Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 26 febbraio 2010, n. 4737

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Considerato in diritto
2.1 Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso
proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte del
giudizio d’appello, instaurato nei confronti della sola Agenzia delle entrate, nella sua articolazione
periferica, dopo la data del 1 gennaio 2001, con implicita estromissione, dell’ufficio periferico del
Ministero (Cass., Sez. Un., n. 3166 del 2006). Ricorrono giusti motivi (rilievo ufficioso
dell’inammissibilità, proposizione del ricorso in epoca anteriore alla richiamata pronuncia delle
SS.UU. di questa Corte) per la compensazione, in parte qua – delle spese processuali.
2.2. a – Passando all’esame del ricorso proposto nei confronti dall’Agenzia delle Entrate, va
osservato che il primo motivo, con il quale si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5,
violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, nonchè vizio di motivazione, è infondato.
In particolare, con la censura inerente alla violazione della norma contenuta nel D.P.R. n. 600 del
1973, art. 37, comma 3, il ricorrente osserva in sostanza che il richiamo a tale disposizione non
sarebbe consentito in merito alla "prova della simulazione del contratto stipulato fra SIL e SMG,
prova che riguarda l’oggetto delle pattuizioni e non i soggetti tra cui essi effettivamente
intercorsero". Si aggiunge che, poichè il soggetto interponente, nella decisione impugnata, sarebbe
indicato nella SIIL, mentre di tale interposizione il D.N. sarebbe soltanto "consapevole", non
sarebbe applicabile a costui la norma in questione, che consente l’imputazione del reddito al solo
soggetto interponente. Sotto tale profilo sarebbe riscontrabile anche un vizio motivazionale,
relativamente alle modalità, non ben esplicitate, con cui il compenso sarebbe pervenuto al
calciatore.
2.2.b. La motivazione della decisione impugnata, quanto meno per quanto attiene alla descrizione
dei rapporti negoziali attraverso i quali si sarebbe verificata l’evasione d’imposta (ed a prescindere
da quanto si dirà, in prosieguo, circa gli aspetti di natura probatoria), rinvia, a ben vedere, a un
complesso meccanismo che si giova di due distinte forme di simulazione, fra loro collegate ma non
coincidenti: da un lato, l’interposizione soggettiva, nel senso che una parte dei compensi al
calciatore sarebbero stati versati a una società cessionaria dei diritti di sfruttamento del nome e
dell’immagine del predetto; dall’altro, una vera e propria simulazione oggettiva, nel senso che la
cessione di detti diritti non sarebbe stata in realtà voluta (nell’ambito di un contratto che non
avrebbe mai avuto una concreta attuazione), ma sarebbe stata utilizzata come schermo per
giustificare i passaggi di danaro relativi al pagamento di una parte del compenso dovuto all’atleta.
Non può, invero, dubitarsi, del riferimento, nella decisione impugnata, al meccanismo testè
descritto, così come, per altro, posto alla base dell’accertamento in esame: “Il Milan, societÃ
sportiva del Gruppo Fininvest, ingaggia come calciatore il D.N. e pattuisce un certo compenso per
le di lui prestazioni, del quale una parte appare ufficialmente e una parte viene simulata come
sfruttamento d’immagine mediante la stipulazione di contratti fittizi tra le altre società del Gruppo
Fininvest".
Appare, pertanto, evidente, come la simulazione della cessione dei diritti di sfruttamento
dell’immagine, così come le forme di pagamento attuate mediante soggetti interposti, costituiscano
tante facce del poliedrico meccanismo sopra descritto, nel quale il D.N. non assume di certo la veste
di "terzo", ancorchè consapevole, essendo chiaramente indicato, non solo come beneficiario, ma
anche come uno dei principali artefici del meccanismo stesso, mediante il testuale riferimento –
sopra richiamato – all’accordo intervenuto fra lui e la società sportiva Milan circa la ripartizione del
compenso pattuita in una parte "ufficiale" ed in un’altra (quella oggetto dell’avviso di accertamento
impugnato) da versarsi mediante il ricorso alle attività di altre società del gruppo. Appare quindi
evidente come sia del tutto riduttiva l’analisi di un singolo frammento del citato meccanismo per
rinvenire la giustificazione, sul piano normativo, della tesi sostenuta dall’Agenzia delle Entrate. Di
certo, ove si consideri che la Commissione tributaria regionale era investita, tramite il primo motivo
di appello (riportato nella parte narrativa della decisione impugnata), della questione inerente
esorbitanza dai poteri della commissione tributaria di primo grado di sindacare (in quanto – si
sosteneva – riservata al giudice ordinario) la simulazione oggettiva, appare comprensibile che i
giudici di secondo grado si siano a lungo profusi sulla figura della simulazione, analizzandone i vari
aspetti e richiamando, quanto a quella soggettiva, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3. Va
rilevato, per completezza di esposizione, che la tesi secondo cui l’accertamento della simulazione
relativa oggettiva sarebbe precluso nel procedimento tributario non trova riscontro nè nella migliore
dottrina, nè nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., 26 ottobre 2005, n. 28816; Cass., 10
giugno 2005, n. 12353).
