Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 20-01-2011) 02-03-2011, n. 8401 Abuso di ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione R.G. avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna in data 14 giugno 2010 con la quale è stata parzialmente riformata la sentenza di primo grado (emessa dal Tribunale di Ravenna nel 2008) che aveva assolto il ricorrente dai reati di cui al capo D) (abuso d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico, aggravati ex art. 61 c.p., n. 2, riferiti a fatti commessi il (OMISSIS)) condannandolo invece per i reati di cui ai capi A)e B) ossia due fattispecie di falsità ideologica in atto pubblico, consumate il (OMISSIS), la prima delle quali in concorso con C.P. (la cui posizione è stata stralciata e definita con sentenza di patteggiamento), nonchè al capo C), ipotesi di truffa ex art. 640 bis c.p., aggravata ex art. 61 c.p., n. 9, e consumata il (OMISSIS), data di emissione dell’ordinativo di pagamento della Regione, fatto commesso in concorso col detto C..

La Corte di merito, su appello anche del PM relativamente alla assoluzione, riformava come detto la sentenza di primo grado sul punto, condannando il R. anche per i reati sub D).

La vicenda che aveva dato origine al processo era quella relativa ad indagini che , su segnalazione di cittadini, occupanti alloggi popolari del Comune di (OMISSIS), presso il quale il R. esercitava le funzioni di responsabile dell’area tecnica e direttore dei lavori per il committente, erano state avviate con riferimento ad irregolarità dei lavori che si sarebbero dovuti realizzare dopo il terremoto del 2000, con fondi erogati dalla Regione.

Era rimasto accertato, in particolare, che il R. aveva, nella anzidetta qualità, rilasciato un falso certificato di regolare esecuzione di lavori edili e poi attestato lo stato finale dei lavori, affidati in appalto alla ditta Edilzeta, amministrata di fatto dal menzionato C., mentre i lavori in questione, che, come detto, dovevano attenere alla messa in sicurezza di immobili lesionati dal terremoto del 2000, e che avevano formato oggetto di progetti approvati preventivamente anche dall’ente erogatore dei fondi, o non erano mai stati eseguiti o lo erano stati solo in parte o lo erano stati con modalità sostanzialmente difformi rispetto ai progetti, così da indurre in errore gli enti pubblici che avevano effettuato il pagamento non dovuto. In più, a seguito dell’appello del PM, era stato ritenuto provato quanto contestato sub D) e cioè che fosse da inquadrare come abuso di ufficio e falsità ideologica anche la emissione della ordinanza del 3 novembre 2003, a carattere di urgenza, con la quale , per inquinare le indagini già avviate in ordine ai fatti sub A), B) e C), il R. aveva falsamente attestato, appunto, l’urgenza dei lavori edili non meglio specificati, per la eliminazione di infiltrazioni di acqua dal tetto, lavori che in realtà ed in concreto erano poi consistiti nella intonacatura del fabbricato di via (OMISSIS), essendo stati affidati per l’importo di L. 7 milioni alla ditta Manetti, mentre di tali lavori era già stata attestata (falsamente) la regolare esecuzione e conseguentemente già riscosso l’importo: con l’effetto, voluto dal ricorrente, di produrre intenzionalmente al Comune di (OMISSIS) un danno ingiusto.

Nel processo si erano costituite parti civili, originariamente, la Regione Emilia Romagna (la quale aveva poi revocato la costituzione, a seguito di transazione), il Comune di (OMISSIS) e i cittadini L.M. e Ca.El..

Deduce il ricorrente:

1) la violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2 e il correlato vizio di motivazione.

Le dichiarazioni rese da T.L. alla udienza del 21 ottobre 2008 dovevano ritenersi inutilizzabili perchè assunte in violazione della detta norma. Il T. era stato infatti assunto come teste mentre risultava aver concorso alla realizzazione dei fatti addebitati al R.. Egli aveva ammesso alla detta udienza di essere stato il raccordo tra C. (rappresentante della ditta Edilzeta) e R. stesso e di essersi prestato a stampare, su disposizione dei predetti, dei dati contabili in parte anche falsi per ottenere lo svincolo dei finanziamenti.

