Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 16-12-2010) 01-03-2011, n. 7931 Impugnazioni

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 24 ottobre 2009 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, in accoglimento della richiesta del Pubblico Ministero, convalidava il fermo disposto nei confronti di S.L., Ta.Ca., Te.Ni.Ma. e T.A., tutti Carabinieri in servizio presso la Compagnia di (OMISSIS), e contestualmente emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dei primi tre, per concorso nei delitti di cui:

A)- all’art. 615 cod. pen. per essersi i primi due, quali carabinieri scelti, abusando dei poteri inerenti la loro funzione, previo accordo con il terzo, maresciallo capo, introdotti e intrattenuti illegalmente il (OMISSIS) nell’appartamento sito in (OMISSIS), in uso a persona individuata come " N.";

B)- all’art. 317 cod. pen. per avere, nelle circostanze sopra specificate, abusando della loro qualità, con minaccia di gravi conseguenze, costretto M.P., all’epoca Governatore della Regione Lazio, a consegnar loro tre assegni dell’importo complessivo di 20.000,00 Euro;

C)- agli artt. art. 61 c.p., comma 1, n. 9, art. 628 c.p., comma 3, n. 1, per essersi, nelle circostanze sopra specificate, con violazione dei doveri inerenti la funzione esercitata, con modalità intimidatorie derivanti dalle circostanze e dalla condotta descritte nei capi precedenti, impossessati della somma di Euro 5.000,00, appartenente ad altri;

D)- all’art. 61 c.p., comma 1, n. 9, e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, per avere, nelle circostanze sopra indicate, con violazione dei doveri inerenti la funzione esercitata, detenuto illegalmente un quantitativo non determinato di cocaina.

La misura non veniva disposta nei confronti dei predetti per il delitto, di cui al capo E) – della sussistenza del quale pur si argomentava in motivazione -, p. e p. dall’art. 615-bis c.p., comma terzo, cod. pen., per essersi, nelle circostanze sopra indicate, con violazione dei doveri inerenti la funzione esercitata, mediante l’uso di strumenti di ripresa audio-video, procurati indebitamente immagini attinenti alla vita privata di quanti si trovavano all’interno dell’appartamento citato nel capo A), nel quale si erano abusivamente introdotti.

Nei confronti del T. il G.i.p. disponeva, con la medesima ordinanza, la custodia carceraria per il delitto, di cui al capo F), p. e p. dagli artt. 61, n. 9, e 648 cod. pen. per avere, con violazione di doveri inerenti la funzione esercitata, al fine di procurare a sè e ai predetti S., Ta. e Te. un profitto, ricevuto, per farne commercio, in epoca compresa tra i mesi di luglio ed ottobre 2009, il video realizzato nelle circostanze descritte nel capo E).

Con ordinanza del 9 novembre 2009 emessa in sede di riesame il Tribunale di Roma, mentre confermava l’ordinanza cautelare nei confronti del S. e del Ta. (esclusa solo, quanto al delitto di cui al capo D, l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6), nonchè del T. (al quale sostitutiva però la custodia in carcere con gli arresti domiciliari), la annullava nei confronti del Te., di cui disponeva la liberazione, ritenendo carenti, allo stato, sotto il profilo della gravità, gli indizi raccolti a suo carico.

Avverso tale decisione proponeva, fra gli altri, ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma con riguardo all’annullamento del provvedimento cautelare nei confronti del Te.. La Corte di cassazione (Sez. 4) con sentenza emessa il 24 febbraio 2010 e depositata il 19 aprile 2010 (con il n. 15082) annullava l’ordinanza del riesame nei confronti del Te., con rinvio al Tribunale di Roma.

Nelle more, e sulla scorta dei rilievi formulati dal Tribunale del riesame con il provvedimento del 9 novembre 2009, il Pubblico ministero proseguiva le indagini.

I nuovi elementi confermavano – secondo l’accusa – l’ipotesi del concorso del Te. nella realizzazione dei reati di cui ai surriportati capi A, B, C, D ed E. Visto, poi, il ruolo centrale avuto nella vicenda da C. G., erano state approfondite le indagini anche in relazione alla morte dello stesso, verificatasi il (OMISSIS) a seguito (secondo quanto risultava dalla consulenza autoptica) di assunzione di eroina e cocaina in concentrazione letale.

Stando all’accusa, l’insieme degli elementi emersi dimostravano che la morte del C. fosse il risultato di una condotta dolosa del Te., volta all’eliminazione di un testimone scomodo.

Alla stregua di tanto, prima ancora che venisse depositata la motivazione della succitata sentenza rescindente di questa Corte, veniva richiesta nei confronti del Te. nuova misura cautelare sia per i reati di cui ai predetti capi A, B, C, D ed E, sia per i reati, commessi il (OMISSIS), di cui:

H)- all’art. 61 c.p., primo 1, n. 2, e D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 80, comma 1, lett. e), per avere, al fine di eseguire il reato di cui al capo 1), ceduto a C.G. un quantitativo imprecisato di eroina e cocaina, in miscela tale da accentuarne la potenzialità lesiva;

I)- all’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, art. 575 c.p., e art. 577 c.p., comma 1, nn. 2 e 3, per avere cagionato la morte del C., come conseguenza dell’assunzione della miscela letale cedutagli, al fine di procurare a sè, al S. e al Ta. l’impunità per i delitti di cui ai capi da A) ad E), agendo con premeditazione e servendosi di sostanza venefica.

Con ordinanza del 29 marzo 2010 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma recepiva pressochè integralmente l’impianto accusatorio, respingendo la richiesta solo per il capo D. Con ordinanza in data 12 aprile 2010 il Tribunale di Roma, investito ex art. 309 cod. proc. pen. della richiesta di riesame nell’interesse del Te., confermava l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari.

Il Tribunale respingeva fra l’altro, in via preliminare, l’eccezione procedurale relativa alla illegittimità e/o inammissibilità della reiterazione della misura e della richiesta del Pubblico ministero per i reati commessi il (OMISSIS), affermando la non pertinenza del principio fissato da Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, dep. 20/04/2004, imp. Donelli, in quanto nel caso in esame il P.M., al momento della proposizione del ricorso per cassazione, non era ancora in possesso degli elementi nuovi posti a fondamento della seconda richiesta cautelare, e non poteva di conseguenza porsi, nella situazione data (simile a quella conformemente decisa da Sez. 2, n. 6798 del 16/12/2004, dep. 22/02/2005, imp. Rizzo), alcun problema di deducibilità di nuovi elementi nè di possibilità per il P.M. di abnorme conseguimento di due titoli cautelari diversi, l’uno a sorpresa, l’altro all’esito di contraddittorio camerale. D’altronde la eventuale sovrapposizione di giudizi cautelari ben avrebbe potuto risolversi con una declaratoria d’inammissibilità per carenza d’interesse dell’originaria impugnazione (secondo quanto affermato da Sez. 6, n. 24129 del 8/05/2008, dep. 13/06/2008, imp. Del Nogal Marquez). A sostegno dell’infondatezza della tesi difensiva, e della differenza di regole a seconda della diversità della fase in cui sopravveniva la nuova richiesta del p.m., richiamava ancora Sez. 3, n. 36360 del 09/07/2009, dep. 21/09/2009, imp. Castiglione. Rilevava infine che neppure era pertinente Sez. 6, n. 11937 del 26/02/2009, dep. 18/032009, P.M. in proc. Mautone, perchè tale decisione riguardava una rinnovazione della richiesta cautelare per lo stesso fatto e in base agli stessi elementi.

Quanto alla denunziata violazione del divieto di bis in idem rilevava che la giurisprudenza di legittimità appariva pacifica nel ritenere che nulla impedisce l’emissione di ordinanze successive aventi ad oggetto lo stesso fatto, operando in tale ipotesi (come puntualizzato da Sez. 4, n. 41370 del 30/10/2001, dep. 20/11/2001, imp. Boddli, e Sez. 2, n. 20926 del 11/05/2005, dep. 06/06/2005, imp. Varesi) il meccanismo di garanzia dell’art. 297 c.p.p., comma 3. Nella specie le due ordinanze cautelari non apparivano fra l’altro neppure perfettamente sovrapponigli, in quanto solo la prima, e non anche la seconda, aveva disposto la misura per il reato di cui al capo D), e solo la seconda, e non anche la prima, l’aveva disposta per il reato di cui al capo E).

2. Ha proposto ricorso l’indagato a mezzo del difensore avvocato Valerio Spigarelli, chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata.

Oltre a denunciare (col terzo motivo) l’inutilizzabilità di alcune dichiarazioni, nonchè (col quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo motivo) il vizio di motivazione in relazione a tutti i capi ascritti e alla sussistenza ed entità delle esigenze cautelari, con il primo motivo denunzia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), l’illegittimità del provvedimento del Tribunale del riesame per mancata declaratoria di nullità dell’ordinanza impositiva della custodia cautelare in carcere del 29 marzo 2010 in relazione ai capi A), B), C) ed E), per incompetenza funzionale del Giudice per le indagini preliminari ad emetterla, in ragione del fatto che per quei medesimi reati era stata già emessa dal G.i.p. del medesimo Tribunale l’ordinanza cautelare in data 24 ottobre 2009, in relazione alla quale pendeva ancora il giudizio d’impugnazione coltivato dal Pubblico ministero con il ricorso per cassazione avverso annullamento ad opera del Tribunale distrettuale, cui era seguito l’annullamento con rinvio di detto provvedimento (in forza della già citata sentenza di questa Corte, Sez. 4, n. 15082 del 24/02/2010, dep. 19/04/2010), essendo ancora in corso – vuoi all’atto della emissione della nuova misura vuoi al momento della decisione impugnata – il giudizio di merito sul riesame, nella fase del rinvio.

Osserva che, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, la circostanza che il Pubblico ministero avesse accompagnato la sua richiesta di reiterazione del titolo con una, per altro limitatissima, integrazione probatoria, non bastava a legittimare la contemporanea pendenza di due procedimenti cautelari aventi identico oggetto e che l’emissione di nuova misura per gli stessi fatti si poneva in aperta violazione dei principi affermati da Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, dep. 20/04/2004, imp. Donelli.

