Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 20-12-2010) 25-02-2011, n. 7410

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione A.E. e E.M. avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia in data 14 aprile 2009 che ha in parte confermato quella di primo grado (del 17 maggio 2006), affermativa della loro responsabilità in ordine al reato a ciascuno ascritto: quello cioè, per entrambi, di diffamazione a mezzo stampa ai danni di tre magistrati componenti della allora 7^ sezione penale del Tribunale di Roma, dottori, M.G., M.G. e P.G..

In particolare, ad A. era stato contestato il detto delitto, per avere offeso la reputazione dei magistrati mediante la redazione di un articolo di stampa pubblicato sul quotidiano (OMISSIS), articolo nel quale era stata raccolta e pubblicata una dichiarazione di T.C. – persona offesa in un procedimento penale a carico del padre T.E.A., trattato dal detto Collegio – dichiarazione secondo cui costei "in Tribunale aveva trovato gli amici del signore che (la) molestava, gli stessi che venivano a cena nella casa dei (OMISSIS)", …in Tribunale ad interrogarmi) trovai i suoi amici, gli stessi che venivano ospiti a cena", circostanza contraria al vero.

Il M., dal canto suo, era accusato del medesimo reato di diffamazione per avere, quale direttore responsabile del quotidiano menzionato, consentito che l’articolo di stampa sopra evocato, peraltro intitolato "mio padre era intoccabile, hanno ignorato l’incesto", fosse pubblicato.

I fatti dai quali aveva tratto origine il processo venivano ricapitolati dalla Corte di merito nei seguenti termini.

Nel novembre 1994, dinanzi alla 7^ Sezione penale del Tribunale di Roma, composta dai citati magistrati -Presidente il Dott. M. – era iniziato il processo a carico di T.E., qualificato come persona ad alta visibilità nel settore della finanza, accusato di abusi sessuali in danno della figlia C., allora di undici anni, e di maltrattamenti in danno della moglie P.V..

Il processo si era snodato attraverso varie fasi, comprensive anche di una sollecitazione alla astensione dei dottori M. e M. ad opera delle parti civili (peraltro motivata da una pregressa sentenza di assoluzione pronunciata dai detti magistrati nei confronti della P.), istanza che, interpretata come dichiarazione di ricusazione era stata rimessa alla Corte di appello la quale l’aveva dichiarata inammissibile.

Altra circostanza del processo ricordata dai giudici del merito era quella dell’avere il Dott. M., al momento della conclusione della discussione, invitato la T.C., che nelle more si era avvicinata al padre sputandogli in faccia, ad allontanarsi dall’aula.

Il processo di primo grado si era concluso il 27 febbraio 1996 con la assoluzione del T. perchè il fatto non sussiste.

Si comprende dal la narrazione che, in seguito, T.C. aveva dato alle stampe un libro contenente la rievocazione di quanto accadutole e, a causa o in occasione di tale evento, la giornalista A. aveva realizzato una intervista con l’autrice del libro, facendone materia dell’articolo che era stato pubblicato, come detto, il 27 giugno del 2000, su una pagina interna de "(OMISSIS)", con un richiamo anticipato sulla prima pagina.

Ad avviso della Corte, era da ritenere del tutto condivisibile l’assunto del primo Giudice secondo cui ricorrevano tutti gli estremi per la condanna penale: prima, fra tutti, la perfetta individuabilità delle persone la cui reputazione si assumeva offesa e, in secondo luogo, la lesività dell’articolo per la immagine dei magistrati interessati, fatti apparire quantomeno come non imparziali e condizionati nel loro giudizio dalla capacità di influenza del l’imputato; infine la assenza di cause d i giustificazione. La Corte concludeva rilevando la intervenuta prescrizione e modificando talune statuizioni civili, su appello delle stesse parti civili.

Deducono i ricorrenti:

1) la nullità della sentenza impugnata, contenente il riconoscimento della intervenuta prescrizione mentre, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., avrebbe dovuto consistere in una pronuncia di assoluzione piena per la assenza di uno dei requisiti del contestato reato di diffamazione:

la individuabilità dei soggetti passivi. infatti, secondo la prospettazione del difensore, non era comprensibile, da parte di un qualsiasi lettore dell’articolo, quali fossero i soggetti cui erano attribuite le condotte infamanti, soggetti i cui nomi non erano stati neppure menzionati.