La centralità di tale deposizione era stata negata dalla Corte di merito che però ne aveva tenuto conto.

D’altra parte il P M aveva l’obbligo di evidenziare la compromissione del T. nei fatti del processo (emersa sin dalla redazione del verbale della GdF del 12 dicembre 2003), a nulla rilevando che all’inizio delle indagini, tale posizione potesse non essere subito emersa. Infatti quel che conta è il momento in cui emerga la compromissione, rilevabile non solo dal PM ma, anche, successivamente (ex post), dal giudice ( art. 63 c.p.p., commi 1 e 2).

Quanto al denunciato vizio di motivazione, esso riguarda i passi della sentenza nei quali si tratta appunto del ruolo attribuito al T..

Era stato affermato a pag. 30 che il T. nella fase finale della vicenda si era prestato a stampare una contabilità non conforme alle regole relative alla procedura di appalto: in tale posizione, la sua attendibilità avrebbe dovuto quindi essere oggetto di uno specifico vaglio, essendo evidente l’interesse del medesimo a sminuire la propria posizione ed aggravare quella del R..

In tale prospettiva la difesa evidenzia che il T. avrebbe reso una dichiarazione sicuramente infedele ai danni del R. e cioè quella dell’avere costui richiestogli (con telefonata dell’ottobre 2003) di apporre finti tiranti alle case comunali di via (OMISSIS) subito dopo avere appreso delle indagini della GdF sulle procedure di appalto. Ebbene, la ditta che poi era stata investita dell’incarico di effettuare i famosi lavori urgenti di cui al capo D), ossia la ditta Manetti, aveva recisamente negato che il R. avesse formulato una simile, assurda richiesta.

Anche l’imputato aveva affermato che la telefonata in questione era stata finalizzata a contestare la mancata effettuazione dei lavori di cui invece si era dato atto nelle procedure, ma la Corte proprio tale difesa aveva ritenuto inattendibile e illogica valorizzando le contrarie affermazioni di T. sulla richiesta, da parte del R., come detto, di apposizioni di falsi tiranti;

2) la erronea applicazione della legge penale (quanto ai capi A e B) e il correlato vizio di motivazione. In particolare non era stato ricostruito in modo convincente l’elemento psicologico dei reati di falso.

Ebbene si trattava di reati consumati, come da contestazione, nel dicembre 2002. mentre non era stata acquisita prova – eccettuate le dichiarazioni accusatoria di T. – che l’imputato avesse avuto, prima del luglio 2003, consapevolezza che le opere erano state seguite con modalità difformi dai progetti. Non prima della detta data l’imputato aveva effettuato il sopralluogo presso le case comunali interessate (teste Ga.), con la conseguenza che al momento della redazione dei verbali, pure contenenti attestazioni non conformi al vero, egli non era consapevole della difformità tra la realtà e quanto attestato.

Le motivazioni addotte dalla Corte al riguardo, avevano avuto tutte riguardo alle speciali competenze tecniche del prevenuto e al mancato rispetto dei doveri inerenti la funzione ossia profili che potevano evidenziare solo un comportamento colposo del prevenuto;

3) la erronea applicazione della legge penale (quanto al capo C) e il correlato vizio di motivazione.

La Corte di merito aveva escluso che il reato di truffa potesse essere negato alla luce della tesi secondo cui, pur in presenza di una situazione connotata da lavori non eseguiti, sarebbe stato decisivo il fatto che altri lavori al posto di quelli erano stati realizzati, così dando luogo ad una sorta di compensazione. Ebbene la Corte aveva negato legittimità a tale tesi osservando che il mancato rispetto delle procedure nella esecuzione dei secondi valeva a configurare come ingiusto il profitto comunque realizzato dalla ditta appaltatrice.