Ampiamente illustrando le ragioni – teoriche e pratiche – del dissenso, denuncia in particolare: – la lettura parziale di Sez. U Donelli; – l’impertinenza degli arresti citati nel provvedimento impugnato, anch’essi letti parzialmente; -la mancata corretta considerazione della circostanza che al momento della reiterazione della domanda l’annullamento della cassazione aveva già aperto la fase del giudizio di rinvio, nel cui ambito qualsiasi novità si sarebbe potuta allegare (anche, tra l’altro, quelle acquisite quindi per incidente probatorio che avevano prodotto sia l’attenuazione delle esigenze cautelari di natura probatoria sia l’erosione della ricostruzione posta a base dell’impianto a carico dell’indagato); – la concreta possibilità del determinarsi, per effetto della reiterazione della misura a sorpresa, di un conflitto tra decisioni.

Reitera inoltre, nell’ambito del medesimo motivo, le eccezioni formulate con il riesame quanto alla contestazione riferita al capo E), deducendo: – da un lato, che, pur non essendo tale capo oggetto, formalmente, della precedente misura cautelare, in essa dovevano ritenersi sostanzialmente compresi, e assorbiti, anche i fatti contestati in detto capo, commessi in inscindibile unitarietà di condotta con gli altri; – dall’altro e in linea subordinata, che in relazione a detto capo v’era mancanza grafica di motivazione nell’ordinanza cautelare, non suscettibile d’integrazione ad opera del Tribunale.

Segnala infine che la difesa non aveva sostenuto che il Pubblico Ministero avrebbe dovuto tralasciare di coltivare il ricorso per Cassazione, essendosi limitata a rilevare la alternatività delle due linee di condotta processuale.

Con il secondo motivo il ricorrente denunzia, sempre in relazione alla reiterazione della domanda cautelare per i capi A), B), C) ed E), violazione di legge per la radicale irricevibilità di siffatta richiesta del Pubblico ministero, sulla base dei principi di consunzione e del divieto di bis in idem – valevoli per tutte le domande di parte -, affermati da Sez. U, n. 34655 del 29/09/2005, dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati. E aggiunge che il Tribunale neppure avrebbe potuto ritenere inapplicabili tali principi nell’ipotesi in esame sul presupposto che le due ordinanze si fondavano su dati probatori diversi, giacchè la nozione di stesso fatto (desumibile dall’art. 649 cod. proc. pen.) va riferita alla identità storico-fattuale, sotto il profilo naturalistico, delle condotte oggetto di contestazione, e su di essa non possono incidere gli aspetti attinenti al corredo probatorio. Sostiene, in altri termini, che, se la caratteristica della preclusione procedi menta le derivante da giudicato cautelare non può che essere riferita allo "stato degli atti", ciò non di meno non è consentito inscenare contemporaneamente più incidenti cautelari a carico del medesimo soggetto per lo stesso fatto in base a differenti elementi.

Anche con riguardo a tale eccezione il ricorso rileva quindi che il capo E) doveva ritenersi di fatto compreso nella precedente contestazione cautelare e afferma l’incongruenza dell’osservazione che la richiesta non risultava accolta quanto al capo D (addebito di concorso nella detenzione illegale di cocaina ascritta a S. e Ta.), giacchè il vizio d’inammissibilità era da riferire alla richiesta, non alla pronunzia.

3. Il ricorso presentato nell’interesse del Te. è stato assegnato alla Sezione prima, che con ordinanza dell’11 novembre 2010, n. 40213, ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto tra l’orientamento fissato dalle stesse attraverso le già citate sentenze Donelli e Donati e quello espresso successivamente da alcune pronunzie delle sezioni semplici, con riferimento ai limiti della preclusione all’esercizio dell’azione cautelare in pendenza di gravame sul provvedimento applicativo di misure cautelari personali adottato in precedenza nei confronti del medesimo soggetto e per i medesimi fatti.

4. Il Primo Presidente, con decreto del 15 novembre 2010, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
Motivi della decisione

1. La questione rimessa al Collegio, costituente oggetto dei primi due motivi di ricorso, riguarda specificamente "la sussistenza e i limiti del potere del pubblico ministero, nelle more del giudizio di rinvio conseguente all’annullamento della decisione del tribunale del riesame di revoca della misura cautelare, di richiedere utilmente, sulla base di nuovi elementi, suscettibili di prospettazione anche in detto giudizio, l’emissione di una nuova misura cautelare nei confronti dello stesso soggetto e per i medesimi fatti". Essa si ricollega al più generale problema di quello che viene comunemente denominato "giudicando cautelare", e cioè dell’interferenza fra pendenza in atto di un procedimento cautelare e nuova iniziativa cautelare relativa allo stesso fatto.

E’ da chiarire preliminarmente che la predetta questione – come il terzo e il quarto motivo di ricorso -, pur posta in modo unitario per tutti i reati del (OMISSIS), non è formalmente sorretta da un attuale interesse per i reati di cui ai capi A, B ed E, in ordine ai quali con ordinanza del 22 novembre 2010 il G.i.p. del Tribunale di Roma ha dichiarato cessata la efficacia della misura per decorso dei termini massimi di fase, mentre lo conserva per il capo C, relativamente al quale l’ordinanza suddetta ha sostituito la custodia carceraria con gli arresti domiciliari.

Com’è noto, invero, la pronuncia inoppugnabile di annullamento della misura cautelare costituisce una decisione idonea a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per ingiusta detenzione ( art. 314 cod. proc. pen.), ancorchè soltanto con riferimento alla custodia cautelare, carceraria o domiciliare (Sez. U, n. 22 del 12/10/1993, dep. 20/12/1993, imp. Corso, Rv. 195357). Il raccordo tra interesse all’impugnazione e diritto alla riparazione per ingiusta detenzione ( art. 314 cod. proc. pen.) opera limitatamente alla deduzione dell’insussistenza delle condizioni genetiche o speciali previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., con esclusione delle esigenze cautelari (Sez. U, n. 21 del 13/07/1998, dep. 24/09/1998, imp. Gallieri, Rv. 211194; Sez. U, n. 7 del 25/06/1997, dep. 18/07/1997, imp. Chiappetta, Rv. 208165; Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, dep. 28/07/2006, imp. Prisco, Rv. 234268).

In linea di principio può quindi sussistere, sotto il profilo di cui al cit. art. 314, l’interesse dell’indagato a una pronuncia sul ricorso attinente alla legittimità della custodia cautelare, in punto di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o, più in generale, dei presupposti per poterli porre a base della sua applicazione (v., sulla graduale estensione del campo applicativo del disposto di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, Sez. U, n. 8388 del 22/01/2009, dep. 24/02/2009, imp. Novi, e Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, dep. 30/08/2010, imp. D’Ambrosio), quando la stessa non sia più in atto.

E’ stato peraltro puntualizzato nella più recente giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 27580 del 16/04/07, dep. 12/07/2007, imp. Romano, Rv. 237418; Sez. 6, n. 38855 del 16/10/07, dep. 19/10/2007, imp. Russo, Rv. 237658; Sez. 2, n. 34605 del 26/06/08, dep. 03/09/2008, imp. Pennisi, Rv. 240702; Sez. 6, n. 37764 del 21/09/2010, dep. 22/10/2010, imp. Fabiano, Rv. 248245) che anche in caso di contestazione della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari necessita ugualmente la verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse, richiedendo l’art. 568 c.p.p., comma 4, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione) di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato. La regola contenuta nel citato art. 568 è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame;

nè un tale interesse può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento.

Ora, un’applicazione pressochè automatica dei principi posti dalla succitata giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla persistenza dell’interesse alla pronuncia presenta il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l’indagato agisca anche all’utile fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2.

Oltre, infatti, alla ipotesi di palese insussistenza dell’interesse concreto ed attuale, contemplata nel citato art. 314, comma 4 (che esclude che la riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo), bisogna in generale considerare che il procedimento per la riparazione dei danni da ingiusta detenzione non può comunque essere attivato prima che vi sia stata una pronuncia conclusiva del procedimento principale nei confronti dell’accusato ( art. 315 cod. proc. pen.).

Da tanto consegue che l’interesse a coltivare il ricorso in materia de libertate in riferimento a una futura utilizzazione della pronuncia in sede di riparazione per ingiusta detenzione dovrà essere oggetto di una specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dalla omissione della pronuncia medesima.

Considerato poi che la domanda di riparazione – come si evince dal coordinato disposto dell’art. 315 c.p.p., comma 3 e dell’art. 645 c.p.p., comma 1 – è atto riservato personalmente alla parte, occorre che l’intenzione della sua futura presentazione sia con certezza riconducibile alla sua volontà (Sez. 6, n. 3531 del 14/01/2009, dep. 27/01/2009 imp. Gervasi, Rv. 242404).

Ora, nella specie, non risulta che (in ordine ai reati di cui ai capi A, B ed E) a tale onere di specifica e personale deduzione si sia adempiuto.

2. Ciò premesso, si osserva che la tesi della configurabilità di una preclusione all’adozione di un provvedimento applicativo di una misura cautelare nei confronti di un soggetto, nella pendenza del riesame dallo stesso proposto su analogo precedente provvedimento avente ad oggetto il medesimo fatto, viene sostenuta nel ricorso, e prospettata nell’ordinanza, tendenzialmente adesiva, della Sezione rimettente, sulla base dei principi affermati nelle sentenze Donelli e Donati delle Sezioni Unite. La prima ha stabilito che il pubblico ministero, nella pendenza di un appello cautelare da lui promosso contro il rigetto della richiesta di una misura restrittiva della libertà, è legittimato a proporre nuovi elementi di prova nello stesso giudizio impugnatorio e può valutare se scegliere tale strada o utilizzare quegli stessi elementi per una nuova richiesta al giudice cautelare, ma, tuttavia, nel caso di proposizione di nuova domanda, sussisterebbe per il giudice destinatario una preclusione a provvedere fino a quando non intervenga la decisione sull’appello. La seconda ha affermato sussistere preclusione all’esercizio dell’azione penale, anche prima della sentenza irrevocabile in un precedente giudizio per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona, avuto riguardo all’ufficio di procura che aveva già promosso la prima azione.

