Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-04-2011, n. 9471

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 2-6-1996 R.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Latina la ex coniuge S.S.I. chiedendo lo scioglimento della comunione sussistente tra le parti di un terreno con sovrastante fabbricato sito in (OMISSIS), oltre agli arredi ed ai mobili acquistati da essi in comunione.

L’attore assumeva tra l’altro che la domanda era suffragata dell’intesa raggiunta tra le parti nell’ambito del giudizio per cessazione degli effetti civili del matrimonio, in base alla quale le modalità di divisione del cespite erano state rinviate fino al raggiungimento di un nuovo accordo.

Si costituiva in giudizio la convenuta eccependo l’improcedibilità della domanda relativa alla divisione degli immobili, in quanto il fabbricato suddetto era stato realizzato su terreno gravato da uso civico e quindi non appartenente alle parti.

Il Tribunale adito con sentenza dell’11-2-2002 accoglieva la domanda di divisione dei beni mobili, ma rigettava la domanda di divisione degli immobili.

Proposto gravame da parte del R. cui resisteva la S. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 20-7-2004 ha rigettato l’impugnazione.

Per la cassazione di tale sentenza il R. ha proposto un ricorso affidato a due motivi illustrato successivamente da una memoria cui la Stella ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 823 c.c., omessa motivazione e violazione della L. n. 326 del 2003 con riferimento alla L. n. 47 del 1985, premesso che effettivamente le parti al momento della proposizione della domanda introduttiva dell’atto di citazione del giudizio di primo grado erano proprietarie tra l’altro di una zonetta di terreno gravato da usi civici ancora intestato al Comune di San Biagio, assumeva che i coniugi R. – S. avevano richiesto in data 30- 7-1988 al suddetto Comune l’autorizzazione ad eseguire lavori di straordinaria manutenzione sul piccolo fabbricato già esistente loro pervenuto con scrittura privata autenticata del 17-11-1988; ottenuta tale autorizzazione, essi avevano realizzato un fabbricato diverso per volumi, superfici, caratteristiche tipologiche ed ordini architettonici da quello preesistente; tuttavia nelle more del giudizio di appello, prima della precisazione delle conclusioni, era intervenuta la L. n. 326 del 2003 di sanatoria degli immobili realizzati antecedentemente al marzo 2003, cosicchè l’appellante aveva chiesto al giudice di appello di nominare un CTU per la divisione e la valutazione dell’immobile, considerato altresì che l’esponente aveva presentato domanda di condono edilizio, così come documentato all’udienza del 13-3-2004, e domanda di acquisto dell’area al Comune di Monte San Biagio; ebbene la Corte territoriale ha omesso ogni motivazione al riguardo.

La censura è infondata.

Il giudice di appello ha rilevato sulla base della CTU espletata nel giudizio di primo grado che le parti avevano edificato un fabbricato privo di concessione edilizia su un’area demaniale, in quanto tale non alienabile e non divisibile e non suscettibile di formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano ai sensi dell’art 823 c.c..

Orbene, premesso che tale statuizione non risulta almeno specificatamente censurata dal R., il rilievo di quest’ultimo in ordine al fatto che la Corte territoriale non ha accolto la richiesta dell’esponente di disporre una nuova CTU avente ad oggetto la divisione e la valutazione dell’immobile per cui è causa con riferimento alla pratica di condono avviata dall’esponente a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 326 del 2003 è infondato, atteso che con il motivo in esame il ricorrente neppure deduce che vi sia stata una sanatoria in proposito, circostanza quindi che non risulta provata; correttamente pertanto la sentenza impugnata ha ritenuto sia pure implicitamente irrilevante l’espletamento di una nuova CTU. Con il secondo motivo il R., deducendo violazione dell’accordo raggiunto tra le parti in sede di separazione consensuale, rileva che erroneamente il giudice di appello ha fatto riferimento ad una ipotetica assegnazione della casa coniugale, invece che ad un consenso transattivo di disponibilità "fino al raggiungimento di un accordo per la divisione della stessa", di fatto non più intervenuto; ancora erroneamente la sentenza impugnata ha disatteso anche la richiesta del riconoscimento della metà del valore locativo dell’immobile sulla base dell’insussistente presupposto di una assegnazione dell’immobile alla S. in base ad una sentenza del Tribunale di Latina; in realtà la sentenza non esisteva, posto che i coniugi si erano poi separati consensualmente concordando l’impegno a dividere l’immobile stesso.

La censura è infondata.

Sotto un primo profilo è appena il caso di rilevare che la pattuizione tra le parti della assegnazione alla moglie dell’immobile in questione, costituente la casa familiare, fino ad un futuro accordo tra di esse circa la sua divisione è irrilevante, sia perchè tale accordo non risulta essere mai stato raggiunto, sia per la ragione assorbente che la divisione del bene è preclusa dalle considerazioni svolte in sede di esame del primo motivo di ricorso.

Deve poi osservarsi che il giudice di appello ha disatteso la richiesta del R. del riconoscimento in proprio favore di metà del valore locativo dell’immobile per cui è causa, considerato che una tale attribuzione si sarebbe posta in contrasto con la sentenza del Tribunale di Latina che aveva assegnato l’immobile in questione alla S. in qualità di affidataria della figlia minorenne (trattasi evidentemente della sentenza che ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra le parti cui fa riferimento lo stesso R. a pagina 2 del ricorso); tale convincimento è corretto, posto che l’assegnazione dell’immobile suddetto alla S. è fondata su di un titolo giudiziale (sia pure erroneamente individuato dalla Corte territoriale nell’art. 156 c.c.) che non risulta essere stato modificato nelle forme di legge.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 1800,00 per onorari di avvocato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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