Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-01-2011) 02-03-2011, n. 8351

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza dell’8 febbraio 2010, la Corte di appello di Miliano ha confermato la sentenza del giudice per l’udienza preliminare del Tribunale della stessa città con la quale P.P., all’esito di giudizio abbreviato, è stato condannato alla pena di anni sei di reclusione ed Euro 1.000 di multa per partecipazione ad associazione di tipo mafioso ed estorsione.

In particolare, all’imputato è addebitato di aver fatto parte, con B.S., B.D., B.R., M.M., L.M. e Pe.Gi. (tutti giudicati separatamente con rito ordinario), di una associazione per delinquere di stampo mafioso, presentata come prosecuzione della consorteria dei "Papalia" (per la quale erano stati condannati in via definitiva il padre A. e gli zii D. e P.R.) e dedita ad estorsioni nel settore dei lavori edili, per il controllo dell’attività di "movimento terra" nell’ambito territoriale della zona sud-ovest dell’hinterland milanese, imponendo agli operatori economici la loro necessaria presenza negli interventi immobiliari e ai pubblici amministratori del comune di Buccinasco la liquidazione di somme di denaro per lavori mai autorizzati, così procurandosi l’ingiusto profitto, tra l’altro rappresentato dal poter operare in regime di monopolio, stabilendo i prezzi di mercato nella zona.

In tale consorteria, secondo l’ipotesi accusatoria B. S. svolgeva il ruolo di promotore ed organizzatore, intrattenendo i rapporti con gli imprenditori, ai quali si presentava come il "genero" di P.R., imponendo loro il prezzo a metro cubo degli sbancamenti, stabilendo a propria discrezione chi dovesse lavorare sui cantieri, beneficiando altresì delle commesse di lavoro quale amministratore di fatto della Edil Company srl., di cui era formalmente titolare la moglie P.S..

P.P., B.D., B.R., M. M., figuravano quali compartecipi del sodalizio mafioso, partecipando alle attività di intimidazione e beneficiando delle commesse di lavoro attraverso la ditte agli stessi facenti capo (la LMT s.a.s. per P.P.).

L.M. e Pe.Gi., titolari della Lavori Stradali s.r.l., svolgevano invece il ruolo associativo di imprenditori di "facciata" nell’aggiudicazione delle commesse, che venivano poi subappaltate formalmente o in via di fatto alle ditte e società dei predetti, liquidando in contanti gran parte delle spettanze dei sodali, giustificando contabilmente le uscite attraverso l’annotazione di fatture emesse da soggetti di comodo.

Il P. inoltre era chiamato a rispondere, unitamente a B.S. e L.M. (giudicaci separatamente con rito ordinario) del concorso nell’estorsione attuata nella (OMISSIS) nei confronti di m., a. e p.g., soci e rappresentanti della Finman s.p.a., società committente di una lottizzazione immobiliare in (OMISSIS).

In particolare, con la minaccia consistita nel "promettere le paure" ai p., costoro avrebbero costretto i suddetti a concordare un sovrapprezzo di 2 Euro a metro cubo di terra nei lavori di sbancamento-riempimento, erogando la somma di 24.000 Euro destinata alla famiglia P., così procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per la società committente.

2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto, con un unico atto, ricorso per cassazione i difensori fiduciari dell’imputato, deducendo:

– la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e art. 416-bis, art. 629, commi 1 e 2, con riferimento all’art. 628 c.p., comma 3. Secondo i ricorrenti, appare apodittico ed illogico il coinvolgimento dell’imputato nel ritenuto sodalizio criminale, scaturito dalla promanazione della consorteria a suo tempo capeggiata dal genitore P.A., sorretto dal solo rapporto parentale. La sentenza non avrebbe inoltre motivato sulle ragioni per le quali si è ritenuto che la consorteria alla quale avrebbe fatto parte il P., altro non sia che la promanazione dell’associazione criminosa per la quale erano stati condannati il padre A. e gli zii D. e P.R..

Quest’ultima associazione avrebbe riguardato soggetti diversi da quelli coinvolti nella presente vicenda giudiziaria e fatti risalenti agli anni (OMISSIS).

I giudici di merito non avrebbero spiegato perchè il P., una volta fatto convergere "ereditariamente" nell’associazione paterna, non abbia poi assunto quella posizione di autorevolezza, dovuta per posizione e famiglia, visto che lo stesso viene dai giudicanti collocato quale "sott’ordinato" di B.S., cugino acquisito, nell’impresa criminale.

A loro avviso, appare anche del tutto illogica la contemporanea attribuzione al P. del reato associativo e di quello estorsivo, posto che tale ultimo episodio dimostrerebbe una modalità operativa in contrasto con le regole di ingaggio poste in atto dalla consorteria mafiosa.