Secondo la Sezione rimettente, sebbene la situazione processuale oggetto della citata Sezioni Unite Donelli (appello del p.m. ex art. 310 cod. proc. pen. avverso l’ordinanza di rigetto del g.i.p. della richiesta di applicazione di misura cautelare) fosse differente da quella venutasi a creare nel presente procedimento (giudizio di riesame a seguito di rinvio disposto in sede di legittimità a seguito dell’annullamento del provvedimento di caducazione dell’ordinanza applicativa da parte del Tribunale della libertà adito dall’indagato ex art. 309 cod. proc. pen.), i principi affermati nell’occasione dal Supremo Collegio parrebbero assumere una portata generale in grado di trascendere la fattispecie che ne aveva occasionato la pronunzia e di attrarre, quindi, nel proprio ambito applicativo anche l’odierna fattispecie. In particolare l’ordinanza di rimessione per un verso evidenzia che la sentenza Donelli, nell’affermare la preclusione alla rinnovazione dell’azione cautelare fondata su nuovi elementi di prova in pendenza dell’appello sul rigetto di precedente richiesta cautelare avanzata in riferimento allo stesso fatto, non ha condizionato la sussistenza di tale preclusione all’ipotesi dell’effettiva deduzione anche nel giudizio di impugnazione dei nova probatori (limitandosi in proposito a riconoscere all’organo d’accusa la facoltà di procedere a tale deduzione); per l’altro sottolinea come i limiti dell’orizzonte cognitivo del giudice del riesame sono suscettibili di estensione – su iniziativa tanto dell’accusa che della difesa -anche più di quelli del giudice dell’appello cautelare, senza che assuma rilevanza il fatto che il giudizio di riesame si celebri a seguito di rinvio, dovendo trovare applicazione anche nell’incidente cautelare, secondo l’interpretazione consolidatasi in proposito, il disposto dell’art. 627 c.p.p., comma 2.

Nè, ad avviso della Sezione rimettente, sembra rilevare in senso contrario che il nuovo esercizio dell’azione cautelare sia intervenuto tra la decisione di annullamento con rinvio ed il deposito della sentenza di annullamento, atteso che tale circostanza non incide sulla effettiva pendenza dell’impugnazione cautelare, che costituisce il presupposto dei principi affermati dalle Sezioni Unite. Ancora, al fine di contestare la rilevanza della particolare fase in cui si è nella specie esercitata la nuova iniziativa cautelare, l’ordinanza di rimessione sottolinea come il giudizio di rinvio può esitare tanto nella conferma del provvedimento impugnato, determinando la contestuale efficacia di due titoli cautelari ad identico oggetto, quanto nella conferma del suo annullamento, dando vita a un potenziale contrasto di giudicati cautelari, visto che il Tribunale del riesame ha già confermato la seconda misura cautelare adottata nei confronti del Te..

Pertanto il principio affermato dalla sentenza Donelli – per cui la pendenza dell’appello cautelare introdotto dal pubblico ministero preclude al g.i.p. la decisione sull’eventuale nuova richiesta cautelare sul medesimo oggetto, ancorchè fondata su nuove prove, fino alla conclusione del procedimento di impugnazione, potendo invece il titolare dell’azione cautelare riversare i nova, nel rispetto del contraddittorio con l’indagato, nel giudizio di appello – potrebbe trovare applicazione per i giudici rimettenti anche nel caso in cui la forma di manifestazione dell’impugnazione cautelare sia quella del riesame, a prescindere che il relativo giudizio consegua o meno all’annullamento con rinvio disposto dal giudice di legittimità.

Tale conclusione parrebbe corroborata, secondo l’ordinanza di rimessione, dagli approdi interpretativi raggiunti, sempre dalle Sezioni Unite, con la successiva sentenza Donati.

L’ordinanza di rimessione sembra in particolare cogliere in questa sentenza l’affermazione per cui la preclusione-consumazione riguardi ogni tipo d’azione, compresa dunque quella cautelare. Affermazione che costituirebbe la saldatura con la sentenza Donelli e, al contempo, proietterebbe quest’ultima oltre i limiti della fattispecie decisa, ancorando la preclusione ivi configurata allo stesso fatto della litispendenza tra impugnazione cautelare e il nuovo procedimento incidentale innescato dalla reiterazione della richiesta del pubblico ministero, e ciò a prescindere da ulteriori considerazioni in merito al momento di acquisizione degli eventuali nova (e in effetti la ricostruzione effettuata nella sentenza Donati prescinde da eventuali considerazioni circa il fatto che la reiterazione dell’azione penale si fondi su una diversa piattaforma probatoria).

Dopo tale prospettazione delle implicazioni generali desumibili dalle citate pronunzie delle Sezioni Unite, l’ordinanza di rimessione prende atto che la successiva giurisprudenza di legittimità a sezioni semplici non ha interpretato in modo univoco il fenomeno della contemporanea pendenza di iniziative cautelari aventi lo stesso oggetto. In proposito l’ordinanza passa in rassegna una serie di pronunzie, le quali, in alcuni casi, sembrano leggere la regola indicata dalla sentenza Donelli come una sorta di principio di alternatività degli strumenti cautelari messi a disposizione del pubblico ministero, con la conseguenza della caducazione di quello comunque attivato posteriormente (fosse pure – a fronte di una nuova richiesta cautelare – l’impugnazione del provvedimento adottato per primo), mentre in altri casi tendono a conferire uno statuto speciale alle ipotesi contraddistinte da sopravvenienze cautelari o probatorie.

Così, ad avviso di Sez. 1, n. 47212 del 13/12/2005, dep. 23/12/2005, P.M. in proc. Romito, Rv. 233272, se nel corso del giudizio sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, il p.m. adduce elementi probatori nuovi, già posti a base di una rinnovata domanda cautelare avanzata al g.i.p., l’appello deve essere dichiarato inammissibile sulla base del principio di alternatività tra le iniziative esperibili dalla parte pubblica in merito alla domanda cautelare in presenza degli elementi probatori nuovi (osserva la Corte che "se è vero che nel discorso giustificativo della decisione il massimo consesso ha espressamente configurato l’esistenza di una "preclusione a decidere" nei confronti del g.i.p., ove il p.m., in pendenza di appello ex art. 310 cod. proc. pen., abbia nuovamente esercitato l’azione cautelare nelle forme di cui all’art. 291 cod. proc. pen., non esiste alcuna ragione per escludere che lo stesso effetto preclusivo si verifichi nei confronti del giudice dell’appello nel caso opposto, ove cioè il p.m. abbia insistito in questa sede nell’azione cautelare … adducendo nuovi elementi già posti tuttavia a base di una rinnovata domanda cautelare avanzata al g.i.p.: anche in tal caso, infatti, si verifica il rischio di quelle interferenze che il principio affermato dalla sentenza Donelli tende ad evitare").

In senso conforme Sez. 2, n. 18110 del 13.4.2005, dep. 13/05/2005, imp. Russo, non massimata (relativa a situazione in cui prima dell’appello cautelare, dichiarato per tale ragione inammissibile, il p.m. aveva avanzato al g.i.p. nuova richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere fondandola anche su elementi nuovi; il g.i.p. aveva accolto la domanda ma il tribunale del riesame aveva annullato il provvedimento; tale decisione era stata impugnata dal p.m. con il ricorso per cassazione), precisa che la sentenza Donelli non si prestava ad essere interpretata nel senso di limitare il principio dell’alternatività al solo caso in cui fosse già intervenuto un provvedimento cautelare che aveva acquistato stabilità.

Ad avviso di Sez. 3, n. 40838 del 11/10/2005, dep. 10/11/2005, imp. Ighodaro, Rv. 232476, in caso di appello del p.m. avverso ordinanza del g.i.p., la richiesta di nuova misura, pendente il primo, è ammissibile se si basa su una effettiva modifica situazione processuale quale potrebbe anche essere un serio pericolo di fuga.

Con riferimento all’ipotesi in cui, pendendo ricorso per cassazione del p.m. avverso la revoca della misura cautelare, lo stesso p.m. richieda nuova misura cautelare, Sez. 2, n. 6798 del 16/12/2004, dep. 22/02/2005, imp. Rizzo, afferma invece che le rationes decidendi della sentenza Donelli non ricorrono in caso di rinnovazione dell’azione cautelare in pendenza di ricorso per cassazione, "non ponendosi in sede di legittimità un problema di acquisibilità del novum".

Conformemente si esprimono, relativamente ad analoghe situazioni:

Sez. 5, n. 19855 del 22/03/2006, dep. 12/06/2006, imp. Blandino, e Sez. 6, n. 24129 del 08/05/2008, dep. 13/06/2008, imp. Del Nogal Marquez, Rv. 240530 (che sottolinea altresì come, d’altronde, "nessuna preclusione sarebbe ipotizzatile con riferimento ad una nuova richiesta di revoca proveniente dall’indagato e basata su elementi sopravvenuti o non dedotti in precedenza"): entrambe nel senso che in caso di ricorso per cassazione del p.m. avverso revoca della misura cautelare, la pendenza del ricorso non preclude la nuova misura se basata su elementi nuovi.

3. Per quanto concerne la dottrina, non si rilevano particolari apporti sull’argomento in discussione.

In sede di ricognizione, prevalentemente adesiva, della giurisprudenza formatasi sul c.d. giudicato cautelare, si tende in genere ad estenderne i criteri operativi anche al giudicando cautelare.

In ordine in particolare alla sentenza Donelli si rinvengono critiche alla scelta interpretativa di fondo di riconoscere alle parti il potere di dilatare la piattaforma cognitiva del giudice dell’appello cautelare, individuandosi in tale opzione la causa della potenziale interferenza tra iniziative cautelari, la cui concorrenza in concreto troverebbe comunque una legittimazione e una regolazione nell’ordinamento nella disciplina prevista dall’art. 297 cod. proc. pen..

Sotto altro profilo si è rilevato che la decisione delle Sezioni Unite non pregiudica comunque l’esigenza del pubblico ministero di conseguire una tempestiva risposta cautelare a fronte dell’urgenza generata dall’acquisizione dei nova, atteso che in tal caso, al fine di evitare la preclusione alla nuova iniziativa cautelare, egli ben potrebbe rinunciare all’appello precedentemente attivato.

4. Un corretto approccio alla soluzione della questione oggetto di rimessione impone anzitutto il doveroso approfondimento degli snodi argomentativi che scandiscono la motivazione delle due menzionate pronunzie delle Sezioni Unite. Partendo dalla prima di esse (Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, dep. 20/04/2004, imp. Donelli, Rv 227357- 227358-227359), rilevasi che nell’occasione il Supremo Collegio era stato chiamato a risolvere il contrasto sull’acquisibilità ed utilizzabilità nell’appello cautelare degli elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impugnato e presentati dalle parti, confrontandosi nel caso concreto con una fattispecie relativa al deposito da parte del pubblico ministero, in sede di appello dallo stesso proposto avverso il rigetto di una richiesta cautelare, degli esiti delle indagini svolte successivamente alla reiezione della domanda, produzione ammessa dal Tribunale che poi l’aveva utilizzata ai fini del ribaltamento della decisione del giudice di prime cure.