Invece, secondo la difesa, una simile tesi sarebbe errata perchè baserebbe gli elementi del reato di truffa su comportamenti invece solo integranti semplici irregolarità amministrative.

Nel tipo di caso descritto, quando afferente ad una "operazione economicamente unitaria", non sarebbe configurabile cioè la "ingiustizia" del profitto.

E nella specie si era appunto verificato (dichiarazioni C. e D.B.A., nonchè T.) che la ditta Edilzeta avesse effettuato un lotto dei lavori appaltati, quello cioè relativo al Teatro (OMISSIS), eseguendo lavori maggiori e assai più onerosi di quelli approvati, sicchè "ci stava rimettendo". Anche il consulente del PM, Le., non aveva escluso tale eventualità.

Quanto all’elemento psicologico del reato, era stato trascurato che il R. aveva seguito i lavori solo presso il Teatro (OMISSIS), e non anche presso gli altri cantieri, come quelli delle case comunali ove si era recato solo nel luglio 2003, a pagamenti già riscossi.

Ebbene, la Corte aveva valorizzato , ai fini della delineazione del dolo, la telefonata fatta a T. nell’ottobre 2003, dopo l’accesso della Guardia di Finanza, ossa un fatto irrilevante perchè successivo alla data di consumazione dei presunti reati.

Ugualmente l’addebito, contenuto in sentenza, del dovere il R. quantomeno presentare progetto di variante per legittimare i lavori in esubero disposti al Teatro (OMISSIS), vale a delineare un atteggiamento di negligenza, rilevante a titolo di colpa, ma non anche il dolo del reato di truffa. Alla rappresentazione di un comportamento solo colposo del ricorrente convergerebbe anche il rilievo della assenza di un movente che giustifichi la commissione della truffa. Nessun profitto risulta realizzato dal R. ma semmai, solo dalla ditta Edilzeta;

4) la erronea applicazione della legge penale (quanto ai capo D) e il correlato vizio di motivazione.

La Corte aveva ritenuto configurato il reato non credendo, in primo luogo, che i lavori di cui alla delibera di urgenza del 2003 avessero effettivamente il detto carattere, essendo viceversa gli stessi, in concreto, ordinati per mascherare parte di quelli non fatti ma già pagati dall’ente pubblico. Ebbene la difesa sostiene che, invece, di lavori sommamente urgenti si era trattato, come poteva evincersi dal tono della lettera del sig. Le.Ma., oggi parte civile, del 21 ottobre 2003. Una lettera che per la prima volta aveva investito l’ufficio tecnico ,a differenza di precedenti lamentele , e che presentava toni perentori, essendo stata minacciata una denuncia.

I lavori, data l’imminenza della stagione delle piogge, erano dunque davvero urgenti come del resto riconosciuto dal teste Me., indotto dal PM. La ditta Manetti, appaltatrice, dal canto suo ha negato di avere ricevuto l’ordine di effettuare lavori di mera apparenza quali quello della ripresa dell’intonaco, effettuati invece di propria iniziativa in ragione della disponibilità della impalcatura. Lavori, questi ultimi, peraltro del tutto incapaci di mascherare la mancata esecuzione delle opere ben importanti di riparazioni delle crepe, diversamente da quanto sostenuto dalla accusa. La Giunta comunale, del resto,aveva approvato la delibera di urgenza e difettava qualsiasi dimostrazione del perseguimento di un fine personale di illecito guadagno. Il lavoro di ripresa dell’intonaco, in conclusione, non aveva inciso sui costi a carico dell’ente e non aveva nociuto all’immobile;

5) il vizio di motivazione riguardo al diniego delle attenuanti generiche ed alla entità della pena.

