Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-01-2011) 02-03-2011, n. 8024 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 6 marzo 2006 il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, in composizione monocratica, dichiarava F.N. colpevole dei reati a lui ascritti nell’ambito dei procedimenti penali n. 40585/02, 23663/03, 31407/03, 46495/02, 12120/03,1329/02, fatta eccezione per i fatti asseritamente accertati il (OMISSIS) (proc. pen. 40585/02), l'(OMISSIS) (proc. pen. 12120/03) e il (OMISSIS) (proc. pen. n. 31407/03) e, ritenuta la continuazione fra i reati, lo condannava alla pena di sei mesi di arresto. Dichiarava, inoltre, l’imputato colpevole dei reati a lui ascritti nel proc. pen. 34214/03 e, ritenuta la continuazione fra i reati di cui ai capi b) e c), lo condannava alla pena di un anno, sette mesi di reclusione. Assolveva F. dai reati a lui ascritti nel proc. pen. 40585/02, commessi il (OMISSIS), e da quelli contestati nel proc. pen. n. 31407/03, perchè il fatto non sussiste.

2. Il 6 marzo 2006 la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dall’imputato, dichiarava non doversi procedere nei confronti di F. in ordine a tutte le contravvenzioni a lui ascritte, perchè estinte per prescrizione;

ritenuta la continuazione tra i residui reati di cui ai capi a), b), c), determinava la pena in un anno e tre mesi di reclusione, confermando nel resto la decisione appellata.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato, il quale lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, fondata sul pedissequo richiamo degli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato da parte della sentenza di primo grado, omettendo di valutare i rilievi formulati dalla difesa nell’atto di appello.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha illustrato gli elementi di prova (deposizioni dei verbalizzanti, accertamenti e rilievi svolti dalla polizia giudiziaria, documentazione fotografica dello stato dei luoghi in cui si verificò il fatto e delle condizioni personali dell’imputato) che, pur tenendo conto dei rilievi difensivi, consentono di ritenere integrati gli estremi dei delitti contestati. A fronte di una trama argomentativa razionalmente motivata, il ricorso della difesa, peraltro formulato in maniera generica senza tenere conto delle considerazioni svolte dal giudice d’appello, tende a prospettare in via meramente ipotetica una diversa dinamica dei fatti e una non consentita interpretazione alternativa degli stessi.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille Euro alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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