Questione risolta positivamente dalle Sezioni Unite, sulla base della rilevata simmetria (imposta dai codificatori come emerge dalla Relazione al codice di rito del 1988) tra appello cautelare e appello nel processo di merito, in forze della quale, dovendosi riconoscere al giudice dell’appello cognitivo introdotto dal pubblico ministero, pur nella restrizione del perimetro della cognizione del giudice investito della revisione critica del provvedimento ai punti della decisione effettivamente devoluti attraverso l’impugnazione, la legittimazione a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della motivazione del provvedimento impugnato che non abbiano formato oggetto di specifica critica, anche la cognizione del giudice dell’appello cautelare non può intendersi limitata ai singoli punti oggetto di specifica censura, ma deve ritenersi estesa all’integrale verifica delle condizioni e dei presupposti edittali che legittimano l’adozione della misura cautelare. In tal senso i motivi dell’impugnazione "segnano le ragioni del disaccordo rispetto al provvedimento recettivo e delimitano i confini dell’originaria domanda cautelare" in riferimento ai fatti ed alle circostanze oggetto di contestazione, ma al di là di questo limite la cognizione e la decisione del giudice dell’appello si estende "all’intero thema decidendum" e cioè all’esistenza di tutti i presupposti per l’adozione dell’invocato intervento cautelare.

A un simile allargamento dell’ambito decisionale non può non corrispondere per le Sezioni Unite una "pari ampiezza del materiale cognitivo". Ed in proposito, posto che il tradizionale modello di rito camerale (quale è quello previsto per l’appello de libertate) prevede che il dibattito si svolga sugli elementi precostituiti dalle parti – escludendosi la mutuabilità del modulo di rinnovazione dell’istruzione disciplinato dall’art. 603 cod. proc. pen. per l’appello cognitivo (ritenuto non esportabile per motivi che attengono alla struttura delle due diverse impugnazioni) -, la sentenza Donelli afferma che all’indagato deve essere consentita la produzione di nuovo materiale probatorio "sia preesistente che sopravvenuto" idoneo a contrastare i motivi di gravame dell’accusa o comunque a dimostrare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura cautelare.

Da tale affermazione consegue per il Supremo Collegio, in ragione dell’esigenza di garantire in maniera effettiva il contraddittorio camerale in posizione di parità tra le parti, il riconoscimento anche al pubblico ministero della facoltà di introdurre eventuali nuovi elementi di prova nei limiti del devolutum. Ed in proposito la sentenza Donelli afferma che tali devono essere qualificati non solo quelli effettivamente sopravvenuti alla decisione reiettiva impugnata, ma altresì quelli ad essa preesistenti e non allegati all’originaria domanda cautelare ovvero quelli che, seppure allegati, non siano stati presi in considerazione dal primo giudice, i quali ultimi devono per l’appunto essere ritenuti "nuovi" rispetto a quelli su cui è fondata l’ordinanza impugnata e menzionati dal comma 2 dell’art. 310 cod. proc. pen. Ed in tal senso le Sezioni Unite si fanno carico anche dell’eccezione avanzata nell’occasione dal ricorrente, secondo cui ammettere il potere dell’accusa di riversare i nova nell’appello invece di attivare un nuovo incidente cautelare priverebbe l’indagato della doppia garanzia dell’interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen. e del giudizio di riesame. In proposito la sentenza Donelli osserva come tali presunti deficit di garanzia siano abbondantemente compensati dalla necessità che si instauri un preventivo contraddittorio sulle produzioni accusatorie, oggetto di discovery già prima della decisione del giudice (contrariamente a quanto avviene nel caso di adozione del provvedimento cautelare "a sorpresa"), nonchè dal divieto di immutazione peggiorativa dell’originaria richiesta e dal mantenimento da parte del cautelando dello status libertatis fino alla definitività della decisione assunta dal giudice d’appello in senso eventualmente favorevole alle ragioni del pubblico ministero impugnante.

E’ a questo punto, e solo a questo punto, che la sentenza Donelli introduce il principio invocato dal ricorrente e richiamato dalla Sezione rimettente. Dovendosi infatti confrontare con l’ulteriore obiezione per cui la produzione da parte dell’accusa di materiale probatorio inedito potrebbe interferire con la possibilità che lo stesso pubblico ministero possa contemporaneamente decidere di ricominciare l’azione cautelare richiedendo al g.i.p. l’emissione di una nuova misura cautelare fondata sugli stessi elementi riversati nel giudizio d’appello, col duplice rischio di un potenziale contrasto di decisioni e della potenziale concorrenza di due titoli cautelari dall’identico contenuto, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio: "qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, è precluso al giudice, in pendenza del procedimento di appello, decidere in merito alla medesima domanda cautelare".

Nella relativa argomentazione si osserva come sia sbagliato ritenere che i due provvedimenti possano entrare in rapporto di concorrenza, dovendosi più correttamente configurare il rapporto tra le diverse opzioni assegnate alla pubblica accusa in termini di "alter natività". E ciò in quanto "non può invero consentirsi all’organo dell’accusa, nell’investire della decisione sulla stessa azione cautelare diversi giudici, di perseguire l’abnorme risultato di un duplice, identico, titolo, l’uno a sorpresa e immediatamente esecutivo, l’altro disposto all’esito di contraddittorio camerale e del quale resta sospesa l’esecutività fino alla decisione definitiva".

Nel fare tali affermazioni il Supremo Collegio non ha mancato di espressamente ribadire che gli elementi probatori "nuovi" sono tanto quelli preesistenti che quelli sopravvenuti, chiarendo che la soluzione interpretativa adottata non muta nell’ipotesi in cui la loro acquisizione sia successiva al provvedimento del giudice primae curae ovvero alla stessa proposizione dell’impugnazione. Ciò che conta è che l’appello cautelare sia pendente nel momento in cui viene nuovamente esercitata l’azione cautelare e che dunque sia concretamente accessibile al pubblico ministero l’opzione del riversamento in tale giudizio dei nova.

Successivamente alla sentenza Donelli è intervenuta, come accennato, Sez. U, n. 24655 del 28/06/2005, dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati, Rv 231800, la quale ha affermato il seguente principio: "Non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del p.m., di talchè nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. La non procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal p.m., ma riguarda solo le situazioni di litispendenza relative a procedimenti pendenti avanti a giudici egualmente competenti e non produttive di una stasi del rapporto processuale, come tali non regolate dalle disposizioni sui conflitti positivi di competenza, che restano invece applicabili alle ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici di diverse sedi giudiziarie, uno dei quali è incompetente" (principio questo consolidatosi nella giurisprudenza successiva: v. ex multis Sez. 4, n. 25640 del 21/05/2008 dep. 24/06/2008, P.M. in proc. Marella, Rv.

240783).

La sentenza Donati ha in sostanza consolidato – con opportune precisazioni – un orientamento sviluppatosi in tempi recenti nella giurisprudenza della Corte (ed emerso per la prima volta in Sez. 5, n. 1919 del 10/07/1995, dep. 02/10/1995, imp. Pandolfo, Rv. 202653), teso a far emergere la forza espansiva del principio del divieto di bis in idem contenuto nell’art. 649 cod. proc. pen.. Sulla scorta della ratio sottesa alla disciplina dei conflitti positivi di competenza e dei contrasti positivi tra uffici del pubblico ministero, tale orientamento, trascendendo il dato testuale della norma citata, ha esteso la portata della preclusione alla duplicazione di processi aventi ad oggetto il medesimo fatto anche all’ipotesi in cui il primo esercizio dell’azione penale non sia ancora esitato in una pronunzia irrevocabile. Orientamento che ha poi trovato l’indiretto avallo del giudice delle leggi, il quale in diverse occasioni – pur non affrontando ex professo la questione – ha dimostrato di accogliere un’accezione del principio del ne bis in idem più ampia di quella apparentemente contenuta nella norma processuale menzionata e tale da impedire l’eventualità di processi simultanei (in questo senso Corte cost., sent. n. 27 del 1995; ord. n. 318 del 2001; ord. n. 39 del 2002).

Nell’aderire a questa opzione interpretava la sentenza Donati (chiamata a decidere il ricorso avverso una sentenza predibattimentale di proscioglimento per l’improcedibilità dell’azione esercitata negli esatti termini soggettivi ed oggettivi che caratterizzavano altra regiudicanda pendente in grado di appello) sottolinea innanzi tutto la doppia anima del citato art. 649:

presidio del principio di ordine pubblico processuale funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate da una decisione irrevocabile ed altresì – e soprattutto – regola costitutiva di un diritto civile e politico dell’individuo a tutela dell’interesse della persona, già giudicata, a non essere nuovamente perseguita per lo stesso fatto.

In secondo luogo il Supremo Collegio osserva come il ricorso alle regole dettate in materia di conflitto, tese fino a ricomprendere nella fattispecie di litispendenza anche le situazioni di continenza tra procedimenti, può essere condiviso nel caso di cognizione dell’identica regiudicanda in differenti sedi giudiziarie, ma non nell’ipotesi in cui la duplicazione dei processi si consumi all’interno della medesima sede (ancorchè non nello stesso ufficio giudiziario, talchè rileva in tal senso anche la doppia pendenza in fasi o gradi diversi), non interferendo con tale fattispecie le questioni di competenza che la disciplina dei conflitti intende per l’appunto regolamentare. Peraltro nemmeno la disciplina dei conflitti impropri è rilevante nel secondo caso per la Corte, prospettandosi come ipotesi di litispendenza non idonea a determinare quella situazione di stallo dell’attività processuale alla cui soluzione è finalizzata la norma di cui all’art. 28 cod. proc. pen., comma 2 secondo l’oramai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

In definitiva la sentenza Donati afferma l’esistenza di una lacuna nella disciplina positiva del processo, tanto più evidente se l’ordinamento processuale penale viene posto a confronto con quello civile, dove l’art. 39 cod. proc. civ. provvede invece espressamente a regolamentare l’ipotesi della litispendenza a prescindere dai profili di competenza, ricorrendo ad una regola che le Sezioni Unite ritengono peraltro non importabile nella disciplina del rito penale dove proprio all’accertamento della competenza viene assegnato un carattere assolutamente pregiudiziale in attuazione del principio costituzionale del giudice naturale.