Era stata ritenuta la spiccata intensità del dolo mentre, come dimostrato, i comportamenti del R. erano a cavallo tra il dolo e la colpa. Inoltre non erano stati valorizzati elementi favorevoli quali la transazione con la Regione che aveva revocato la costituzione di parte civile, la nascita di due gemelli al termine di una gravidanza a rischio, la pena, assai mite, inflitta al titolare della Edilzeta (sei mesi di reclusione, contro i tre anni irrogati al ricorrente) nonchè, infine la incensuratezza sostanziale del R., su cui grava un unico precedente per reato di modesta entità.

Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.

La parte denuncia la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da T., sentito quale teste mentre su di lui gravavano indizi di colpevolezza in ordine al concorso nel reato contestato al R..

Non è qui in discussione la tenuta della tesi difensiva sui presupposti per la operatività, nella specie, dei dettami dell’art. 63 c.p.p., atteso il principio anche da ultimo affermato dalle Sezioni unite di questa Corte secondo cui in tema di prova dichiarativa, allorchè venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010 Ud. (dep. 21/04/2010 ) Rv. 246584). Dirimente per la soluzione del problema sollevato dalla difesa è piuttosto il principio, anch’esso proveniente dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, in base al quale il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l’inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo al cosiddetto "criterio di resistenza", applicabile anche nel giudizio di legittimità (Rv. 241299).

Il presupposto, condiviso dalla stessa giurisprudenza è che in sede di legittimità, allorchè con il ricorso per cassazione sia eccepita l’illegale assunzione di una prova è consentito procedere alla cosiddetta "prova di resistenza", ossia valutare se tali elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, mediante il controllo della struttura della motivazione, al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa, anche senza l’utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sè sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Rv. 231832; massime precedenti Conformi: N. 1495 del 1999 Rv. 212274, N. 569 del 2004 Rv. 226972).

Ebbene si rileva nella sentenza impugnata la effettuazione della detta prova di resistenza, conclusa, in base ad un ragionamento esaustivo e logico, con esito positivo.

La Corte ha dettagliatamente spiegato che per ciascuno dei reati addebitati le prove raccolte , diverse dalle dichiarazioni del T., erano ampiamente sufficienti a sostanziare la tesi della accusa.

Ha citato gli accertamenti eseguiti dalla PG dai quali erano emersi elementi rilevanti per la ricostruzione della condotta dell’imputato e del suo atteggiamento psicologico; le acquisizioni documentali, la attività di consulenza, una serie di fonti dichiarative oltre alle parole dello stesso R. il quale non aveva potuto negare quantomeno la materialità dei falsi che gli venivano addebitati. La Corte ha, correttamente, ricordato la importanza, nel caso in esame, della prova logica atta ad essere utilizzata in relazione al comportamento del R. che era apparso come quello di un giocatore di azzardo, il quale, pur operando per l’appaltatore, si era arrogato il diritto di scegliere di accantonare un progetto di appalto di opera pubblica per eseguire e ottenere il pagamento di opere diverse, non autorizzate e non documentate adeguatamente.

Ancora la Corte ha ricordato la prova costituita dai tabulati telefonici relativi a contatti rispetto ai quali le spiegazioni fornite dal ricorrente sono apparse non credibili; ha poi menzionato la importantissima prova costituita dalla contabilità della ditta Edilzeta difforme da quella ufficiale.

Ma soprattutto la Corte ha sottolineato la centralità delle dichiarazioni accusatorie del coimputato C. (la cui posizione è stata trattata separatamente) il quale in parte ha riportato quanto, a suo tempo, riferitogli dal T. ma ha anche effettuato ricostruzioni derivanti da conoscenze personali e risultate tali da costituire autonome prove a carico.

Il suo racconto contemplava il fatto che il presunto credito vantato dalla Edilzeta derivava da lavori non oggetto dell’appalto in questione ed effettuati a titolo di compensazione con riferimento ad altri non effettuati affatto; inoltre egli aveva ammesso la tenuta di una contabilità che rifletteva la realtà dei soli lavori posti in essere, comunicata periodicamente a R.; aveva anche attribuito all’imputato le scelte dei cantieri da portare avanti.

