Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Esaurite le indagini preliminari, il procedente pubblico ministero traeva a giudizio con citazione diretta i germani M.A. e M.S. e i coniugi R.A. e T. G., contestando loro – in funzione di alternativa reciprocità – speculari reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose concernenti una fascia di terreno litoraneo del comune di (OMISSIS), sulla quale i M. e i coniugi R. vantavano concorrenti e contrapposti diritti reali di proprietà e/o di possesso, divenuti oggetto anche di separato procedimento civile.
All’esito del giudizio di primo grado, sulla base delle testimonianze assunte e dei dati di conoscenza offerti dall’esame degli stessi imputati, il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sezione di Lipari dichiarava A. e M.S. colpevoli del reato di ragion fattasi per avere divelto la recinzione in pali e filo spinato con annesso cartello indicante "proprietà privata T. G.", che i coniugi R.- T. avevano apposto sulla striscia di terreno limitrofa alla loro proprietà, lasciando un varco di due metri per consentire ai M. di transitare e svolgere la loro attività di noleggio e rimessaggio di barche autorizzata dal locale Demanio marittimo. Recinzione e cartello tolti dai M. e sostituiti – rivendicando essi il possesso e l’uso dell’area – con una loro recinzione, senza attendere l’esito del giudizio civile ovvero senza chiedere e ottenere un provvedimento interinale del giudice autorizzante tale recinzione, sostitutiva di quella collocatavi ante causam dai coniugi R..
Per l’effetto, concesse loro le attenuanti innominate, il Tribunale condannava M.A. e M.S. alla pena di Euro 300,00 di multa ciascuno e al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore del R. e della T. costituitisi parti civili. Con la stessa sentenza il Tribunale assolveva il R. (deceduto nel corso del giudizio) e la T. dal reato di cui all’art. 392 c.p. loro ascritto in forma alternativa con la formula del fatto non costituente reato.
2. Giudicando sull’impugnazione dei due M., la Corte di Appello di Messina con sentenza del 29.4.2008 ha confermato la decisione di condanna. In particolare la Corte peloritana ha disatteso la censura di contraddittorietà della decisione del Tribunale, dalle emergenze dibattimentali (esami testimoniali) essendo venuto in luce che i due imputati hanno divelto, per esercitare il loro ritenuto diritto di transito e di possesso, la recinzione allocata sull’area controversa dai coniugi R. e T. senza che vi fosse alcuna impellente necessità di una siffatta azione di presunta autotutela, "tanto più che il transito delle barche noleggiate o custodite dagli imputati era comunque possibile". Sicchè essi ben avrebbero potuto e dovuto far valere in giudizio i loro pretesi od anche erroneamente supposti diritti reali sull’area controversa.
3. La sentenza della Corte territoriale è stata impugnata per cassazione dai due imputati, che hanno addotto i seguenti vizi della decisione.
1. Erronea applicazione dei criteri di valutazione della prova ( art. 192 c.p.p.) e insufficienza ed illogicità della motivazione. I giudici di appello non hanno fornito appaganti risposte alle osservazione critiche esposte con i motivi di gravame contro la sentenza del Tribunale, trascurando di rilevare che le presunte persone offese (parti civili) non potevano vantare alcun effettivo diritto reale sulla porzione di terreno che avevano ritenuto di proteggere con la recinzione rimossa dagli imputati, tant’è che con l’azione civile promossa nel 1999 essi hanno invocato il riconoscimento del loro diritto di proprietà non per un precedente e individuato titolo di acquisto, ma per avvenuta usucapione, pur avendo i due M. sempre a loro volta rivendicato un diritto di godimento su quel terreno, legittimato dall’autorizzazione del Demanio all’esercizio dell’attività di rimessaggio di barche. Le deposizioni testimoniali valorizzate dalla sentenza a sostegno del risalente possesso dell’area da parte dei R.- T. non fugano le incertezze sulla effettiva arbitrarietà della condotta contestata ai due imputati, che pure da lungo tempo vi svolgevano la suddetta attività di ricovero di natanti.
2. In subordine va dichiarata la prescrizione del reato ascritto ai ricorrenti per l’ormai intervenuto decorso del relativo termine.
3. In ulteriore subordine l’entità della pena inflitta ai ricorrenti appare eccessivamente onerosa rispetto ai parametri dettati dall’art. 133 c.p..
4. Le censure che investono il merito giuridico della regiudicanda (primo motivo di ricorso) sono infondate e destituita di ogni pregio, oltre che indeducibile, è la doglianza relativa al motivato trattamento sanzionatorio praticato dalle due conformi decisioni di primo e di secondo grado (la violazione dell’art. 133 c.p., neppure essendo stata, per altro, dedotta con i motivi di appello contro la sentenza del Tribunale). Nella rilevata ammissibilità dell’impugnazione dei ricorrenti il solo motivo meritevole di accoglimento è quello attinente all’attuale spirare del termine massimo di prescrizione del reato per cui è intervenuta condanna.