Una volta scartata la praticabilità dell’espediente della sospensione del processo sopravvenuto (attesa la tassatività del disposto dall’art. 3 cod. proc. pen.), la soluzione alla menzionata lacuna deve essere ricercata per il Supremo Collegio proprio attraverso l’art. 649 cod. proc. pen.. Non tanto estendendo l’operatività di tale articolo anche al caso in cui non si sia già formato un giudicato (operazione impedita dagli inequivocabili limiti esegetici della norma), individuandolo come la "fonte" del principio del ne bis in idem, quanto, piuttosto, realizzando che lo stesso contiene una mera manifestazione dello stesso principio, al quale deve essere riconosciuto un carattere più generale, permeando esso l’intero ordinamento quale antidoto a comportamenti anomali di "abuso del processo", come del resto proprio il già menzionato art. 28 c.p.p. ben comproverebbe. E pertanto se il divieto di bis in idem costituisce un principio generale dell’ordinamento, allo stesso deve guardarsi, ai sensi dell’art. 12 preleggi, per colmare l’individuata lacuna normativa.

La Corte ricorda poi come "la matrice del divieto del bis in idem deve essere identificata nella categoria della preclusione processuale", istituto attinente all’ordine pubblico processuale e coessenziale alla stessa nozione di processo come sequenza ordinata di atti coordinati fra loro, ciascuno dei quali condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condizionante quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali.

La preclusione, sottolinea inoltre la sentenza, si risolve nell’impedimento dell’esercizio di un potere altrimenti attribuito ai soggetti del processo, risultato che può essere determinato da diverse cause, una delle quali è per l’appunto il pregresso esercizio dello stesso potere, nel qual caso essa deve intendersi come naturale conseguenza della consumazione di quest’ultimo. Ed in tal senso, dunque, deve ritenersi precluso l’esercizio dell’azione penale già esercitata per il medesimo fatto da parte del medesimo ufficio, che ha già "consumato" il suo potere di azione, senza che possa ritenersi tale lettura in contrasto con il principio di obbligatorietà di cui all’art. 112 Cost. (essendo la non reiterabilità dell’azione – salvo i casi espressamente disciplinati dalla legge – conseguenza della sua irretrattabilità) e nella consapevolezza che la stessa è anzi effettivamente attuativa dei principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 della Carta fondamentale.

Nè, secondo la Corte, lo sdoppiamento del processo si sottrae alla regola del ne bis in idem per il solo motivo che l’esercizio dell’azione penale sia stato rinnovato per porre riparo a nullità assolute ed insanabili verificatisi nel primo procedimento. E ciò in quanto "una simile situazione deve trovare soluzione con l’applicazione delle regole che governano l’ordinaria dinamica processuale e non già con l’attribuzione al pubblico ministero della libertà di replicare, a sua scelta insindacabile, l’esercizio dell’azione penale", eventualmente rinnovabile solo a seguito della dichiarazione della suddetta nullità.

Il Supremo Collegio puntualizza infine come la preclusione- consumazione paralizza non solo la promovibilità dell’azione, ma altresì il potere di ius dicere del giudice del medesimo ufficio investito precedentemente della cognizione sull’identica regiudicanda.

A conferma delle conclusioni assunte la sentenza Donati passa conclusivamente in rassegna gli arresti giurisprudenziali che hanno scandito l’utilizzazione dello schema della preclusione e tra questi, oltre alle pronunzie che hanno teorizzato il giudicato cautelare, menziona proprio la citata sentenza Donelli, riportando un ampio stralcio della sua motivazione.

5. Ad avviso del Collegio, per cogliere con esattezza i limiti di operatività del c.d. giudicando cautelare, in relazione anche alle implicazioni realmente derivanti dalle sentenze Donelli e Donati, è indispensabile partire dalla considerazione che la relativa problematica è inscindibile dal tema – di cui è in qualche modo una diramazione – del c.d. giudicato cautelare. E’ dunque su quest’ultimo che va focalizzata ora l’attenzione.

Come noto, le condizioni e i limiti di operatività nell’incidente cautelare dei principi fissati dagli artt. 648 e 649 cod. proc. pen. sono stati via via affermati e precisati da una serie di pronunzie delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 11 del 01/07/1992, dep. 10/09/1992, imp. Grazioso, Rv. 191183; Sez. U, n. 14 del 18/06/1993, dep. 21/07/1993, imp. Dell’Orno, Rv. 194312; Sez. U, n. 20 del 12/10/1993, dep. 08/11/1993, imp. Durante, Rv. 195354; Sez. U, n. 26 del 12/11/1993, dep. 27/01/1994, imp. Galluccio, Rv 195806; Sez. U, n. 11 del 08/07/1994, dep. 28/07/1994, imp. Buffa, Rv. 198211-213; Sez. U, n. 2 del 15/01/1999, dep. 31/03/1999, imp. Liddi, Rv. 212807; Sez. U, n. 14 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, imp. Piscopo, Rv. 216261; Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, dep. 20/04/2004, imp. Donelli, Rv.

227359; Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, dep. 09/07/2004, C. fall, in proc. Romagnoli, Rv. 228117; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 10/04/2007, imp. Librato, Rv. 235908), alla luce della cui complessiva elaborazione il c.d. "giudicato cautelare" va inteso come una preclusione endoprocessuale operante esclusivamente allo stato degli atti e con riguardo soltanto alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte.

In tal senso la giurisprudenza di legittimità riconosce che le decisioni assunte a seguito delle impugnazioni cautelari, "in quanto accertamenti interni al procedimento de libertate, assumano un’efficacia preclusiva, che vincola il giudice e le parti ad assumere per definite le questioni effettivamente esaminate" (così espressamente la sentenza Piscopo cit.), fermo restando che tale preclusione non può essere tout court assimilata a quella conseguente all’assunzione dell’autorità di cosa giudicata dei provvedimenti irrevocabili del giudizio principale di cognizione, e ciò in ragione della naturale instabilità di quelli adottati nell’incidente cautelare, riflesso dell’esigenza, espressamente sancita dalle disposizioni del codice di rito, del costante adeguamento dell’intervento cautelare all’eventuale evoluzione dei presupposti di fatto che legittimano la restrizione della libertà.

La preclusione del giudicato cautelare, dunque, opera esclusivamente rebus sic stantibus, e cioè solo in caso di sostanziale immutazione della situazione presupposta, e solo in riferimento alle questioni dedotte e non anche a quelle deducibili (ma non dedotte).

Coerentemente a tale impostazione, questa Corte ha anche chiarito che la preclusione del giudicato cautelare attiene propriamente alle singole questioni, potendo in particolare il procedimento cautelare essere sempre attivato dall’interessato (in questo senso oltre alle già citate sentenze Piscopo e Romagnoli delle Sezioni Unite, può richiamarsi ex multis soprattutto Sez. 5, n. 40281 del 19/10/2005, dep. 08/11/2005, imp. Notdurfter, Rv. 232798), attraverso l’istituto della revoca ex art. 299 cod. proc. pen., inteso come strumento teso a consentire non solo la valutazione ex ante delle condizioni di applicabilità delle misure, ma altresì quella ex post della persistenza delle medesime condizioni, nell’ottica (già evidenziata) di garantire la costante corrispondenza dello status libertatis dell’imputato all’effettiva attualità dei presupposti edittali, probatori o cautelari che legittimano l’adozione delle misure.

Conseguentemente il giudice adito con la richiesta di revoca, o con la successiva impugnazione di una decisione di diniego della revoca, può limitarsi, per la giurisprudenza dominante, a richiamare le decisioni conclusive di precedenti procedure de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già valutate in precedenza, ma è sempre tenuto ad accertare d’ufficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate dall’interessato, indicative dell’insussistenza dei presupposti della misura (v. soprattutto le sentenze Piscopo e Romagnoli citt. e Sez. 5, n. 28437 del 10/06/2004, dep. 24/06/2004, imp. Aitale, Rv. 228897, la quale ha sottolineato come in tal senso quella del giudicato cautelare non può intendersi come una preclusione in senso proprio con riguardo al procedimento di revoca, ancorchè il giudice investito della relativa istanza non possa contraddire le decisioni già assunte in una precedente impugnazione de libertate in assenza di sopravvenienze o di prospettazioni non già dedotte in precedenza).

La riconduzione del problema degli effetti delle pronunce sui provvedimenti cautelari alla categoria, non del "giudicato" in senso proprio (evocante una situazione di immutabilità e definitività, ritenuta, come detto, incompatibile con la natura contingente dei provvedimenti cautelari), ma della (mera) preclusione processuale (mirante ad impedire ulteriori interventi giudiziari in assenza di un mutamento del quadro procedimentale di riferimento), ha comportato anche la conseguenza che tale "effetto preclusivo viene ad essere determinato solo dall’esistenza di un provvedimento decisorio non più impugnabile", in riferimento al quale siano stati cioè esauriti i previsti mezzi di impugnazione, "e non anche nell’ipotesi della mancata attivazione degli strumenti processuali di controllo" (così espressamente la sentenza Romagnoli cit., che sulla base di queste premesse ha cristallizzato il principio, già affermato dalla sentenza Buffa, per cui "la mancata tempestiva proposizione, da parte dell’interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neanche in assenza di fatti sopravvenuti"). Sulla stessa linea la sentenza Buffa cit., escludendo la natura impugnatoria dell’istanza di revoca ex art. 299 cod. proc. pen., ha affermato che la sua presentazione non preclude la successiva proposizione dell’istanza di riesame.

La categoria della preclusione processuale è stata in alcune pronunzie espressamente elaborata con riferimento, più che al generale principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 cod. proc. pen. (cui più esplicitamente si richiamano le più risalenti pronunzie, anche delle Sezioni Unite), alla preclusione disciplinata dall’art. 666 c.p.p., comma 2, per il procedimento di esecuzione. In tal senso, ad esempio, Sez. 2, n. 4042 del 28/09/1999, dep. 05/11/1999, Cieri, Rv. 214578, anticipando i contenuti poi ribaditi dalla sentenza Romagnoli, ha affermato che, nel caso di istanza di revoca della misura avanzata dall’interessato, è imposto al giudice il dovere di esaminare qualsiasi elemento e questione attinente alla legittimità del mantenimento della misura, con l’unica preclusione derivante dalla circostanza che il controllo delle condizioni di applicabilità sia stato già in concreto effettuato. Per la sentenza Cieri, infatti, la precedente decisione, anche se priva dell’effetto del giudicato, non può che produrre nei confronti delle parti interessate un’efficacia analoga a quella prevista dall’art. 666 c.p.p., comma 2 (secondo cui è inammissibile la proposta di incidente di esecuzione consistente nella mera riproposizione di una richiesta già rigettata basata sui medesimi elementi), che pone un principio di carattere generale (applicabile anche al di fuori del procedimento di esecuzione per cui è dettato), preclusivo, allo stato degli atti, di una nuova pronuncia giurisdizionale in ordine alle questioni già trattate (negli stessi termini, soprattutto con riguardo al richiamo all’art. 666, da ultima si veda Sez. 3, n. 14236 del 21/02/2008, dep. 04/04/2008, imp. Vinciullo, Rv. 239661).