I giudicanti avrebbero inoltre presentato l’inserimento del P. nell’affare estorsivo come un evento tanto imprevisto quanto occasionale, così confutando seriamente la sussistenza della ritenuta partecipazione di costui all’asserito sodalizio criminale, per assenza degli elementi strutturali della norma incriminatrice.

Del tutto illogicamente i Giudici dell’appello non avrebbe spiegato le ragioni per le quali il P. avrebbe dovuto avvalersi dell’ausilio dei B. e del L. per conseguire commesse di lavoro nei cantieri dei p. se, per come le stesse sentenze riconoscono, il P.P. poteva contare su una interlocuzione diretta e privilegiata con i p..

I ricorrenti evidenziano inoltre che il compendio intercettativo utilizzato dai giudicanti sarebbe costituito da conversazioni nei quali il P. non è parte, salvo qualche sporadica intercettazione. Questo doveva indurre i giudici di merito ad una estrema prudenza e rigore nel valutare il riferimento fatto dai conversanti al P., posto che poteva essere motivato da finalità di utilizzare l’imputato per speculazione e lucro. In particolare, la Corte di merito avrebbe attribuito alle propalazioni intercettate di L.M. una attendibilità ed affidabilità smentite, tra l’altro, da palesi contraddizioni ed incongruenze, emerse nei successivi interrogatori davanti al P.M..

Le stesse conversazioni sarebbero state interpretate dai giudicanti in modo strumentale, illogico e contraddittorio.

Così, la comunicazione del 23 febbraio 2005, dalla quale i giudici hanno tratto la prova che B.S. aveva intimato, perentoriamente, al L. che dovevano viaggiare "prima i camion di P." costituirebbe un dato manipolato. Così, la conversazione del 13 maggio 2005, interpretata dai giudici come "…decisione di fare entrare nel gruppo anche P.P.", intercorsa tra il L., B.D. e B.R., si ricaverebbe il significato diametralmente opposto dell’estraneità di costui dall’asserito sodalizio criminale. Così, la conversazione del 5 maggio 2006, dalla quale la Corte avrebbe desunto le pretese minacce subite dai p., si collocherebbe un anno dopo il delitto estorsivo e risulterebbe travisata quanto alla espressione "promessa delle paure", in realtà costituita dall’esclamazione "promesse da paura" riferita alla quantità di danaro sborsata dai p. (la cui corretta trascrizione era stata offerta dalla difesa e del tutto obliterata dalla Corte di merito).

La Corte di merito avrebbe inoltre ignorato gli elementi probatori a discarico portati dalla difesa. Il P. avrebbe allegato di essere stato al corrente dei lavori nel cantiere sin dall’inizio, per pregressi lavori di trasporto di inerti che aveva eseguito con la sua ditta nel mesi di gennaio, febbraio e marzo 2005 a favore della Lavori Stradali s.r.l., smentendo così la tesi sostenuta dal L. che costui volle a tutti i costi entrare nell’affare a scavi iniziati. Così, l’imputato avrebbe documentato la infondatezza di una pretesa dazione in suo favore di un appartamento da parte dei p., per effetto della condotta estorsiva.

– la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 62-bis, 132 e 133 c.p. per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e per la rilevante misura della pena irrogata.

In data 23 novembre 2010, l’avv. Speziale ha depositato motivi aggiunti, deducendo:

– il vizio di motivazione, quanto all’affermazione della penale responsabilità del P. per la partecipazione al sodalizio criminale. Il ricorrente ribadisce le specifiche censure già illustrate nell’atto di ricorso, evidenziando che la prova del reato de quo sarebbe stata tratta esclusivamente dalla partecipazione del P. al reato estorsivo.

– il vizio di motivazione, quanto alla affermazione della penale responsabilità del P. per l’estorsione. Il ricorrente ha allegato la sentenza di questa Suprema Corte, che pronunciandosi, in sede cautelare, sulla posizione del correo B.S., ha affermato che la vicenda estorsiva meritava maggiori approfondimenti, in relazione all’incoferenza probatoria di elementi posti a fondamento dell’ipotesi accusatoria sia per il travisamento di alcuni dati probatori. Tali elementi risulterebbero gli stessi utilizzati per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato nei limiti appresso indicati.

2. Quanto alle censure relative al reato estorsivo, la sentenza impugnata resiste ai denunciati vizi.

I giudici di appello hanno fondato la responsabilità dell’imputato per tale capo, richiamando analiticamente le ragioni espresse dal primo giudice.

In particolare, in prime cure era stato accertato che gli imprenditori edili p. era stati destinatari di atti intimidatori: il (OMISSIS) erano stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco in danno dell’autovettura e del box di uno dei p. e, in una conversazione intercettata del luglio 2005, il L., rivolgendosi al suo geometra, aveva detto che i p. avevano "paura di loro", perchè gli avevano già "sparato tre o quattro volte nelle portiere della macchina" e che per questo p. stava "tirando fuori" tanti soldi, oggetto di fatturazioni.

