Cass. civ. Sez. II, Sent., 26-04-2011, n. 9331 Giudizio avanti i Tribunali delle Acque Pubbliche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto del 1996, A. e Bu.Sa. convenivano di fronte al tribunale di Marsala Z.A., R. e B. S., quali eredi di B.M., reclamando nei loro confronti declaratoria di sussistenza, a favore dei loro fondi ed a carico del fondo già appartenuto a M., di una servitù di attingimento e derivazione di acque, con condanna degli stessi a ripristinare lo stato dei luoghi, onde consentire la fruizione del predetto diritto reale.

A sostegno di tale domanda, gli attori esponevano che erano stati comproprietari, con il fratello M., di consistenti beni immobili indivisi, da cui era stata stralciata la quota appartenente a M., con contestuale costituzione di servitù a favore dei fondi residui.

A seguito dell’atteggiamento degli eredi di M., che avevano loro impedito di fatto di usufruire della servitù de qua, avevano intrapreso la controversia che ne occupa. Costituitisi, i convenuti sollevavano questione di competenza a favore del Tribunale regionale delle acque, trattandosi di acque pubbliche e resistevano nel merito alla domanda attorea.

Con sentenza del 2001, l’adito Tribunale, respinta l’eccezione di incompetenza, accoglieva la domanda attorea e regolava le spese;

proponevano appello i soccombenti, cui resistevano le controparti.

Con sentenza in data 12.3/18.6.2004, la Corte di appello di Palermo rigettava l’impugnazione e regolava le spese; osservava la Corte distrettuale che la dedotta incompetenza non sussisteva in ragione della assenza di concreti presupposti che dimostrassero a norma di legge la natura pubblica delle acque in questione. Quanto al preteso vizio di ultrapetizione, la relativa doglianza si rilevava inammissibile, avendo gli stessi appellanti indicati il secondo pozzo come quello interessato dalla servitù.

Avrebbero poi dovuto gli appellati provare la natura pubblica delle acque de quibus, mentre non risultava la effettiva portata d acqua del pozzo nè poteva sostenersi che da quello fosse mai stata estratta acqua.

Ancora, non sussisteva prova del lamentato errore cagionato in M. da comportamento dei fratelli; egli era infatti in grado di valutare da solo la situazione giuridica del pozzo e di accertarsi della sussistenza delle autorizzazioni necessarie, fermo il fatto che neppure la prova testimoniale assunta era stata tale da dimostrare il dolo delle controparti sul punto.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono, sulla base di cinque motivi, la Z. e S. e B.R.; le controparti resistono con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta incompetenza per materia delle autorità giudiziarie adite a fronte della competenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche, con violazione della L. 5 gennaio 1994, n 36, artt. 1 e 34.

La questione, già proposta sia in primo che in secondo grado e in entrambe le occasioni respinta, non è fondata. Se una considerazione letterale delle norme citate potrebbe indurre a pervenire ad una conclusione drastica, secondo cui tutte le acque hanno natura pubblica, la lettura dell’intero testo normativo invocato consente di rilevare come non sia stato modificato il dettato del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 1 mantenendo in realtà fermo il concetto secondo cui l’attitudine delle acque ad usi di pubblico generale interesse è elemento indefettibile a conferire la natura di acque pubbliche ad ogni specie di acqua.

E’ appena il caso di aggiungere che una diversa interpretazione porterebbe all’assurdo di dover considerare pubblica anche l’acqua piovana raccoltasi in un avvallamento del terreno, attesa la onnicomprensività della dizione di cui alla L. del 1994, ove non temperata dal mancato intervento del legislatore sul T. U. del 1933 (v. in tal senso Cass. 11.1.2011, n 315).

Ancora, nelle controversie tra privati circa l’utilizzazione delle acque, questa Corte ha affermato (v. Cass. n 8048 del 2006) che la questione della pubblicità o meno delle stesse non rileva ai fini della competenza, trattandosi di fattispecie connotata dalla natura privatistica derivante dal rapporto tra fondi privati ai fini dell’utilizzazione delle acque contese.