La disciplina del menzionato art. 666 si muove senza dubbio nell’ambito di esigenze comuni allo stesso principio del ne bis in idem (in questo senso ex multis e da ultima Sez. 1, n. 3736 del 15/01/2009, dep. 27/01/2009, P.M. in proc. Anello, Rv. 242533), ma il profilo specificamente valorizzato non è quello della garanzia della stabilità ed immutabilità della decisione divenuta definitiva, ma quello della tutela dell’economia processuale attraverso la prevenzione della formazione di contrasti tra decisioni e della strumentalizzazione delle forme processuali (in questo senso tra le altre la sentenza Romagnoli cit. e la sentenza Librato cit., che sottolinea come in assenza di preclusione risulterebbe vanificata la previsione legislativa dei termini per impugnare i provvedimenti cautelari).

Il parallelismo tra giudicato cautelare e giudicato esecutivo (fondato sull’inidoneità dei provvedimenti adottati nei relativi procedimenti a costituire un vero e proprio giudicato ai sensi dell’art. 648 cod. proc. pen.) è stato di recente evocato, sebbene ad altri fini, anche da Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, dep. 13/05/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651, la quale ha affermato che l’elemento di novità idoneo a superare la preclusione determinata dalla decisione non più impugnabile assunta nei suddetti procedimenti può essere costituito anche dal mutamento giurisprudenziale segnato da un intervento delle Sezioni Unite.

Circa in particolare gli effetti del giudicato cautelare sul potere d’iniziativa del pubblico ministero è oramai consolidato in giurisprudenza l’orientamento per cui l’ulteriore esercizio dell’azione cautelare per lo stesso fatto, ed immutato lo stato degli atti, è precluso dalla caducazione del precedente provvedimento cautelare per ragioni non formali e cioè da una decisione negativa sui presupposti applicativi della misura assunta all’esito dei giudizi incidentali di impugnazione (per tutte si vedano le sentenze Grazioso e Durante cit.).

Quanto all’immutazione dello stato degli atti, che legittima invece la reiterazione dell’iniziativa cautelare (con le limitazioni previste dall’art. 297 cod. proc. pen. in ordine alla durata della custodia cautelare), la Corte ha precisato che la stessa può essere determinata anche da sviluppi investigativi relativi a circostanze maturate prima della deliberazione del giudice del gravame (così Sez. 6, n. 4112 del 30/11/2006, dep. 01/02/2007, imp. Di Silvestro, Rv. 235610).

6. Tirando ora le fila dal lungo discorso che precede, può osservarsi che se, da un lato, appaiono senza dubbio stringenti e pienamente condivisibili le argomentazioni della sentenza Donati circa l’immanenza nell’ordinamento processualpenalistico di un generale principio di preclusione, di cui la regola dell’art. 649 cod. proc. pen. è solo una particolare pregnante espressione, e che opera quindi anche in altri ambiti procedurali, dall’altro è intuitivo che ai caratteri e meccanismi di tali ambiti esso si adegui nell’esplicazione dei propri effetti. Per quanto concerne in particolare il procedimento cautelare, lo stesso ha insita nella propria ratio – come si è già avuto modo di ricordare – la natura contingente dei provvedimenti e la necessità del loro tendenziale adeguamento al mutare delle situazioni. Ciò è evidente, e di forte significato garantistico, per le tutele poste a presidio dell’indagato, attivabili e reiterabili con grande facilità e adottabili in vari casi anche d’ufficio. Ma vale, seppure in termini non sovrapponibili, anche dalla parte dell’accusa.

Ne consegue che l’"idem" il cui "bis" è precluso non può concretarsi ed esaurirsi, in ambito cautelare, come avviene invece nel processo cognitivo, nella mera identità del fatto (per la cui precisa nozione v. in particolare la sentenza Donati cit.), ma ricomprende necessariamente anche l’identità degli elementi posti (e valutati) a sostegno o a confutazione di esso e della sua rilevanza cautelare. Tale conclusione, pacificamente accolta, come si è visto, per la determinazione dei limiti del giudicato cautelare, non può non valere simmetricamente, per comunanza di ratio, anche in tema di giudicando cautelare. Sarebbe, invero, oltremodo illogico, e contrario alle esigenze di tempestività tipiche del settore in discorso, negare, a causa di una pendenza in atto, l’immediato utilizzo dei nova utili a sostenere una determinata posizione, rinviandolo ex lege alla cessazione di quella pendenza. E’ del resto prassi corrente, della cui legittimità non si dubita, la proposizione, da parte dell’indagato, di istanze di revoca o sostituzione della misura, purchè basate su elementi nuovi, mentre è in corso, non importa in quale fase, un procedimento cautelare relativo alla stessa contestazione; con quanto poi ne può conseguire, in termini di interesse, sulla sorte di quest’ultimo.

La soluzione non può essere diversa quando i nova siano fatti valere dal pubblico ministero. Le esigenze di una pronta tutela della collettività, costituenti il pendant di quelle che presidiano il favor libertatis, sono parimenti incompatibili con improprie e inutili dilazioni, quali quelle che deriverebbero da intralci di tipo procedurale, a volte anche di lunga durata, e magari non nella disponibilità dell’accusa.

Le situazioni che si possono presentare nella realtà sono evidentemente le più varie e possono condizionare le scelte concrete del p.m. e riflettersi sulle conseguenze delle medesime sulla sorte dei procedimenti. Il punto fermo è comunque che l’autonomo utilizzo dei nova non può essere paralizzato da una pendenza in atto sullo stesso fatto, mentre a sua volta ne determina la non riversibilità dei medesimi in essa, operando, nell’identità degli elementi addotti, il meccanismo preclusivo.

La conclusione appena illustrata si armonizza agevolmente con la sentenza Donati, che, muovendosi sul filo del processo cognitivo e dovendo risolvere un problema ad esso specificamente pertinente, è sì risalita a un principio generale che lo trascende ma ne ha lasciato impregiudicata la definizione di limiti e modalità operative in altri ambiti procedurali e, in particolare, in riferimento al settore cautelare.

La conclusione stessa è anche conforme, malgrado qualche ingannevole apparenza, all’effettivo tenore della sentenza Donelli.

Quest’ultima, come si è sopra ricordato, chiamata a esaminare una fattispecie in cui erano stati, in sede di appello cautelare del p.m., prodotti dal medesimo e concretamente utilizzati elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impugnato, reiettivo della richiesta di misura, ritenne legittima la situazione descritta, e si fece carico degli inconvenienti cui tale soluzione poteva dar luogo, superando in particolare l’obiezione – collegata alla possibilità che lo stesso pubblico ministero potesse contemporaneamente decidere di ricominciare l’azione cautelare richiedendo al g.i.p. l’emissione di una nuova misura cautelare fondata sugli stessi elementi riversati nel giudizio d’appello – del duplice rischio di un potenziale contrasto di decisioni e della potenziale concorrenza di due titoli cautelari dall’identico contenuto, con il rilievo che le diverse opzioni assegnate alla pubblica accusa si ponevano in rapporto non di concorrenza ma di "alternatività". Il riferimento a tale concetto, letto in correlazione alla fattispecie concreta esaminata e alla puntualizzazione che "nuovi", ai fini in discussione, erano tutti gli elementi comunque non dedotti, indipendentemente dal momento della loro emersione, fosse anche posteriore alla stessa proposizione dell’impugnazione, rende chiaro che per la decisione in esame – al di là della sintetica formulazione del relativo principio di diritto dalla stessa enucleato – il p.m. resta libero di scegliere il "veicolo" in cui utilizzare i nova ai fini del perseguimento del suo obiettivo, ma che, una volta operata la scelta, non può più, per lo stesso utilizzo, fare ricorso al veicolo alternativo (con quanto di conseguenza, in termini di preclusione, sul suo avvio o prosieguo), scongiurandosi così anche il rischio del conseguimento di un duplice titolo per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi.

In tale chiarita ottica interpretativa la relazione di preclusione posta dalla sentenza Donelli rivela il suo genuino carattere biunivoco, riassumibile nel brocardo electa una via non datur recursus ad alteram, e può ritenersi coerentemente estensibile a qualsiasi ipotesi di impugnazione incidentale de libertate, ivi comprese quelle introdotte dall’indagato, tra cui in particolare il riesame (nell’ambito del quale è ormai pacifico che anche il pubblico ministero può introdurre gli elementi di prova a carico sopravvenuti all’applicazione della misura cautelare: v. ex multis Sez. 1, n. 6165 del 29/11/1995, dep. 27/12/1995, imp. Biasioli, Rv.

203164; Sez. 1, n. 4689 del 06/07/1999, dep. 13/09/1999, imp. Piroddi, Rv. 214095; Sez. 4, n. 15082 del 24/02/2010, dep. 19/04/2010, P.M. in proc. Testini, Rv. 247023).

La conclusione così assunta può trovare espressione nel seguente principio di diritto:

"Qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori "nuovi", preesistenti o sopravvenuti, può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio o porti a base di una nuova richiesta di misura cautelare personale, ma la scelta così operata gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare".

In tal senso si sono in concreto orientate alcune delle pronunce ritenute dall’ordinanza di rimessione non aderenti alla sentenza Donelli. Così Sez. 1, n. 47212 del 13/12/2005, dep. 23/12/2005, P.M. in proc. Romito, Rv. 233272, e Sez. 3, n. 40838 del 11/10/2005, dep. 10/11/2005, imp. Ighodaro, Rv. 232476 (sulle quali v. sopra al par.

2).

Vi sono peraltro situazioni – e quella oggetto del presente giudizio è una di queste – in cui la facoltà di scelta del p.m. presenta in concreto una sfasatura temporale, nel senso che, al momento del maturato intento di utilizzare i nova, il procedimento impugnatorio può trovarsi in una fase (ad es. quella che va dall’esaurimento del gravame di merito alla chiusura del successivo giudizio di legittimità) che non consente tale immediato utilizzo. E’ evidente che in tali casi il paralizzare la nuova iniziativa del p.m. fino alla definizione della pendenza in atto striderebbe in maniera ancora più grave con le esigenze proprie dell’intervento cautelare.