Quanto ai rapporti tra i p. e l’imputato, era emerso che quest’ultimo si era inserito di prepotenza nel cantiere edile dei p. in (OMISSIS), garantendosi il pagamento di un "sovrapprezzo" di almeno 2 Euro per ogni metro cubo di terra scavata.

A tal fine, rilevavano una serie di conversazioni intercettate, dalle quali era risultato che P.P., " P.", si era imposto nel suddetto cantiere ottenendo dai p., "senza fare nulla" e attraverso una copertura contabile, un sovrapprezzo sui lavori di movimento terra in corso commissionati a L.M. e a B.S..

Quale prova di questa dazione sine titulo ottenuta dal " P." dai p. la sentenza di primo grado richiamava le conversazioni intercettate del 12 luglio e 26 luglio 2005 nelle quali il L. si lamentava con i suoi consoci dell’incursione del P. P. nella spartizione degli affari sul cantiere ("questo lavoro qua era un bel lavoro se non rompevano i coglioni lui e P.") e delle somme da costui pretese senza far nulla e della necessità che tale fuoriuscita di danaro fosse comunque giustificata contabilmente ("sono 4 Euro quello lì, Euro 2 quello là, su Euro 12 che prendiamo 6 Euro se ne vanno solo per loro, e tutta la lavorazione che c’è da fare? Vogliono guadagnare senza lavorare, invece di 10 fate 12. I due Euro che ci sono in più glieli date a P.; però li dovete fatturare, perchè io non posso farli venire fuori in un’altra maniera").

Quale riscontro della ricostruzione della vicenda, il primo giudice poneva le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio dal L., che aveva confermato la dazione della somma di 25.000 Euro da parte dei p. a favore dell’imputato per lavori mai fatti, se pur giustificandola come una sorta di regalia fatta da costoro in nome di una loro vecchia amicizia. Il L. aveva altresì dichiarato che la predetta somma doveva essere da lui fatturata ai p. a titolo di giustificativo.

La indebita dazione al P. emergeva inoltre, ad avviso del primo giudice, sia da una conversazione intercettata, nella quale il L. si lamentava che il P. si era "preso 24.000 Euro", senza far nulla, non fatturando nemmeno l’introito; sia dalla documentazione contabile acquisita agli atti, dalla quale era risultata una fatturazione da parte della ditta del L. a quella dei p. per un importo di 24.000 Euro oltre 960 Euro per IVA, quindi corrispondente a quella indicata dal L. nell’interrogatorio.

Il primo giudice riteneva peraltro non credibile la versione dei fatti fornita dal L. in ordine al titolo della dazione della somma all’imputato, considerate tanto l’emissione di regolare fattura per un’operazione inesistente, quanto la conversazione del maggio 2006 tra il L. e B.D., che dimostrava il mezzo illecito utilizzato dal " P." per costringere i p. a versargli le somme di danaro non dovute ( L. si interrogava su come " P." fosse riuscito a farsi promettere "tutti quei soldi lì", e B.D. gli spiegava "Le paure"). In ordine a tale conversazione, il L., in sede di interrogatorio, aveva spiegato il significato delle suddette frasi, riferendole ai 25.000 Euro dati dai p. al " P.".

La sentenza del primo giudice aveva anche dato contezza del perchè non apparivano attendibili le dichiarazioni rese alla difesa da p.a.: esse contrastavano con il contenuto oggettivo delle conversazioni intercettate ed i danneggiamenti del (OMISSIS) si collocavano nel clima di generale intimidazione del quale certamente p. era al corrente.

Queste considerazioni sono state ribadite dai giudici di appello, che hanno ritenuto non decisive e rilevanti le deduzioni difensive contenute nell’atto di gravame.

Così, quanto alla credibilità delle dichiarazioni rese dal L. in sede di interrogatorio in ordine alla dazione della somma all’imputato da parte dei p., hanno evidenziato che tale versamento era provato dalla conversazione intercettata del 10 ottobre 2005, nella quale il L. aveva chiaramente affermato che " P." si era preso 24.000 Euro senza avere fatto nulla, non contabilizzandoli nemmeno e facendoli invece fatturare tramite un personaggio di comodo (tale D.L.M.) di B. S.. Hanno sottolineato che tale conversazione veniva a saldarsi perfettamente con il narrato del L. quanto alla richiesta dei p. di fatturare la somma di 25.000 Euro, destinata all’imputato che non aveva partecipato ai lavori di scavo – fattura effettivamente rinvenuta nella documentazione contabile della azienda del L.. Hanno inoltre superato le pretese contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del L. quanto alla copertura contabile della dazione a favore del P. (il L. aveva dichiarato in un primo tempo di aver preteso la fatturazione da parte di quest’ultimo di una pari somma, ma tale fattura non venne ritrovata nella documentazione contabile), ponendo in evidenza che proprio la citata conversazione dell’ottobre 2005 dimostrava che la fatturazione era stata effettuata da una ditta di copertura di B.S., perchè il " P." non aveva voluto contabilizzarla direttamente.

