Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-01-2011) 02-03-2011, n. 8020 Armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

-1- In riforma della sentenza emessa dal gip presso il tribunale di Termini Imerese in data 17.3.2008, la corte di appello di Palermo, con sentenza in data 4.3.2010, escludeva l’aggravante della premeditazione contestata a P.G. in relazione al tentato omicidio ai danni di Pr.Vi. e, per l’effetto, riduceva la pena inflitta in primo grado al predetto P. per i reati ex art. 56, 575, 110 e 612 cpv. c.p. e L. n. 110 del 1975, art. 4 ad anni quattro e mesi sei di reclusione, mentre confermava la pena di mesi quattro di reclusione inflitta a P.A. per il reato di minaccia aggravata, in concorso con il figlio G., ex art. 110 e 612 cpv. c.p..

-2- La ricostruzione del fatto, con la valorizzazione delle circostanze indizianti, veniva operata dai giudici di merito nel modo seguente: in seguito alle minacce di morte profferite nello stesso contesto di tempo e di luogo, in (OMISSIS), da P.G. e P.A. nei confronti di Pr.Vi. per il fatto che il predetto aveva lasciato dopo una lunga relazione, P.M., rispettivamente sorella di G. e figlia di A., P.G., due giorni dopo, aveva ferito il Pr., servendosi di un coltello con una lama superiore a 7 centimetri di lunghezza, procurandogli una lesione pleurica ed una lesione splenica con compromissione di organi vitali, lo aveva inseguito con in mano anche una accetta, ma al momento di colpirlo, desisteva, si dava alla fuga per poi essere arrestato dai Carabinieri.

I giudici di merito, con riferimento alle minacce dei due imputati al Pr. il giorno 10.5.2006, prestavano fede, con diffuse osservazioni e argomentazioni, a quanto trasfuso nell’esposto redatto dalla persona offesa in presenza del suo difensore, ritenendo che le discrasie del suo racconto, rispetto alle dichiarazioni rese successivamente al P.M., riguardassero aspetti marginali per nulla infirmanti il nucleo forte del racconto. Le imprecisioni del racconto della persona offesa, come le disarmonie rispetto al complessivo costrutto testimoniale, venivano tutte considerate ed analizzate, pervenendo alla conclusione decisoria travasata nel dispositivo.

I motivi di appello si erano impegnati per sostenere la tesi, con riferimento al tentativo di omicidio, della sussistenza della causa di esclusione del reato e/o causa personale sopravvenuta di non punibilità rappresentata dalla desistenza. I giudici di secondo grado hanno ritenuto che in tanto la desistenza volontaria avrebbe potuto configurarsi in quanto il tentativo fosse incompiuto e non invece come nella specie fossero stati realizzati tutti gli atti idonei a produrre l’evento letale. Hanno aggiunto anche quei giudici che la condotta in tesi desistente avrebbe dovuto essere sorretta dall’elemento psicologico tipico della spontaneità della azione, non motivata da cause che non fossero la determinazione libera, senza condizionamenti, di recedere, per l’appunto. Nella specie, invece, la protrazione della condotta era stata impedita dalla presenza sulla scena del delitto di più testi oculari che preannunciavano l’imminente intervento, come del resto è accaduto, delle forze dell’ordine.

-3- Due, i motivi del ricorso congiunto proposto dai due imputati avverso la sentenza della corte di appello di Palermo, i seguenti:

A) violazione dell’art. 612 c.p. e art. 192 c.p.p. e art. 530 c.p.p., comma 2 costitutivi dei vizi della decisione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).