Aveva poi reso dichiarazioni sui dissidi intercorsi tra R. e T. e la richiesta di questi di essere esonerato dall’incarico di capo cantiere per ragioni attinenti alla fase esecutiva dei progetti.

Non aveva poi mancato di indicare il R. come colui dal quale era promanata la disposizione di presentare contabilità diversa da quella reale per non avere problemi di incasso e la assicurazione che per i lavori suppletivi si sarebbe trovato un altro sistema.

Non di minore importanza, a fini probatori, per la Corte era il fatto, poi rifluito nel capo D), che il R. per il tramite di T. gli aveva fatto pervenire richieste di effettuare lavori atti a mascherare le inadempienze fino a quel momento concretizzatesi e cioè la apposizione dei finti tiranti nelle case comunali e la tinteggiatura a calce come se fosse una tinta vecchia.

Rispetto a tutte queste emergenze, di evidente imponenza e decisività, la difesa nulla obietta, limitandosi ad evidenziare, peraltro soltanto tra i motivi riguardanti la pretesa inattendibilità del dichiarante, circostanze incapaci di dimostrare la centralità delle dichiarazioni del T. le quali sono giunte solo a conferma di dati ampiamente provati in base alle emergenze già ricordate.

In ragione di tale rilievo perdono di apprezzabilità le doglianze della difesa sulla tenuta della motivazione- a questo punto superflua- riguardante la attendibilità del T..

Infondato è poi il secondo motivo di ricorso.

La difesa contesta che sia stata adeguatamente rappresentata la prova della consapevolezza dei falsi, in capo al ricorrente, con riferimento al momento consumativo del preteso reato, ossia alla data del dicembre 2002.

E ciò in ragione del fatto che, secondo le dichiarazioni del R., sostanzialmente sul punto non contestate dai giudici del merito, egli avrebbe omesso di appurare lo stato di avanzamento dei lavori (diversi da quelli del teatro), attestati però come eseguiti, venendo a conoscenza della reale situazione solo alcuni mesi dopo.

Una simile ricostruzione dei fatti non esclude però, come del resto ben messo in evidenza dai giudici del merito, la configurazione delle falsità ideologiche contestate.

Nel caso di specie, sostenere – come ha fatto l’imputato di non avere effettuato i sopralluoghi nei cantieri con riferimento ai quali, poi, ha attestato la esecuzione, a regola d’arte, dei lavori, costituisce in sè la prova del reato di falsità ideologica, sia dal punto di vista soggettivo ed oggettivo.

In riferimento in particolare all’aspetto soggettivo, va sottolineato che l’agente, in veste anche di direttore dei lavori, nell’attestare la corretta esecuzione e la ultimazione dei lavori, ha presupposto a tale attestazione – come elemento storico e logico – quella della verifica sul posto, verifica che gli competeva sia in ragione della anzidetta qualità che in ragione della qualità di pubblico ufficiale responsabile della attestazione.

Negli stessi termini si è già espressa la giurisprudenza della Cassazione, citata anche nella sentenza impugnata, secondo cui integrano il delitto di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, anche le false attestazioni contenute nello stato di avanzamento dei lavori di opera pubblica (ed a maggior ragione, qui si aggiunge, le false attestazioni sulla corretta esecuzione delle opere e sulla loro ultimazione) che ha natura di atto pubblico in quanto redatto dal direttore dei lavori che, quale pubblico ufficiale, attesta verifiche dallo stesso effettuate e il compimento di attività e di opere eseguite sotto il suo diretto controllo (Rv. 244098; massime precedenti Conformi: N. 5562 del 1986 Rv. 173122, N. 14731 del 1999 Rv. 215197, N. 35155 del 2005 Rv.

232564).

E non v’è dubbio alcuno, anche sul piano strettamente logico, dunque, che debba rispondere di falsità ideologica il ricorrente che, pur consapevole di non avere controllato la esecuzione materiale dei lavori, attesti invece di avere verificato la esatta osservanza, da parte della ditta appaltatrice, dei progetti approvati, attività dalla quale scaturisce il legittimo credito del corrispondente pagamento.