Il detto riconoscimento sarebbe dovuto avvenire in maniera inequivocabile e da parte di qualsiasi lettore, così come sostenuto da una parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15643 del 2005; n. 3756 del 1987 e n. 2135 del 1999; contra rv 191312; sent. n. 1477 del 1991). Ed invece la Corte di merito aveva ritenuto sufficiente la riconoscibilità dei soggetti passivi da parte di un numero limitato di persone: quelle cioè che frequentavano il medesimo ambiente di lavoro e che avevano quindi capacità di apprezzamento del tutto particolari.

2) la nullità della sentenza per violazione dei principi giuridici in materia di verità del fatto in caso di intervista, con profili di travisamento del fatto.

Il difensore premette che la decisione che questa Corte è chiamata ad assumere, sotto il profilo indicato in premessa, ha ad oggetto il solo ambito della contestazione elevata: e cioè quello costituito dalla affermazione secondo cui coloro che avevano giudicato nel processo che vedeva la intervistata come persona offesa erano amici dello stesso accusato, essendo stati suoi ospiti a cena nella casa dei (OMISSIS).

Tanto premesso, osserva il medesimo difensore che una simile affermazione è coperta dal diritto di cronaca.

Infatti il testo dell’articolo incriminato era sovrapponibile, per quanto qui di interesse, al libro della T.C., tanto da essere oltretutto riportato come "verità di C.". Invoca dunque la difesa, la giurisprudenza delle Sezioni unite del la Cassazione le quali hanno riconosciuto scriminata dal diritto di cronaca la intervista realizzata dal giornalista quando sia riportata fedelmente.

In tal caso infatti quel che rileva non è la verità del fatto dichiarato dall’intervistato, ma il fatto stesso della effettività della intervista.

A tali rilievi la difesa aggiunge che la giurisprudenza in questione è del tutto calzante in relazione al caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale. Infatti ricorreva il requisito dell’essere, l’evento riportato, un fatto giornalisticamente rilevante: tale doveva infatti ritenersi la intervista che andava ad afferire alla problematica della pedofilia , di grande interesse pubblico.

In secondo luogo, la difesa, ancora in replica alle contrarie affermazioni della Corte di merito, osserva che il fatto riportato dalla giornalista, mediante l’intervista – l’essere stati, cioè, i giudici non imparziali- non sarebbe diverso da quello riportato da T.C. nel proprio libro.

Al riguardo la Corte d’appello, sostenendo che la giornalista avrebbe apportato un personale valore aggiunto al contenuto della intervista, sarebbe incorsa in un travisamento del fatto.

Infatti i giudici avevano limitato la loro analisi ad una parte soltanto del libro (pag. 17) senza considerare che in altra parte del medesimo libro, a pag. 12, erano riportate le stesse circostanze poi riversate nell’articolo di stampa:

quelle, appunto dell’essere uno dei giudici amico e commensale abituale, nonchè frequentatore della casa dei (OMISSIS) del T..

Rispetto a tale affermazione, pure lesiva della reputazione del magistrato perchè non vera, la posizione della giornalista era tuttavia quella di chi si era limitata a raccogliere la intervista, senza potere aggiungere alcuna adesione personale per il semplice fatto che la dichiarazione offensiva riguardava un fatto e non un giudizio o una critica su cui l’intervistatore potesse far gravare una propria personale valutazione, in tal modo soltanto potendo configurarsi l’apporto necessario alla configurazione del concorso.

I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.

La disamina delle questioni sollevate viene qui effettuata nelle due diverse prospettive di interesse, dovendosi ricordare che, a fronte della dichiarazione di prescrizione del reato, si imporrebbe un giudizio in termini della sola "evidenza" della invocata causa di proscioglimento nel merito ai fini e per gli effetti dell’art. 129 c.p.p., comma 2 ed in termini invece "pieni" ai fini della disamina del ricorso agli effetti civili ex art. 578 c.p.p..

Trattandosi di motivi che questa Corte giudica tutti infondati, la conclusione è evidentemente assorbente della minore esigenza analitica richiesta dall’art. 129 c.p.p..

Ebbene, il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento alla stregua della interpretazione assolutamente prevalente accolta dalla giurisprudenza di legittimità in materia di "individuabilità" del soggetto passivo del reato di diffamazione.

E’ noto infatti che la assenza di indicazioni nominative non è ritenuta preclusiva della configurazione del reato (Rv. 239831), mentre requisito indispensabile è che il soggetto passivo sia individuabile ed individuato (Rv. 189090).