2.2.c. Tanto premesso, occorre precisare che la tesi secondo cui la norma più volte richiamata
sarebbe stata erroneamente applicata perchè il D.N. non sarebbe indicato come "interponente",
bensì come mero soggetto "consapevole dell’accordo triangolare nel quale la società estera sarebbe
il soggetto interposto, mentre la società Sport Image il soggetto interponente", si fonda su un brano
della sentenza impugnata contenente una breve esposizione della tesi sostenuta
dall’Amministrazione finanziaria, in cui, se la definizione dell’interposizione è – forse in maniera
poco felice Рrelegata al solo aspetto della delegazione di pagamento dissimulata, essendo cio̬,
riferita a una limitata frazione del meccanismo complessivamente posto in essere, tuttavia la
sostanza del fenomeno, per quanto qui maggiormente interesse, è sostanzialmente colta dalla
Commissione tributaria regionale con l’affermazione secondo cui il contratto collegato in esame
avrebbe avuto ben altre finalità, nel senso che "le relative somme fittiziamente pattuite per il
suddetto sfruttamento costituirebbero una ben mascherata integrazione del pagamento dello
stipendio di calciatore pagato al D.N.F." (altrove, con riferimento all’indicazione in codice del
nome dell’atleta, ci si riferisce espressamente al "mascheramento del contratto dissimulato, cioè di
quello vero di pattuizione di un extra-ingaggio").
2.2.d. Non potendo, quindi, dubitarsi che la Commissione tributaria regionale abbia correttamente
colto, e posto alla base della sua decisione, la sostanza del fenomeno come sopra descritto,
inquadrandolo altresì, con l’esplicito riferimento al calciatore come "effettivo possessore per
interposta persona" del reddito, nella previsione della disposizione contenuta nel D.P.R. n. 600 del
1973, art. 37, comma 3, la qualificazione giuridica della fattispecie deve essere operata con il
riferimento alla legittimità dell’accertamento in quanto inerente a un meccanismo, come quello
descritto, artificiosamente posto in essere allo scopo di ottenere indebiti vantaggi di natura fiscale.
Giova, in proposito, richiamare l’orientamento che, movendo da ben precise pronunce comunitarie,
ha evidenziato come, anche prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art.
37 bis, fosse presente nel nostro ordinamento il divieto dell’abuso del diritto per conseguire indebiti
vantaggi sul piano fiscale ((Cass., 21 Ottobre 2005, n. 203 98; Cass., 26 ottobre 2005, n. 20816;
Cass., 14 novembre 2005, n. 22932; Cass., 29 settembre 2006, n. 21221; Cass., 17 ottobre 2008, n.
25374).
Di recente le Sezioni Unite di queste Corte hanno affermato che il divieto di abuso del diritto si
traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di
vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati
(nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di
progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non
traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel
disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere
l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione
finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far
discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in
considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento
dell’operazione" (Cass., 23 dicembre 2008, n. 30055; successivamente richiamata da Cass., Sez.
Un., 26 giugno 2009, n. 15029).
Tanto premesso, appare evidente come il complesso delle attività sopra evidenziate, fra loro
coordinate e finalizzate – secondo la tesi recepita nella decisione impugnata – all’occultamento di
parte del compenso corrisposto al ricorrente, non possa considerarsi opponibile
all’Amministrazione finanziaria, che legittimamente può far valere la reale situazione sottesa alla
situazione apparente, allo scopo di affermare la fondatezza della pretesa fiscale.