E’ in relazione a situazioni di questo tipo che sono state pronunciate altre decisioni che l’ordinanza di rimessione richiama come dissonanti dalla sentenza Donelli. Così Sez. 2 n. 18110 del 13.4.2005, dep. 13/05/2005, imp. Russo, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 6798 del 16/12/2004, dep. 22/02/2005, imp. Rizzo, Rv.

230909; Sez. 5, n. 19855 del 22/03/2006, dep. 12/06/2006, imp. Blandino, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 24129 del 08/05/2008, dep. 13/06/2008, imp. Del Nogal Marquez, Rv. 240530 (per le quali v. parimenti sopra al par. 2).

Concludendo sul punto, può senz’altro affermarsi che nella specie la richiesta di nuova misura cautelare presentata dal P.M. nei confronti del Te. – nelle more fra l’emissione (24 febbraio 2010) e il deposito della motivazione (19 aprile 2010) della sentenza di questa Corte (Sez. 4), che aveva annullato con rinvio l’ordinanza del 9 novembre 2009 del Tribunale del riesame di Roma, che aveva annullato la precedente ordinanza cautelare emessa nei confronti del predetto – siccome era fondata su elementi nuovi, non incontrava alcuna preclusione processuale, così come, di conseguenza, il provvedimento di relativo (quasi integrale) accoglimento emesso il 29 marzo 2010 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma.

Fra l’altro, in sostanziale conformità con l’orientamento qui espresso, con ordinanza del 4 novembre 2010 il Tribunale del riesame di Roma, in sede di rinvio dall’annullamento disposto da questa Corte con la ricordata sentenza del 24 febbraio 2010, ha dichiarato, in relazione ai reati di cui ai capi A, B e C, l’inammissibilità del riesame per sopravvenuta carenza di interesse in ragione dell’attuale restrizione del Te. per tali reati in forza del nuovo titolo costituito dall’ordinanza cautelare del G.i.p. del 29 marzo 2010, confermata in sede di riesame con ordinanza del 12 aprile 2010. 7. Si deve ora passare all’esame degli altri motivi (terzo e quarto) di ricorso, attinenti ai reati del (OMISSIS), tra cui rientra quello, cui è ancora riferibile il titolo custodiale in atto, del capo C. Con il terzo motivo si denunzia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., violazione di legge con riguardo al rigetto dell’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, in veste di persone informate sui fatti, da S., M., P., B., Ci. e F., D.M., V., D.S. e Mo., che avrebbero dovuto, si sostiene, essere sentiti quali indagati di reati connessi.

In particolare, Sc., M., P., B., Ci. e F. avrebbero sin dall’inizio dovuto essere sentiti quali indagati, con conseguente inutilizzabilità erga omnes delle loro dichiarazioni, perchè erano stati chiamati a riferire proprio della loro attività di intermediari nella vendita del video in cui era stato ripreso il Presidente M., video che avevano visionato e/o preso in consegna e la cui provenienza illecita era stata ritenuta riconoscibile prima facie ad esempio nei confronti del T., nella ordinanza 24 ottobre 2009 (coperta sul punto, si dice, da giudicato cautelare).

Quanto agli altri, fin dalle loro prime dichiarazioni ne emergeva il coinvolgimento nelle forniture di cocaina:

– D.M., fidanzato del C., nell’interrogatorio del 1 novembre 2009 aveva raccontato che aveva accompagnato il C. a portare la cocaina a N.; in quello del 2 novembre 2009 aveva ammesso che C. si serviva di una scheda telefonica a lui (D. M.) intestata per contattare altri transessuali che gli chiedevano cocaina e aveva precisato che era con C. quando aveva dato la cocaina a N.;

– D.S., detto Pa., il 29 dicembre 2009 aveva dichiarato di avere ripetutamente fatto da intermediario, dietro compenso, per l’acquisto di cocaina per conto del M.;

– V.S. sin dal 28 gennaio 2010 aveva ammesso che era sua abitudine procurarsi cocaina in vista degli incontri con il M., anche per conto di questo (d’altronde nel corso del recente incidente probatorio, il Giudice per le indagini preliminari aveva sospeso l’esame come teste e l’aveva proseguito ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen.); evidenti indizi di reità nei confronti del V. emergevano poi dall’incredibile numero di dichiarazioni contrastanti che aveva reso, che avrebbero imposto di procedere ai sensi dell’art. 371 bis cod. pen. anche con riguardo alle dichiarazioni su Se.Br. ("reo confesso della dazione di droga nel fatidico giorno"), ritrattate il 28 gennaio;

– l’esame del Mo. in data 27 gennaio 2010 era stato addirittura interrotto emergendo indizi del reato di cui all’art. 371-bis cod. pen. (aveva quindi ritrattato).

Perlomeno tutte le successive dichiarazioni di tali soggetti (ivi comprese quelle rese da D.S. lo stesso 29 dicembre 2009, dopo una interruzione per esigenze dell’ufficio) dovevano dunque ritenersi rese da soggetti che già aveva fatto ammissioni auto-incriminanti e che non potevano di conseguenza più essere sentiti come semplici persone informate sui fatti.

Il motivo è infondato.

Va premesso in diritto che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità:

– l’inutilizzabilità assoluta, ex art. 63 c.p.p., comma 2, richiede che a carico del dichiarante risulti l’originaria esistenza di precisi, concreti e attuali, anche se non gravi, indizi di reità, non bastando al riguardo meri e generici sospetti o il semplice coinvolgimento in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla successiva formulazione di addebiti penali (v. ex multis Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, dep. 10/06/2009, imp. Fruci, Rv. 243417;

Sez. 5, n. 24953 del 15/05/2009, dep. 16/06/2009, imp. Costa, Rv.

243891);

– gli indizi rilevanti ai fini in discorso devono riguardare il medesimo reato ovvero un reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, restando invece fuori della sanzione di inutilizzabilità le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall’inizio indizi a suo carico (così Sez. U, n. 1282 del 09/10/1997, dep. 13/02/1997, imp. Carpanelli, Rv. 206846, e nello stesso senso v. ex multis e da ultima Sez. 3, n. 16856 del 10/03/2010, dep. 04/05/2010, imp. P.P., Rv.

246985);

– il potere-dovere di verificare in termini sostanziali l’attribuibilità al propalante della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni vengono rese compete al giudice di merito e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (in tal senso v. ex multis e da ultimo Sez. U,, n. 15208 del 25/02/2010, dep. 21/04/2010, imp. Mills, Rv. 246584; Sez. 5, n. 24953 del 15/05/2009, dep. 16/06/2009, imp. Costa, Rv. 243892).

Nella specie l’ordinanza impugnata ha, invero, con argomentazione non illogica (e conforme a quella già condivisa dalla cit. Sez. 4, 15082 del 24/02/2010, dep. 19/04/2010, a fronte di analoga eccezione sollevata dai coindagati del Te.), rilevato, in riferimento a coloro che avevano visionato e/o preso in consegna il video riguardante il M., che non potevano configurarsi nei loro confronti seri indizi del reato di ricettazione, essendosi essi mossi con corretta prudenza professionale e chiedendo specifiche garanzie sulla legalità della provenienza del prodotto offerto.

Quanto al D.M., non emergono vizi rilevanti in questa sede nell’affermazione del Tribunale che, nella sua condotta, non ha ravvisato elementi indiziari di correità col C..

Circa il D.S. e il V.S., il Tribunale ha non illogicamente rilevato l’assenza di elementi indizianti all’atto dell’assunzione delle loro dichiarazioni e l’inconfigurabilità di un’invalidazione di queste nei confronti dei terzi per effetto delle successive ammissioni in ordine all’acquisto di cocaina dal C. (nè vengono specificamente evidenziate in ricorso dichiarazioni utilizzate a fini probatori, rese posteriormente a tali ammissioni) sottolineando altresì correttamente, quanto al V.S., che la prospettata configurabilità del reato di cui all’art. 371-bis cod. pen. per le dichiarazioni rese il 25 gennaio 2010 fu prontamente vanificata dalla ritrattazione avvenuta il successivo 28 gennaio (nè nel ricorso si evidenzia alcuna rilevanza invalidante specificamente riferibile a dichiarazioni utilizzate a fini probatori, conseguente alla mancata contestazione del reato predetto).

Relativamente, infine, al Mo., non è censurabile l’affermazione del Tribunale circa l’utilizzabilità erga alios delle dichiarazioni spontanee (requisito contestato nel ricorso in modo puramente assertivo) dallo stesso rese dopo la comunicazione di indizi di reità ex art. 371-bis cod. pen. (cfr. Sez. 3, n. 10643 del 20/01/2010, dep. 18/03/2010, imp. Capozzi, Rv. 246590).

8. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità in relazione al quadro indiziario attinente ai reati del (OMISSIS), tra cui rientra quello di cui al capo C. Assume che era pacifico che il Te. non aveva partecipato all’operazione in tesi rivolta a sorprendere il M. e non aveva avuto contatti con i coindagati prima della stessa: – il contatto delle ore 10.19 era ininfluente perchè sino alle 11.00 la stessa N. era all’oscuro del fatto che avrebbe ricevuto una visita del M.; – l’esistenza del previo accordo non poteva dirsi dimostrato dalla telefonata effettuata dal S. al Te. durante l’intervento, stante la sua brevità e il riferito successivo atteggiamento di rammarico del S.. La tesi che Ta. e S. avrebbero agito d’accordo con il Te. era, perciò, priva di base probatoria.

Il motivo è privo di pregio.