I giudici i merito avrebbero ritenuto, senza giustificazione, ininfluenti, ai fini della ritenuta attendibilità della versione fornita in merito alle minacce dalla persona offesa, le discordanze tra l’esposto presentato dal Pr. e le dichiarazioni rese il 31.10.2006 al P.M, la smentita del teste B.M. sulle confidenze fattegli dal Pr. in merito alle minacce subite, le dichiarazioni sempre concordi dei due coimputati di non averlo, quest’ ultimo, mai minacciato. I riscontri poi alle accuse di Pr. menzionati in sentenza – la relazione di servizio del maresciallo A. che il giorno stesso del tentativo di omicidio era stato avvicinato dalla persona offesa che gli aveva palesato i suoi timori in seguito alle minacce degli imputati e le dichiarazioni di una zia della persona offesa, tale F.L., che da una terza persona, P.A.M., sorella della P.M., avrebbe ricevuto la confidenza delle intenzioni minacciose verso il nipote espresse dal tale P.G. – non sarebbero tali perchè la relazione riporta le dichiarazioni dello stesso Pr. e le intenzioni di minacce di morte furono manifestate, giusta la deposizione della F., in presenza di P.A.M., non da P.G., ma dal di lui padre A.. Il motivo di ricorso si diffonde ancora nel rilevare altre presunte contraddizioni in base a circostanze di fatto peraltro tutte considerate, con diversa spiegazione, dai giudici di merito.

B) Violazione degli artt. 56, 575 e 582 c.p. e art. 192 c.p.p. costitutiva del vizio ai sensi ancora dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

I giudici di merito avrebbero fatto perno per escludere l’inoperatività nella specie della desistenza volontaria su due precedenti minoritari di questa Corte (Sez. 6, 9.4/12.8.2009, Norci, Rv. 245233; Sez. 1, 23.9/21.10.2008, Di Salvo, Rv. 241340) che sarebbero stati sconfessati dalla giurisprudenza prevalente alla cui stregua la desistenza opera anche con riferimento al tentativo compiuto, allorchè la desistenza sia dovuta ad una resipiscenza non condizionata del soggetto agente. E agli atti vi sarebbero – ed il ricorso non manca di enumerarle – una serie di deposizioni testimoniali che attestano che P.G., a fronte della vittima già ferita, ed in tesi non mortalmente, ed inerme a terra, pur standogli sopra, armato di ascia, si allontanava con l’arma predetta in mano. Concludeva la difesa del ricorrente nel senso che il reato di tentato omicidio avrebbe dovuto e dovrebbe derubricarsi in delitto di lesioni peraltro non aggravate dalla durata della malattia prognosticata guaribile in 30 giorni.

Il ricorso non è fondato.

Il primo motivo di ricorso ripete le cadenze proprie delle argomentazioni poste a sostegno dei motivi di appello, tutte affrontate e dipanate dai giudici con un discorso giustificativo che non può essere nuovamente criticato in questa sede, con gli stessi argomenti: il merito non può costituire campo di rivisitazione in sede di legittimità, allorchè esso non si traduca in censure denotanti la manifesta illogicità attraverso l’individuazione di regole inferenziali stravaganti di cui il giudice si sia servito per collegarle a circostanze di fatto inesistenti o del tutto travisate.

Ma il motivo di ricorso si tiene ben lontano da un tale approccio, peraltro improponibile nella misura in cui i giudici di merito svolgono un ragionamento strettamente fedele agli elementi fattuali di cui danno un significato coerente e congruo. In tema di prove, poi, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni.

Non è consentito, in conclusione, al giudice di legittimità di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Del resto le minacce di morte che la persona offesa riferisce esserle state rivolte dai due imputati,e per una causale ben nota nel contesto familiare e sociale dei protagonisti, hanno trovato un riscontro incontestabile nel l’episodio di due giorni dopo le minacce: l’aggressione subita dal Pr. ad opera di P. G..

Parimenti non può essere accolto il secondo motivo di ricorso teso a far valere la sussistenza, nel caso di specie, della desistenza volontaria. Vanamente il ricorrente richiama, a sostegno della sua tesi, le numerosissime pronunce giurisprudenziali che sottolineano che la desistenza, quale che sia la sua natura giuridica- elemento negativo della tipicità del tentativo, esimente, causa di estinzione del reato, causa di risoluzione del reato, causa personale sopravvenuta di non punibilità del reato- presuppone un tentativo punibile per il fatto che opera pacificamente ab extrinseco ed ex post. Il problema della desistenza, infatti, si pone dal momento in cui l’agente, come dispone l’art. 56 c.p., comma 3, può considerarsi, per l’appunto "colpevole", per il fatto che compie il primo atto idoneo e non equivoco ed ancora, eventualmente altri atti, in prosecuzione, a condizione che, per le più svariate ragioni, non si realizzi la consumazione del reato oggetto dell’intenzione dell’agente.