Il primo motivo di censura non è fondato alla stregua dei lineari e corretti argomenti con cui la Corte di Appello ha disatteso l’asserita carenza probatoria che involgerebbe la ribadita responsabilità dei fratelli M. per il reato di ragion fattasi loro contestato. Ancorchè possa apparire discutibile l’esercizio alternativo dell’azione penale attuato dal procedente p.m., in quanto fonte di possibili dissonanze processuali e valutative (soggetti imputati di un reato che sono al tempo stesso persone offese dell’omologo e contrapposto reato ascritto ai coimputati e viceversa), nel caso di specie l’istruttoria dibattimentale ha consentito di dissolvere le ragioni di incertezza ricostruttive della semplice vicenda processuale prefigurate dai ricorrenti.
Per vero, come pone in luce la sentenza di appello, pur ammettendosi che i coniugi R. e T. non vantassero un accertato diritto di proprietà e/o possesso sulla porzione di terreno confinante con la loro proprietà divenuta oggetto di controversia con i M., non v’è dubbio alcuno che di certo neppure i due imputati potessero valersi di un riconosciuto o diretto titolo all’uso esclusivo di quella stessa porzione di terreno. Le testimonianze assunte accreditano, quanto meno, un anteriore possesso dei coniugi R., concessivo di una sorta di servitù apparente di transito in favore dei M. per lo svolgimento della loro attività lavorativa (i R., secondo i testimoni, assumono l’iniziativa di apporre la recinzione, poi eliminata dagli imputati, solo quando costoro cominciano ad occupare l’area contesa, deponendovi le loro barche). In ogni caso correttamente la sentenza di appello ha evidenziato che il bene giuridico tutelato dall’art. 392 c.p., si identifica con l’interesse a garantire l’esclusiva riconducibilità all’autorità giudiziaria della risoluzione di controversie tra soggetti depositari di pretese contrapposte ed in conflitto ed il nucleo fondante del comportamento sanzionato dal legislatore è tipizzato in funzione del risultato di autotutela diretta perseguito dal soggetto agente con la sua condotta.
Tale argomento del percorso decisorio della Corte di Appello è corretto e conforme all’indirizzo ermeneutico di questa Corte regolatrice. Solo per effetto di un errore prospettico sulla struttura del reato di ragion fattasi il ricorso evoca la priorità e risalenza temporale del diritto di godimento vantato dagli imputati sull’area controversa. Ai fini della realizzazione del reato di cui all’art. 392 c.p., non si richiede, infatti, che il diritto che i soggetti agenti hanno inteso tutelare sia in concreto inesistente, dal momento che la norma incriminatrice sanziona le modalità antigiuridiche (e antisociali) con le quali tale preteso diritto è stato fatto valere in via di fatto, prescindendo dalla sua effettiva esistenza o non. L’infondatezza dei ricorsi dei due imputati non può far velo, tuttavia, alla constatazione che il reato loro contestato è oggi attinto da causa estintiva per decorso del corrispondente termine prescrizionale nella sua massima estensione ex art. 161 c.p., (sette anni e sei mesi). I fatti che integrano l’accusa risalgono, come da imputazione, alla data dell’11.11.1998, con termine massimo di prescrizione spirante l’11.5.2006. Data, quest’ultima, cui si sovrappongono i periodi di sospensione ex lege del termine prescrizionale, corrispondenti – come da consentita verifica documentale dei verbali di udienza dei due giudizi di merito – ad un cumulativo periodo di tre anni, cinque mesi e quattro giorni. La prescrizione è maturata, quindi, alla data del 15.10.2009.
Deve dichiararsi per tanto, annullandosi senza rinvio l’impugnata sentenza, la sopravvenuta causa estintiva del reato in ossequio all’obbligo di immediata declaratoria di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1, in carenza – per le ragioni appena esposte – di elementi che elidano la responsabilità penale dei ricorrenti, delineando situazioni ricadenti nel paradigma di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2. Evenienze da escludersi alla luce della logica e giuridicamente corretta motivazione della sentenza impugnata, unico atto in base al quale questo giudice di legittimità potrebbe individuare il profilarsi di una più propizia causa liberatoria ex art. 129 c.p.p., comma 2, rispetto alla prescrizione (da ultimo: Cass. Sez. 4, 18 92008 n. 40799, Merlo, rv. 241474; Cass. Sez. 6, 12.6.2008 n. 27944, Capuzzo rv. 240955). Rimangono ovviamente intangibili, nell’immanente continuità della costituzione delle parti civili, le statuizioni civilistiche deliberate in loro favore dalle due conformi decisioni di merito.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.
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