che costituisce un evidente vizio logico della motivazione.

Quanto alle lesioni (capo C), il giudice di appello prende in considerazione solo quelle di natura fisica (contusione al ginocchio), trascurando del tutto quelle di natura psichica, pur riscontrate dai sanitari di una struttura pubblica (stato di shock).

E, per quel che riguarda la lesione al ginocchio, il giudice di secondo grado sostiene non esservi nessuna responsabilità del M., neanche a titolo colposo, atteso che il R. se le sarebbe provocate cadendo al suolo, nel tentativo di sfuggire all’inseguimento posto in essere dal militare. L’errore logico- giuridico è evidente, attesa la chiara sussistenza del nesso di causalità tra l’operato contro legem del M. e l’evento dannoso occorso al R..
Motivi della decisione

Tanto premesso, osserva il Collegio che, dalla lettura della sentenza impugnata, la ricostruzione in fatto (non contestata dall’impugnante) risulta la seguente.

M., libero dal servizio e in abiti borghesi, all’alba del (OMISSIS), nei pressi di un ristorante, vide un uomo (il R.), smontare dal suo ciclomotore e frugare in un cassonetto dell’immondizia, dal quale estrasse un sacchetto nero, tentando quindi di allontanarsi. Insospettito da tale condotta (che poi si accerterà essere del tutto lecita, in quanto il R., d’accordo con i gestori del ristorante, stava semplicemente prelevando residui di cibo per darli ai gatti del quartiere), il M. decideva di intervenire: smontava dalla sua vettura, si qualificava (ma non esibiva il tesserino) e ingiungeva al R. di mostrare il contenuto del sacchetto.

Il R., spaventato dall’azione repentina dell’altro, si dava alla fuga a piedi.

Lo stesso cadeva la suolo, veniva raggiunto e bloccato dal M., che aveva così la possibilità di verificare il contenuto del sacchetto.

R. si divincolava e chiedeva aiuto, richiamando l’attenzione di altre persone.

Accertata la inesistenza di condotte criminose, l’imputato intimava al R. di "sparire" e costui prontamente obbediva, senza essere stato, nella circostanza, identificato.

Quindi il M. redigeva l’annotazione di servizio nella quale scriveva di non essere riuscito a bloccare lo sconosciuto, che, anzi, era riuscito a dileguarsi nelle vie di (OMISSIS).

La CdA ha assolto l’imputato, ritenendo, quanto al falso, che esso fosse innocuo, quanto agli altri reati, che il M. avesse semplicemente compiuto il proprio dovere, pensando di essere in presenza di una condotta sospetta da parte del R..

Ebbene, anche se la CdA, inspiegabilmente, non ne fa menzione, è di tutta evidenza che, per quel che riguarda i delitti dei capi B) e C), la stessa ha, ritenuto sussistente la scriminante putativa dell’adempimento del dovere ( artt. 59 e 51 c.p.).

Si legge infatti in sentenza che il M. ritenne di trovarsi di fronte a una condotta sospetta, in quanto, in considerazione delle condizioni di tempo e di luogo, era certamente ipotizzarle che lo sconosciuto stesse in realtà ritirando un involto, che ben avrebbe potuto contenere armi, droga, un feto umano ecc. (pag. 5). I suoi sospetti si accrebbero (ragionevolmente, secondo i giudici del merito) quando il R., invece di chiarire a chi si era qualificato come Carabiniere le ragioni del suo comportamento, si dette a precipitosa fuga (per altro, senza abbandonare il sacchetto della spazzatura), ma lasciando in loco il ciclomotore.

Così stando le cose, poichè – come è noto – le scriminanti devono essere, comunque e sempre, valutate in favore dell’agente, ha scarso rilievo il fatto che la CdA, prima, abbia ritenuto che l’imputato aveva proceduto a perquisizione personale (giudicandola putativamente legittima) e poi abbia negato che la condotta del M. potesse essere qualificata tale. Ciò che rileva è che la Corte territoriale ha motivatamente affermato che il Carabiniere aveva ragionevolmente ritenuto di star compiendo (e di dover compiere) un atto di accertamento, che la sua funzione e la sua qualifica gli imponevano.

Ciò giustifica – ricorrendo la scriminante putativa – tanto la perquisizione, che dunque non può qualificarsi illegittima (perchè eseguita in presenza di una situazione di fatto che ex ante la giustificava), quanto il fatto che al R. furono provocate lesioni (fisiche e psichiche) a seguito della condotta tenuta dal M.. In presenza di tale situazione, per la verità, la formula assolutoria avrebbe dovuto essere, non quella adottata, ma "il fatto non costituisce reato" (cfr. SU, sent. n. 40049 del 2008, rie. PC in proc. Guerra, RV 240814).

Diverso discorso deve farsi per quel che riguarda la annotazione di servizio, nella quale il M. certamente riferì circostanze non vere. Contrariamente a quanto la stessa CdA afferma, infatti, l’imputato attestò di non essere riuscito a bloccare lo sconosciuto.

Da tutto quanto premesso, invece, emerge che il M. riuscì a immobilizzare il ricorrente, anche a seguito della sua caduta al suolo, ma che, una volta, resosi conto che R. non aveva fatto nulla di male, che il sacchetto non conteneva nulla di illecito e che, insomma, i suoi sospetti erano infondati, intimò all’impaurito cittadino di "sparire".

Si tratta di un comportamento certo non corretto. Il Carabiniere, invece di riconoscere esplicitamente il suo (incolpevole) errore e di fare le doverose scuse al R., preferì liberarsi della sua (scomoda) vittima e, nella speranza, evidentemente, che costui non si facesse più vivo, redasse la falsa annotazione di servizio, nella quale sostenne – contrariamente al vero – di non essere riuscito a bloccare il "sospetto".

Così stando le cose, il falso non può ritenersi innocuo, atteso che,con la relazione di servizio in questione,fu rappresentata ai superiori del militare e ad altri eventuali destinatari una situazione differente da quella reale: non solo, infatti, fu falsamente affermato che lo sconosciuto non era stato bloccato, ma neanche fu chiarito che lo stesso non aveva tenuto alcuna condotta contro jus e che il sacchetto nulla di sospetto conteneva. Insomma, agli atti del comando dal quale il M. dipendeva è rimasta una relazione di servizio nella quale, contrariamente al vero, si affermava che, nella circostanza, non poteva escludersi ci si fosse trovati in presenza di estremi di reato.

Tutto ciò premesso, va rilevato, tuttavia, che il reato del capo A), da un lato è stato commesso in un momento successivo rispetto alle condotte descritte nei capi B) e C) e dunque non ha minimamente inciso nella sfera giuridica del R., dall’altro, come è noto, è riconducibile alla categoria dei reati contro la fede pubblica, di talchè non essendo il R. persona offesa, nemmeno indirettamente, dal delitto di falso, la sua costituzione di PC deve ritenersi operativa unicamente con riferimento ai delitti di cui ai capi B) (plurioffensivo) e C) (chiaramente offensivo nei confronti di chi le lesioni abbia riportato).

Per le ragioni sopra specificate, per altro, la assoluzione del M. con riferimento ai delitti ex art. 609 c.p., e art. 582 c.p., art. 61 c.p., n. 9 deve ritenersi – tranne che per la formula- corretta, mentre, con riferimento al delitto ex art. 479 c.p., la PC non aveva interesse a impugnare, nè risulta avere impugnato il competente Organo dell’accusa. Nè, d’altra parte sussiste l’interesse della PC alla corretta applicazione della formula (cfr.

SU sent. sopra citata RV 240815).

Conclusivamente il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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