D’altra parte è richiesta la oggettività della individuazione, nel senso della necessità che sia la prospettazione della offesa e non una personale suggestione soggettiva a costituire il criterio per far ritenere integrato l’elemento della effettiva attitudine della espressione offensiva a ledere la reputazione di un determinato individuo (Rv. 243329, analogamente Rv. 241548, Rv. 232135, Rv.

229313). La necessità, appena richiamata, che rimanga affidata ad un criterio rigorosamente oggettivo la riconoscibilità del soggetto passivo della diffamazione è volta ad evitare che la condotta di rilevanza penale, necessariamente connotata oggettivamente e soggettivamente, sia applicata in termini che vanno oltre la effettiva capacità cognitiva e volitiva dell’agente, dovendosi impedire che questo sia chiamato a rispondere anche di una lesione della reputazione soggettivamente percepita da taluno ma che oggettivamente il fruitore della notizia, da tale punto di vista generica, non percepisce.

Un simile criterio non comporta però che la individuabilità su base oggettiva del soggetto passivo debba essere anche individuabilità universale, ossia promanante da chiunque.

Il reato di diffamazione punisce l’offesa della altrui reputazione realizzata comunicando con più persone, con limitazione nel numero minimo ma senza alcuna delimitazione del numero massimo, così come l’aggravante del ricorso al mezzo della stampa vale ad evidenziare la maggior gravità della condotta dipendente dalla maggior diffusività della notizia ma ancora una volta non pone come condizione che la notizia lesiva debba essere intellegibile anche in ciascun suo particolare, da ogni e qualsiasi fruitore della stessa.

Non vi è motivo nè logico nè giuridico per affermare che la lesione della altrui reputazione venga meno quando la notizia raggiunge, in tutta la sua portata e capacità offensiva, un numero limitato di persone.

In tale ottica appare del tutto condivisibile e da richiamare la giurisprudenza, di cui pure il difensore da atto, per la quale il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata anche se appartenente ad una categoria limitata (Rv. 195555) ovvero conosciuta professionalmente da un numero di persone che è ristretto rispetto a quello della intera collettività (Rv. 191312; Rv. "39108).

D’altra parte è da rilevare che neanche la giurisprudenza che il difensore invoca a sostegno della propria tesi sembra realmente avere affermato quanto attribuitole. Se è vero infatti che la sentenza n. 15643 del 2005 reca, nella relativa massimazione, il riferimento alla necessità che la identità del destinatario della diffamazione sia percepibile da chiunque abbia letto l’articolo, è anche vero che si tratta di principio tratto in maniera pedissequa dalla citazione di altra identica massima evocata nella motivazione della sentenza ((Cass. Sez. 5^, 1.10.88, Guiuotti).

Ma la lettura integrale della motivazione della sentenza del 2005 rende evidente che il richiamo al precedente era finalizzato alla illustrazione del criterio oggettivo cui sopra si è fatto riferimento, tanto che in quella occasione la Corte di legittimità precisava che "i soggetti passivi del reato erano agevolmente e con certezza inviduabili, attraverso il riferimento al loro rapporto di dipendenza con l’istituto, di guisa che tutti coloro che, essendo amici o conoscenti dei querelanti e consapevoli del lavoro da essi svolto, avevano modo di fare un immediato collegamento con la vicenda del clan camorristico dei Contini e trame motivo di discredito e di disistima nei confronti degli accusata.

In altri termini, anche la sentenza del 2005 citata dal difensore ha sostenuto la tesi poi accreditata, nel processo in esame , dai giudici del merito: e cioè quella per cui la individuabilità, oggettiva, del soggetto passivo della diffamazione può essere realizzata anche da parte di un gruppo limitato di persone che con esso hanno rapporti di lavoro o di altro genere.

Il secondo motivo di ricorso è parimenti infondato.

Invero si conviene con la difesa che l’oggetto sul quale gli imputati aveva l’onere di far cadere la prova della esimente del diritto di cronaca era quello direttamente promanante dalla formulazione del capo di imputazione.