2.3 – Deve considerasi infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale, in merito alla
utilizzazione di dati emergenti dalle relazioni della società di revisione, o da dichiarazioni di singoli
relatori, ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art.
360 c.p.c., n. 3.
In proposito vale bene richiamare una recente pronuncia di questa Corte (Cass., 12 marzo 2009, n.
5926 ), condivisa dal Collegio, nella cui parte motiva, premessa una ricostruzione dei compiti e
delle responsabilità delineate dal quadro normativo, si è affermato che l’istituto della revisione del
bilancio delle società commerciali si caratterizza per alcuni profili particolarmente forti del suo
regime, quali sono quelli del controllo pubblicistico (iscrizione all’Albo e vigilanza della Consob) e
della responsabilità civile e penale del revisore, che, se pur non consentono di affermare che la
relazione di revisione garantisce la verità del bilancio, vincolano a riconoscere, a pena dell’inutilitÃ
dell’istituto, che essa costituisce una pronuncia qualificata sulla verità della contabilità e del
bilancio. Da tanto si è condivisibilmente desunto che "ogni volta che la relazione di revisione venga
messa a disposizione dell’ufficio tributario e del giudice tributario, le autorità devono tenerla in
conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perche manca una norma
legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia
l’ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della
loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell’ufficio. Tale
prova non può essere fornita attraverso la rilevazione di semplici indizi di non veridicitÃ
relativamente alle motivazioni addotte nella relazione di revisione, ma attraverso la produzione di
documenti che siano idonei a dimostrare che nel giudizio di revisione il revisore è incorso in errore
o ha realizzato un inadempimento. Tra i documenti che sono in grado di esprimere tale forza di
confutazione della relazione di revisione possono annoverarsi, senza che esauriscano la categoria: a)
quelli che dimostrino il carattere omissivo del comportamento del revisore, b) quelli che, pur
tributariamente rilevanti, non siano stati oggetto di valutazione da parte del revisore, perchè non se
ne prevedeva l’inserimento nelle procedure di revisione; c) quelli che sono stati occultati, perchè
idonei a provare comportamenti dolosi".
2.4 – Tanto premesso, deve rilevarsi la fondatezza del terzo e del quarto motivo di ricorso, che
possono essere congiuntamente trattati, in quanto attinenti a vizi della motivazione relativamente
alla prova della percezione dei compensi da parte del D.N..
La questione attiene, principalmente, all’assenza di specifici riferimenti, nella motivazione della
sentenza scrutinata, al tema fondamentale, proposto con l’appello, "della prova della percezione
delle somme da parte del ricorrente".
Sul punto la decisione impugnata appare carente sotto il profilo motivazionale (come affermato da
questa Corte, in relazione ad analoga fattispecie, con la decisione n. 13660/2009), per non aver ben
evidenziato – anche mediante il ricorso a presunzioni – come il ricorrente fosse con certezza
identificabile nella sigla (DOLI) utilizzata nelle fatturazioni (il cui utilizzo, contrariamente a quanto
si afferma nel ricorso, è in ogni caso significativo di attività non ostensibile, epperò fraudolenta; per
non aver affrontato il tema dei rapporti fra lo stesso e la società interposta, in relazione ai
movimenti di danaro ai quali si fa riferimento sia nel ricorso (precisandosi tuttavia che il D.N. non
sarebbe incluso fra i beneficiari diretti dell’erogazione di somme provenienti dalle società estere)
sia nel controricorso, nonchè alle relazioni – anche sotto il profilo diacronico – fra l’attività svolta
dalle società coinvolte nell’affare della cessione dei diritti di sfruttamento dell’immagine e il
contratto intercorso fra il ricorrente e la società sportiva.
Un altro aspetto, che appare contraddittorio, consiste nell’aver la decisione impugnata evidenziato i
rapporti fra le società del gruppo, anche in relazione alla decurtazione dei costi, senza collocare in
tale quadro la posizione del D.N..
2,5. La pronuncia impugnata, pertanto, va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche
per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria regionale della Campania, che procederÃ
a nuovo esame – anche sulla base dei principi di diritto enunciati -della fattispecie concreta.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero
dell’Economia e delle Finanze e compensa le relative spese. Pronunciando sul ricorso proposto
dall’Agenzia delle Entrate, accoglie il terzo e il quarto motivo, e rigetta i rimanenti. Cassa la
sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della
CTR della Campania.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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