Non si tratta, come è evidente, della rilevazione di un dolo in re ipsa o peggio, della confusione del dolo con la colpa, poichè l’esatta verifica della esecuzione dei lavori non costituisce per il pubblico ufficiale attestante un mero onere ma l’oggetto stesso della sua attestazione con effetti per la pubblica fede.

Inammissibile è il terzo motivo di ricorso.

L’assunto del ricorrente, secondo cui mancherebbe l’elemento costitutivo del reato di truffa rappresentato dal conseguimento di un ingiusto profitto, è stato motivatamente disatteso dalla Corte e nel ricorso ci si limita, nella sostanza, alla riproposizione del corrispondente motivo di appello.

Ancora una volta occorre rifarsi alla motivazione esibita dalla Corte di merito la quale esattamente ha posto in evidenza che la prospettazione della difesa, secondo cui la mancanza dell’ingiusto profitto deriverebbe da una sorta di compensazione tra lavori approvati e non eseguiti, da un lato, e altri lavori eseguiti al di là ed oltre il tenore di uno dei progetti approvati, è del tutto non apprezzabile perchè irrilevante.

La Corte a pag. 22 e seg. ha bene posto in evidenza che la truffa aggravata si è realizzata in danno del Comune che ha pagato e ricevuto danno non solo in relazione alle opere mai svolte ma anche quando ha pagato per lavori diversi da quelli approvati, ritenendo, perchè ingannato con il contributo determinante del suo direttore dei lavori, di saldare quelli in progetto". Infatti il danno si è prodotto per il Comune – con corrispondente ingiusto profitto per l la ditta appaltatrice, ma con il concorso determinante di R. – a causa del pagamento anche di opere eseguite senza approvazione della previa necessaria variante e quindi non costituenti titolo per la liquidazione da parte dell’ente il quale era il solo a poter scegliere i tipi di intervento e i tempi per affrontare la mole di opere da eseguire a seguito dei danni del terremoto.

Altrettanto correttamente e con motivazione ineccepibile, la Corte ha liquidato la censura proveniente dalla difesa circa la mancata individuazione di un movente economico per il R., evidenziando che l’ingiusto profitto del terzo è sufficiente a delineare la responsabilità dell’agente che abbia agito in concorso.

Circa le modalità di definizione del dolo del reato di truffa, poi, la difesa opera a suo modo una rivisitazione di talune emergenze (visita ai cantieri solo nel luglio 2003, telefonata di contestazione del R. dell’ottobre 2003) che non costituiscono affatto l’asse portante del ragionamento seguito dai giudici del merito e si risolvono pertanto in una inammissibile prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti. La Corte infatti ha mostrato di accreditare la tesi della accusa, relativa al concorso nel reato di truffa da parte del R., muovendo dal dato della adozione, da parte sua, dei due atti pubblici ideologicamente falsi, adozione che era servita da presupposto materiale (oltre che logico) per la perpetrazione dell’inganno ai danni dell’ente pubblico, a nulla rilevando che l’imputato abbia sostenuto di essersi recato solo in seguito presso i cantieri interessati.

Il quarto motivo è inammissibile perchè si risolve in una sollecitazione rivolta alla Corte ad effettuare un rivalutazione del materiale probatorio, autonoma rispetto a quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

La Corte ha argomentato in maniera razionale e completa in ordine alla tesi dell’essere stati, i lavori disposti in via di urgenza, una mera copertura volta a mascherare per quanto possibile la mancata esecuzione di lavori post-terremoto, approvati e liquidati dagli enti.

La rivisitazione degli elementi di prova richiesta dal difensore con particolare agli effetti prodotti, a suo modo di vedere, dalla lettera del Le., non è attività che questo giudice della legittimità può compiere sostituendosi al giudice del merito.