Peraltro la Corte territoriale ha reso una motivazione più che congrua ed adeguata rispetto agli elementi decisivi ai fini della soluzione del processo: sostenendo cioè che non era "vero" il fatto lesivo della reputazione dei querelanti, attribuibile alla penna della imputata, con l’avallo del direttore responsabile, e cioè quello dell’avere, i tre componenti del Collegio giudicante, deciso il processo contro il T. in maniera non imparziale a causa dei pregressi rapporti di personale conoscenza ed intima frequentazione dell’imputato; inoltre che non è invocabile nella specie la giurisprudenza di legittimità che esonera da responsabilità il giornalista autore di una intervista diffamatoria.

Partendo, anzi, da tale ultimo punto, è da condividersi pienamente la ricostruzione giuridica della questione dovuta alla chiara sentenza delle Sezioni unite in materia di intervista.

Hanno invero evidenziato le Sezioni unite nella nota sentenza Galiero del 2001 che la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se "alla lettera", dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite. Tuttavia, essa è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sè dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca, l’individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione sfugge al sindacato di legittimità.

Ebbene, proprio il requisito della "qualità del soggetto" concedente l’intervista e quello del "contesto con profili di interesse pubblico" sono stati ritenuti correttamente e motivatamente non ricorrenti nel caso di specie. Invero l’area dei comportamenti dei giornalisti intervistatori che le Sezioni unite hanno inteso ritagliare per sottrarli dall’ambito del penalmente perseguibile non è generalizzato ma riferito ai casi in cui " ..un personaggio, che occupa una posizione di alto rilievo nell’ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sè diffamatorie, nei confronti di altro personaggio, la cui posizione sia altrettanto rilevante negli ambiti sopra indicati. In tal caso è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato che crea di per sè la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate.

Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perchè soddisfa quell’interesse della collettività all’informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall’art. 21 della Costituzione" (dalla motivazione della sentenza delle SSUU Galiero).

La posizione di preminenza del soggetto intervistato e quindi il particolare interesse pubblico alla conoscenza del suo pensiero al di là del carattere eventualmente offensivo di questo, è un requisito richiesto imprescindibilmente per valorizzare e tutelare l’interesse pubblico alla conoscenza di una opinione particolarmente qualificante per la formazione , a sua volta, della libera opinione del lettore.

Da non confondersi, però, con quella che è la semplice appetibilità della notizia e cioè la sua capacità di interessare un numero elevato di potenziali lettori posto che, per usare un paradosso, vi sono notizie o pensieri di nessuna rilevanza culturale politica, scientifica o altro eppure di speciale interesse per una certa ed ampia parte del pubblico dei lettori.

In questo senso la diffusione del pensiero di una giovane donna implicata, quale persona offesa, in un processo per fatti anche gravi concernenti la propria sessualità di minorenne, già di per sè, ed in linea generale, risulta estraneo al perimetro del penalmente lecito per l’intervistatore, come precisato dalle Sezioni unite.

Ma in più, nel caso concreto, il pensiero della persona offesa, che aveva definito implicitamente come parziali i giudici del processo a suo padre, non presentava non solo dal punto di vista soggettivo , ma neppure oggettivamente i connotati della intervista di pubblico interesse. Infatti, la soluzione del processo a favore dell’imputato, per quel che si sa non sovvertita nei gradi superiori, valeva a rendere la vicenda della intervistata nè più e nè meno che un fatto privato di gestione dei difficili rapporti tra sè e il proprio genitore, comunque estraneo – in base alle verità giudizialmente accertate e non più smentite- alle tematiche della pedofilia genericamente evocate dal difensore nel ricorso per cassazione.

Ne consegue che l’avere raccolto, dalla giovane intervistata, dichiarazioni lesive della reputazione dei magistrati e l’avere poi consentito la pubblicazione di tali dichiarazioni comportava, per i giornalisti, il dovere (presupposto, per il direttore) di controllare che le notizie di cui si facevano portatori fossero conformi al vero, senza possibilità di cercare schermo nella circostanza della "intervista". E nessuno, nemmeno il difensore, sostiene la tesi contraria a quella sul punto accreditata dalla Corte di merito, della assoluta falsità della affermazione riportata nel capo di imputazione e della assenza di controlli al riguardo da parte dei ricorrenti.

Assorbita è dunque la conseguente censura sul travisamento del fatto, dipendente dal riconoscimento della efficacia esimente della intervista, per il giornalista. Consegue alla presente pronuncia la condanna dei ricorrenti, in solido fra loro e con il responsabile civile, al pagamento delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, in solido fra loro e con il responsabile civile, alla rifusione delle spese delle parti civili liquidate in complessivi Euro 3000 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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