Il Tribunale ha infatti affermato l’esistenza a carico del Te. di un grave quadro indiziario per i reati del (OMISSIS) (tra cui quello di cui al capo C), ritenendolo, con logica motivazione (idonea a confutare o a rendere irrilevanti le obiezioni del ricorrente), basato: – sul rapporto esistente tra lui e il C., pusher dei transessuali e suo confidente, che ne riceveva per questo "copertura" (numerosi fonti, tra le quali l’ispettore D., avevano dichiarato che il C. forniva informazioni che consentivano "operazioni", e non era mai arrestato); – sull’insistenza ad acquisire notizie su "clienti eccellenti" manifestata dal Te. al fine di "sorprenderli durante gli incontri sessuali" (dichiarazioni di D.P.M.M.); – sulle dichiarazioni del Tenente F., secondo cui già da fine (OMISSIS) il Te. sapeva delle frequentazioni del M. (nella relazione (OMISSIS) aveva riferito che già nell'(OMISSIS) Te. gli aveva detto che girava voce che il Presidente era cliente di transessuali, cosa a cui non aveva dato peso, non ravvisandovi notizie di reato); – sulla circostanza che parimenti da tempo risultavano informati di tale circostanza il Ta. e il S. e pensavano ad una "operazione" (come il primo aveva detto a un collega, alla presenza del secondo) già dal maggio 2009 (in coincidenza dell’incontro con M. riferito da Pa., che nell’occasione aveva acquistato da C. 8 grammi di cocaina); – sulla circostanza che i tabulati dimostravano come ad informare gli indagati era stato proprio il C., che abitualmente riforniva i transessuali di cocaina in vista degli incontri (tanto avevano dichiarato N., Pa. e B. – deceduta il (OMISSIS) – rispettivamente il (OMISSIS)) e che immediatamente girava l’informazione ai carabinieri indagati nel presente procedimento (secondo quanto emergeva dai dati dei tabulati, coincidenti con gli incontri (OMISSIS) notte antecedente, (OMISSIS) giorno); – sul dato logico che, essendo evidente che l’"operazione" non poteva portare all’arresto del pusher, perchè confidente "protetto", nè del consumatore finale, l’operazione progettata aveva finalità solo ricattatorie; – sul rilievo che le conoscenze pregresse e l’intrecciarsi di comunicazioni dimostravano che gli indagati nella giornata del (OMISSIS) s’attendevano di trovare il M. (come aveva d’altronde ammesso il S. nell’interrogatorio del 25 marzo 2010) e intendevano comunque tendergli un’imboscata (non era rilevante che non avessero agito in occasione dei precedenti incontri, perchè aspettavano all’evidenza di "essere in servizio"), con conseguente significatività anche del contatto telefonico intercorso fra il Ta. e il Te. alle ore 10,19 del (OMISSIS), sebbene antecedente al momento in cui il M. preannunciò la visita a N.; – sulla telefonata fatta dal Ta. al Te. (la interpretazione della cui brevità in favore dell’estraneità di quest’ultimo viene argomentata respinta dal Tribunale) nel corso stesso dell’intervento (e dopo che M. aveva detto loro che non aveva la somma di 50.000 Euro per ciascuno richiestagli, secondo le dichiarazioni di N., confermate dai tabulati); – sulla circostanza che vennero chiesti al M. tre assegni (uno dei quali evidentemente destinato a un terzo e in relazione alla cui dazione convergevano plurimi elementi: dichiarazioni M., denuncia di "smarrimento" degli assegni, dichiarazioni Sc., dichiarazioni Ci. de relato dal C.) che, essendo pacificamente non monetizzabili, dovevano costituire una sorta di "pegno" (dichiarazioni di N. sul fatto che i due volevano avere un appuntamento per avere i soldi, telefonata del Ta. su utenza riservata del M.); – sul fatto che proprio in relazione al più incisivo strumento di ricatto (il video) realizzato dai due carabinieri in occasione dell’intervento (come infine ammesso dallo stesso S., video che lo stesso indagato aveva riconosciuto di avere visionato e il cui scopo appariva evidente dalle stesse caratteristiche della ripresa), il coinvolgimento del Te. emergeva dai comportamenti da lui tenuti nei giorni immediatamente successivi, evidenzianti, in particolare, il ruolo da lui assunto nel tentativo di vendere il filmato (il 6 luglio Ta. cercava M. che non rispondeva e il 9 Te. si metteva in contatto con Co.Fa.; erano stati il Te. e il Ta. che, secondo le ultime dichiarazioni di S., avevano provveduto ad eliminare le riprese che individuavano i due Carabinieri intervenuti – e siffatte dichiarazioni risultavano confermate, da un lato, dal ritrovamento, nel cellulare dell’indagato, di tracce di un video, copiato e poi cancellato, riversato da altro cellulare, di tre minuti e girato il (OMISSIS), e, dall’altro dall’impossibilità che ad effettuare l’operazione fosse stato il C., privo di competenze in materia e che non risultava mai essere venuto materialmente in possesso della registrazione; secondo le dichiarazioni del portiere del B&B, logicamente confortate dai particolari riferiti dalle stesse giornaliste e dalle dichiarazioni di Ci., era stato il Te. a sopraintendere all’incontro tra C. e le due giornaliste di "Libero"; era stato ancora il Te., secondo lo Sc., a perquisirlo prima di farlo accedere nella casa dove avrebbe dovuto esaminare il video; era sicuramente il Te. la persona che aveva fatto visionare il filmato a Su. e a P. in casa di S., come dimostravano anche i suoi contatti, nell’occasione, con il T.; il coinvolgimento del Te. in queste trattative e in condotte in genere illecite emergeva dalle dichiarazioni del Mo. e dalla conversazione tra questo e il c. intercettata il 17 gennaio 2010; l’esistenza di tre complici e di uno che dava ordini emergeva dai colloqui intercettati il 5 ottobre e il 14 ottobre tra T. e S. e il 6 ottobre tra S. e Te.; lo stesso Te. nelle spontanee dichiarazioni rese il 21 ottobre 2009 aveva detto che avrebbero diviso il compenso in tre).

9. Il quinto e il sesto motivo di ricorso concernono i reati di cui ai capi H e I, e il settimo motivo il reato di cui al capo I. Al riguardo deve preliminarmente rilevarsi che non sussiste un attuale interesse alla pronuncia in ordine al reato di cui al capo I. Con ordinanza del 22 novembre 2010, infatti, il G.i.p. del Tribunale di Roma ha revocato la misura cautelare per detto reato per insussistenza dei gravi indizi (contestualmente escludendo le aggravanti contestate per il capo H), nè da parte del ricorrente è stata specificamente dedotta la persistenza di un suo interesse in relazione al presente ricorso, giusta quanto precisato sopra al par.

1.

Ciò chiarito, si osserva che con il quinto e il sesto motivo di ricorso si lamentano contraddittorietà, anche esterna (per travisamento dei dati probatori) e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al quadro indiziario (anche) per il reato di cui ai capo H, con specifico riferimento alla valutazione:

– dei contatti telefonici intercorsi tra le ore 1.49 e le ore 3.20 del 12 settembre 2009 tra l’utenza telefonica in uso al C. ed altri soggetti, che dimostravano – secondo il ricorrente – che il C. non aveva incontrato il Te. (le celle agganciate dal cellulare del C. essendo compatibili con la sua collocazione nell’hotel (OMISSIS), nel quale alloggiava, poco distante dal luogo dell’incontro ipotizzato), ovvero, anche a ritenere che lo avesse incontrato, che comunque aveva successivamente effettuato (in contrasto con la versione resa dal D.M.) molti altri giri in varie zone di spaccio, anche distanti, e aveva avuto molti altri contatti con persone dalle quali avrebbe potuto ricevere la droga assunta;

– della collocazione e dei contatti relativi, tra le 11.32.56 e le 11.33.52 del 12 settembre 2009, all’utenza telefonica già in uso al C. e nell’occasione utilizzata da D.M.: circostanze queste obiettive che, manifestando una consistente zona d’ombra nelle dichiarazioni del D.M., ulteriormente dimostravano la sua totale inattendibilità; si denunzia che in proposito il Tribunale ha anche travisato il dato che, non di un solo contatto in entrata aveva parlato la difesa, ma di una serie di contatti (l’utenza (OMISSIS) aveva agganciato per ben cinque volte, in quel lasso di tempo, una cella a circa 5,4 Km. di distanza).

I motivi sono infondati.

Il Tribunale ha infatti affermato l’esistenza a carico del Te. di un grave quadro indiziario, ritenendolo, con logica motivazione, basato, per quanto qui interessa: sulle dichiarazioni rese il 26 novembre 2009 da J. ( D.M.) convivente del C., allorchè aveva indicato in " N.", riconoscendo poi in video il Te., colui che aveva consegnato loro la droga; – sui riscontri a tali dichiarazioni costituiti dagli accertamenti eseguiti sull’abitazione del Te. e dai tracciati dei tabulati telefonici e di transito (confermativi di uscite effettuate dal Te. quella notte e di contatti fra lo stesso e il C. avvenuti proprio sempre quella notte in luogo e orari compatibili con la versione del dichiarante, al di là di possibili imprecisioni sull’esatto orario dell’incontro).

Il Tribunale ha altresì argomentatamente respinto l’interpretazione alternativa dei detti tracciati offerta dalla difesa, che viene riproposta nel ricorso (non rilevando peraltro, in relazione al reato di cui al capo H, la circostanza dei successivi contatti che avrebbe comunque avuto il C. con altre persone quella stessa notte).

Quanto al rilievo circa la collocazione e i contatti relativi, tra le 11.32.56 e le 11.33.52 del 12 settembre 2009, all’utenza telefonica già in uso al C. e nell’occasione utilizzata dal D.M., il Tribunale ne ha non illogicamente rilevato l’incertezza tecnica, richiamando in contrapposizione altre circostanze certe, utilizzate peraltro premintemente in riferimento al reato di cui al capo I. 10. Con l’ottavo motivo di ricorso il Te. denunzia violazione di legge e vizi della motivazione con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari e alla adeguatezza della misura applicata, sostenendo che mancavano seri elementi per una prognosi di pericolosità.

Afferma in particolare che il Tribunale non ha considerato: – il corretto comportamento posto in essere dal Te. dopo la scarcerazione (seguita al provvedimento del 9 novembre 2009); – la mancanza di tentativi di sottrarsi alla nuova misura preannunziata dalla stampa; – l’assenza di qualsiasi tentativo di contattare i testi; – la sospensione dal lavoro e il trasferimento a 500 chilometri di distanza.

Al riguardo va puntualizzato che allo stato è in atto a carico del Te. unicamente la misura degli arresti domiciliari per i (soli) reati di cui ai capi C e H, essendo stata così sostituita l’originaria misura carceraria con la ricordata ordinanza del 22 novembre 2010 del G.i.p. del Tribunale di Roma, che contestualmente ha revocato la misura più afflittiva per il reato di cui al capo I e l’ha dichiarata non più efficace per i reati di cui ai capi A, B ed E. E’ sufficiente pertanto in questa sede rilevare che gli elementi addotti dalla difesa sono, per natura e consistenza, inidonei a incrinare, sul piano della logica e sufficienza motivazionale, la capacità giustificativa delle valutazioni operate dal Tribunale, in rapporto e per la parte riferibile all’attuale ridotto quadro cautelativo, in tema di gravità delittuosa, allarmante strumentalizzazione delle funzioni e disponibilità di una rete di collegamenti e contatti con ambienti criminali.
P.Q.M.

Dato atto che per i capi A, B, E e I è venuto meno l’interesse del ricorrente alla pronunzia, rigetta il ricorso per il resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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