Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 20-01-2011) 02-03-2011, n. 8400

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione L.L. avverso la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno in data 24 maggio 2010 con la quale è stata confermata quella di primo grado, affermativa della sua responsabilità in ordine ai reati di minacce e tentate lesioni personali volontarie in danno di D.D.B. e di sua madre Da.Da., fatti commessi nel (OMISSIS).

L’affermazione di responsabilità era basata sulle dichiarazioni delle persone offese e di una seri di altri testimoni.

Deduce:

1) il vizio di motivazione, per non avere il giudice esattamente ricostruito la fattispecie che aveva visto la L. solo chiedere informazioni alla Da., senza proferire minacce o colpire;

2) la violazione di legge. La inattendibilità della Da. circa la effettiva pronuncia della frase minacciosa rivolta contro la figlia e la assoluta assenza nel comportamento asseritamente prospettato dalla imputata ("la ucciderò con le mie mani") di qualsiasi attitudine a ledere in concreto l’incolumità altrui, avrebbero dovuto portare ad una diversa decisione;

3) la mancata assunzione di prove decisive sollecitate dalla difesa della imputata ex art. 507 c.p.p.;

4) la violazione dell’art. 3 Cost. in quanto il giudice ha affermato che mentre le lesioni della persona offesa erano valutabili in ragione della certificazione medica prodotta, non altrettanto poteva dirsi per quelle della imputata;

5) il vizio di motivazione sulla entità del danno morale liquidato.

Con istanza depositata 24 novembre 2010 la ricorrente ha chiesto, nelle more della fissazione del ricorso, procedersi ex art. 612 c.p.p a sospensione della efficacia delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata.

In udienza è pervenuta una istanza di rinvio per impedimento del difensore.

La stessa non ha meritato accoglimento nel rispetto del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la richiesta di differimento dell’udienza per concomitante impegno professionale del difensore deve essere corredata anche dalla giustificazione della mancata nomina di un sostituto, come è desumibile, oltrechè da ragioni d’ordine sistematico, dall’ultimo periodo dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5. (Rv. 241571; Massime precedenti Conformi: N. 308 del 2001 Rv. 218157, N. 48711 del 2003 Rv. 227693).

Il ricorso è inammissibile.

Il primo ed assorbente profilo di inammissibilità è quello che in udienza anche il difensore di parte civile ha evidenziato.

La impugnazione è stata presentata dalla imputata, che la ha sottoscritta personalmente e la ha inviata mediante Lettera raccomandata. Difetta tuttavia l’autentica della sottoscrizione, contestuale ad essa.

In proposito ha osservato la giurisprudenza che la dichiarazione d’impugnazione è un atto a forma vincolata, e pertanto le modalità di presentazione e ricezione della stessa costituiscono requisiti di forma che non ammettono equipollenti, dovendo assicurarsi la certezza circa la sottoscrizione di essa e dei motivi da parte dell’interessato, certezza che può provenire esclusivamente dall’attestazione del funzionario a tal fine designato dalla legge (Rv. 229709).

Nella specie l’art. 583 c.p.p. imponeva che la sottoscrizione apposta dalla parte privata fosse contestualmente autenticata da un notaio o da altra persona autorizzata o dal difensore, e di un simile incombente non vi è traccia, con la conseguenza che opera la sanzione della inammissibilità prevista dall’art. 591 c.p.p..

Altro profilo di inammissibilità sarebbe derivato, comunque, dalla manifesta infondatezza del ricorso.

Il primo motivo consiste in una inammissibile sollecitazione rivolta alla Corte di cassazione a valutare autonomamente i risultati di prova, la cui disamina spetta invece esclusivamente alla sede del merito ed è insindacabile se sorretta, come nella specie, da un ragionamento esaustivo e razionale.

Il secondo motivo è parimenti inammissibile in primo luogo in quanto il giudice ha speso argomentazioni assolutamente plausibili per illustrare la ritenuta attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese, peraltro corroborate da altre testimonianze.

Manifestamente infondata è poi la pretesa di vedere riconosciuta la assenza di offensività in una frase quale quella contestata nel capo di imputazione considerato che prospettare un male ingiusto come la morte costituisce un tipo di minaccia; addirittura paradigmatica mentre non sono emerse, a tempo debito, circostanze di fatto che consentissero di colorare diversamente la frase pronunciata.

Il terzo motivo è manifestamente infondato posto che la costante giurisprudenza di legittimità esclude che possa denunciarsi come mancata assunzione di prova decisiva, ex art. 606 c.p.p., lett. d), quella che non ha costituito oggetto di esercizio del diritto alla prova ex art. 495 c.p.p. ma semplicemente materia di stimolazione dei poteri officiosi del giudice ex art. 507 c.p.p..

Il quarto motivo è palesemente non apprezzabile tenuto conto che il ragionamento del giudice non è affatto discriminatorio a fronte di situazioni uguali. Semmai il giudice ha affermato che nel processo in esame le eventuali lesioni riportate dalla imputata , ove riferibili alla mano delle persone offese, sarebbero – tenuto conto della graniticità del quadro probatorio a carico – l’esito di una difesa legittima contrapposta alla azione dolosa della ricorrente.

Tale ricostruzione della vicenda rende evidente che solo il danno riportato dalle persone offese, quale conseguenza diretta ed immediata di un comportamento doloso della L., sono suscettibili di risarcimento mentre quelle riportate eventualmente dalla imputata, comunque di incerta eziologia, non sono riferibili ad una azione colpevole delle persone offese ma, al più ad un comportamento scriminato e privo di rilevanza giuridica. Esse, per quanto provate, non sono nella specie suscettibili di azione risarcitoria.

Anche l’ultimo motivo è manifestamente infondato tenuto conto che la parte lamenta la ingiustificata condanna, contenuta nella sentenza impugnata, al versamento di 1000,00 Euro in favore di ciascuna delle parti civili, a suo dire non motivata.

Invero la sentenza impugnata statuisce la condanna "al rimborso in favore della parte civile delle spese di giudizio che si liquidano in Euro mille/00" oltre accessori. Si tratta dunque della liquidazione delle spese legali sostenute nel grado dalle parti civili e non del risarcimento del danno, diversamente da quanto evidenziato nei motivi di ricorso. La somma in questione, in altri termini, non poteva e non doveva essere commisurata al danno patito, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000,00.

Stante il carattere definitivo della condanna non vi è più luogo ad esaminare la richiesta di sospensione della esecuzione delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata, istanza subordinata alla pendenza del ricorso.

La soccombenza comporta la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, spese la cui liquidazione – come da dispositivo – deve tenere conto del principio, posto dall’art. 5, comma 4 del tariffario forense, secondo cui qualora in una causa l’avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale l’onorario unico può essere aumentato per ogni parte oltre la prima del 20% fino ad un massimo di dieci.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000,00.

La condanna altresì al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili che liquida complessivamente in Euro 2.500,00 per entrambe le PPCC, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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