Deve sul punto ricordarsi che in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Non è mancata neppure, ad opera della Corte di merito, la analisi del dato costituito dalla approvazione, ad opera della Giunta Comunale, nel 2004, dei lavori disposti in via di urgenza da parte del R..

I giudici di secondo grado hanno escluso che si sia trattato della legittimazione dell’operato del R. in quanto dalla relazione tecnica di accompagnamento alla delibera di liquidazione si ricavava comunque che i lavoro di manutenzione straordinaria in fabbricati di civile abitazione quali le infiltrazioni di acqua meteorica per cattivo stato manutentivo sono in linea di principio programmabili a differenza di quelli, di cui è evidente la somma urgenza, quali le frane, gli incendi, le alluvioni. Inoltre nella stessa relazione tecnica si era dato atto che i lavori eseguiti da ultimo nelle case popolari e di cui alla imputazione era stata registrata una duplicazione di spesa.

I giudici concludevano rilevando che il Comune di (OMISSIS) aveva riconosciuto la liquidazione dei lavori di cui al capo D) non perchè ne condividesse la qualità urgente ma perchè non era nelle condizioni di contestare la pretesa di pagamento dei lavori comunque eseguiti da parte della impresa.

Inammissibile è poi l’ultimo motivo di ricorso, limitatamente al diniego delle attenuanti generiche.

Tutte le doglianze rappresentate dalla difesa lo erano state anche e negli stessi termini, nei motivi di appello.

Osserva in proposito la giurisprudenza di legittimità che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Rv. 243838;massime precedenti Conformi: N. 8443 del 1986 Rv. 173594, N. 12023 del 1988 Rv. 179874, N. 84 del 1991 Rv. 186143, N. 1561 del 1993 Rv. 193046, N. 12 del 1997 Rv. 206507, N. 11933 del 2005 Rv. 231708). La Corte ha dimostrato di analizzare in maniera logica ed esauriente tanto il tema della intensità del dolo cui la parte contrappone una propria rivisitazione del la materia, non accreditata nella motivata argomentazione del giudice del merito; ha poi valutato il tema del precedente per minaccia gravante sull’imputato e la questione delle sue difficoltà di tipo familiare; ha considerato la irrilevanza della transazione effettuata con la Regione, parte civile ed infine la diversità, ragionata, del trattamento sanzionatorio riservato al C..

Non si apprezza dunque nè mancanza nè manifesta illogicità della motivazione ma solo una riproposizione dei motivi di appello, già argomentatamente disattesi. la infondatezza del secondo motivo di ricorso, non inammissibile, ha comportato, limitatamente ai reati di cui ai capi A) e B) il decorrere del termine prescrizionale, trovando applicazione, nella specie, i principi introdotti con la novella ex L. n. 21 del 2005 (la sentenza di primo grado, infatti, è successiva alla entrata in vigore della detta legge che, per il caso che occupa, introduce criteri più favorevoli). Si tratta, cioè, del principio posto dall’art. 157 c.p., comma 1 in base al quale il termine di prescrizione è pari a quello della pena edittale massima e comunque non inferiore a sei anni; inoltre, del principio posto dall’art. 158 c.p. in base al quale, anche nel caso della "continuazione" il termine della prescrizione decorre dalla consumazione di ciascun reato.

I detti reati sub A) e B) vanno dunque dichiarati prescritti, con onere, per il giudice del rinvio, di procedere a nuovo calcolo della pena per i restanti reati, secondo i principi sopra enunciati, rimanendo esclusa, per questi ultimi, la possibilità di eventuale successiva declaratoria di prescrizione in quanto, sul tema della responsabilità, si è formato il giudicato (fra le molte, v. Sez. U, Sentenza n. 4904 del 26/03/1997 Ud. (dep. 23/05/1997 ) Rv. 207640, ric. Attinà).
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione ai reati di cui ai capi A) e B) per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione e rinvia per nuova determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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