Non ignora il collegio che il tema proposto almeno nel dibattito culturale, in dottrina, non è ancora sopito con riferimento ai reati casualmente orientati, nei quali cioè la condotta è tipicizzata con riferimento alla sua efficienza causale rispetto all’evento. In tale prospettiva affermare che la desistenza si verifica allorchè il colpevole di delitto tentato interrompe volontariamente l’iter della condotta criminosa non risolve il problema, perchè rimane da definire gli elementi strutturali e cronologici dell’iter criminoso che non è decifrato per note interne dal legislatore, ma solo con riferimento al nesso eziologico con l’evento. In altri termini, ed utilizzando i segni semantici propri della giurisprudenza, che ricorre per definire la delimitazione esterna fra desistenza volontaria e tentativo punibile alla contrapposizione tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto, per inquadrare la desistenza solo nella prospettiva della azione tentata incompiuta, occorre verificare quando gli atti idonei debbono ritenersi compiuti per mettere fuori gioco, e quindi ritenere irrilevante il ravvedimento "desistente" del colpevole ai sensi dell’art. 56 c.p., comma 3.

Se l’azione, contrapposta agli atti nel contesto della formulazione della norma – " se il colpevole volontariamente desiste dalla azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti…"- deve intendersi come il complesso di singoli atti avvinti da un unico scopo e da un nesso di contestualità temporale, avvero, sotto altra prospettiva, se l’idoneità degli atti deve essere valutata e definita anche in rapporto alla loro possibile prosecuzione, sarebbe consequenziale ritenere possibile la desistenza allorchè il soggetto si astenga dal compiere gli ulteriori atti di certo determinanti per il verificarsi dell’evento. In tali casi l’azione tipica, nei reati causalmente orientati, non potrà ritenersi conclusa fino a quando non sia stato compiuto l’ultimo atto a partire dal quale si mette in moto il meccanismo causale fuori del controllo dell’azione, appunto perchè esaurita, costituiva del delitto tentato. La desistenza volontaria, in definitiva, dovrebbe configurarsi anche laddove l’agente abbandona l’azione, e interrompa così atti di cui ha un totale controllo nell’ambito di una sostanziale continuità temporale.

Ma la giurisprudenza di questa Corte è assestata da tempo su ben altre posizioni determinate dalla ratio che ravvisa sottesa all’istituto del ravvedimento operoso di cui all’art. 56 c.p., comma 3: lo scopo di prevenzione speciale della pena non viene meno allorchè l’agente si è inoltrato a tal punto nell’iter segnato dal disvalore penale della condotta da aver realizzato il primo atto – a prescindere dalla possibilità della commissione di altri, di cui ha continuativamente il dominio e pur potenzialmente traducentesi in una maggiore probabilità del verificarsi dell’evento -, non solo di per sè idoneo, il primo atto, a cagionarlo, l’evento, ma anche ad innescare un meccanismo causale operante indipendentemente dalla volontà del soggetto agente. (v, per tutte, Sez. 1, 23.9/21.10.2008, Di Salvo, Rv. 241340; Sez. 1, 2.10/20.11.2007, Pepini, Rv. 238112;

Sez. 1, 12.2/9.6.2004, Galisai, Rv. 228239).

Il Collegio non ritiene di discostarsi dal predetto indirizzo nel caso di specie e per il duplice ordine di motivi come indicati dai giudici di merito: da un lato, per il verificarsi di un tentativo compiuto, segnalato dai cinque colpi di coltello che causavano una lesione pleurica ed una lesione splenica con compromissione di organi con riconosciuta funzione vitale, lesioni che, secondo il pensiero del consulente, sarebbero stati letali ove non fossero state tempestivamente e correttamente curate, dall’altro per aver ritenuto i giudici di merito che il colpo o i colpi di certo mortali, se sferrati con l’ascia impugnata dall’imputato, non lo furono per la presenza di numerosi testi oculari, circostanza la riflessione del cui significato, comportante l’intervento delle forze dell’ordine allarmate dalle persone presenti, determinava l’agente a desistere dal continuare l’azione. Con il conseguente venir meno dell’elemento psicologico costitutivo della desistenza: la volontarietà per l’appunto.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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