Le considerazioni sin qui svolte valgono ad elidere ogni ulteriore doglianza sul punto, atteso che le stesse risolvono la questione in radice, rendendo ultronea ogni censura circa le considerazioni argomentative di cui alla sentenza impugnata.

Il secondo motivo è così testualmente formulato: "violazione dell’art. 112 c.p.c.(extra petizione) e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ( artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)".

La doglianza afferente all’extra petizione è inammissibile, siccome non proposta con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4; la giurisprudenza di questa Corte è consolidata infatti nel ritenere che si tratti di error in procedendo, che avrebbe potuto essere fatto valere unicamente con riferimento all’art. 360, n. 4 citato (v. per tutte, Cass. 27.5.2010, n 12992).

Le considerazioni svolte sul piano motivazionale poi non assumono autonoma valenza essendo riferite all’argomentare relativo al vizio di extra petizione. Il mezzo in esame non può pertanto trovare accoglimento.

Il terzo motivo lamenta violazione dell’art. 1346 c.c. e dell’art. 1418 c.c., comma 2, e dell’art. 112 (omessa pronuncia)c.p.c.(art. 360 c.p.c., n. 3).

Premesso che la dedotta violazione di legge è enunciata, ma non risulta minimamente sviluppata nel mezzo in esame, quanto al dedotto, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 vizio di omessa pronuncia, non può che riaffermarsi la natura di error in procedendo del vizio stesso, donde l’inammissibilità della censura, siccome riferita, come già evidenziato, all’art. 360, n. 3 citato.

Il quarto motivo (violazione dell’art. 1418 c.c., comma 1, con riferimento agli artt. 95 e 105 T.U. del 1933) contiene la premessa secondo cui, in ordine alla questione della nullità della costituzione della servitù in ragione di un assunto silenzio della sentenza impugnata al riguardo, si contestano le considerazioni svolte sul punto dalla sentenza di primo grado.

Il motivo è inammissibile; l’ipotesi secondo cui la Corte distrettuale avrebbe tacitamente recepito al riguardo le motivazioni del primo giudice costituisce appunto una ipotesi, non dimostrata, e pertanto lo svolgimento di doglianze avverso la sentenza di prime cure non è consentita, atteso che ove effettivamente la Corte palermitana avesse omesso di pronunciarsi sul punto, altri sarebbero stati i rimedi di cui avvalersi in sede di legittimità.

La censura rivolta alla sentenza di primo grado si appalesa priva di interesse, atteso che oggetto del presente giudizio è unicamente la sentenza di secondo grado, donde l’inammissibilità del mezzo in esame.

Con il quinto motivo, si lamenta violazione degli artt. 1439, 1337 e 1338 c.c., nonchè vizio di motivazione circa la annullabilità della costituzione della servitù per dolo delle controparti, che avrebbero tratto in inganno il fratello circa l’esistenza della concessione per l’utilizzazione dell’acqua.

La sentenza impugnata, al riguardo, ha rilevato che B.M. era persona istruita e perfettamente in grado di curare compiutamente i propri interessi e che avrebbe dovuto e potuto quindi accertarsi personalmente della situazione amministrativa relativa al pozzo e che quindi non era ipotizzabile alcuna decisiva influenza su di lui da parte dei fratelli.

A tale tesi si contrappone che M. era assai spesso fuori sede e che alcuni documenti asseritamente da lui redatti erano risultati apocrifi, mentre erano state disattese le testimonianze di C. e Cu., che costituivano quanto meno indizio di una qualche attività sviante delle controparti.

La valutazione delle prove acquisite è compito specifico del giudice del merito; quando, come nella specie, la valenza delle stesse viene esaminata in ragione di una analisi plausibile e non illogica, il giudice non è tenuto nè a tener conto di tutti gli elementi raccolti nè a specificare le ragioni per cui si privilegia un elemento probatorio rispetto ad un altro; la motivazione è ampia, non contraddittoria nè inficiata da errori giuridici e pertanto idonea ad assolvere il compito di dare contezza delle conclusioni raggiunte.

Anche tale motivo deve essere pertanto respinto e, con esso, il ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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