La Corte di appello ha fornito risposta anche al rilievo sui diversi ambiti temporali nei quali si sarebbe svolta la vicenda (i lavori nel cantiere e le conversazioni utilizzate, risalivano al maggio 2005, mentre il contratto che aveva legato la ditta del L. e la società dei p. risultava stipulato nel gennaio 2005), evidenziando che era irrilevante l’epoca di conclusione dell’appalto tra la società del L. e i p., posto che oggetto di contestazione era l’illecito inserimento dell’imputato, con la minaccia, nell’affare già gestito dai L. – B., al fine di ottenere un introito personale di 2 Euro al metro cubo.

I giudici di merito hanno altresì affrontato la censura relativa al mancato credito dato alla versione dei fatti fornita dai p., valorizzando in particolare quanto dichiarato dal L. nella conversazione intercettata del 14 luglio 2005, nella quale era emerso che i p. avevano subito un’estorsione e che per tale motivo stavano pagando, ragion per cui anche le dichiarazioni negatorie rilasciate da costoro dovevano ragionevolmente iscriversi in questo quadro intimidatorio. Neppure valore probante, ad avviso dei giudici di appello, poteva essere riconosciuto alle dichiarazioni del L. rese in sede di interrogatorio in ordine alla notizia degli atti intimidatori del 2002 riguardanti i p. (costui aveva affermato di averla appresa non da fonte diretta, ma dai giornali), all’evidenza motivate dal suo interesse ad alleggerire la sua posizione processuale.

La dedotta erronea lettura del dialogo intercettato del 5 maggio 2006 (secondo la difesa il L. – e non B.D. – avrebbe dichiarato "oh fan le promesse… da paura" e non come riportato in sentenza "gli hanno promesso le paure") è stata inoltre ritenuta non decisiva, posto che al di là della citata espressione, il tenore della conversazione dimostrava inequivocabilmente la sorpresa del L. per la entità esorbitante di danaro, privo di lecito rapporto sottostante, che era transitato dai p. a P. P.. Ciò non determinava, ad avviso dei giudicanti, il venir meno della prova delle minacce, che doveva essere individuata nel contesto estorsivo delle dazioni dei p., riferito in modo univoco dal L. nella conversazione del 14 luglio 2005, sopra citata.

3. Così sintetizzato il discorso giustificativo della sentenza impugnata, le censure del ricorrente mosse in questa sede si appuntano sulla valutazione del compendio probatorio, e segnatamente per aver acriticamente recepito le dichiarazioni etero-accusatorie pronunciate dagli interlocutori nei dialoghi intercettati; per aver erroneamente ricostruito i rapporti tra l’imputato e i p., posto che costui era già presente nei cantieri del L. prima del sopraggiungere della famiglia B.; per non aver logicamente spiegato perchè il ricorrente sia ricorso alla fatturazione "trasversale" dei B.; per aver ritenuto credibile la versione del L. circa la pretesa dazione da parte di p. di appartamenti all’imputato, nonostante fosse stata provata la liceità dell’acquisto; per aver illogicamente utilizzato per provare la minaccia estorsiva la conversazione intercettata del maggio 2006, ovvero successiva di ben un anno ai presunti fatti estorsivi e il cui contenuto risulterebbe travisato; per aver ingiustificatamente ritenuto inattendibili le dichiarazioni dei p., sul solo presupposto che costoro ebbero a subire risalenti nel tempo atti intimidatori, privi di alcun nesso con l’imputato e con i fatti del processo.

Va ribadito preliminarmente che non è consentito in sede di legittimità sollecitare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perchè ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, attività che risulta preclusa a questo giudice di legittimità in sede di controllo sulla motivazione, che deve limitarsi alla peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. In altri termini, il controllo di questa Corte è diretto semplicemente ad accertare che, alla base della pronuncia, esista un concreto apprezzamento delle risultanze e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da errori logico – giuridici; restando escluso da tale sindacato le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti, la valutazione comparativa della loro rilevanza, la scelta di quelli determinanti.

Conseguentemente, è sottratta al giudice di legittimità la verifica della portata dimostrativa dei dialoghi intercettati, costituendo questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, insindacabile se motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (tra le tante, Sez. 6, n. 15396 del 11/12/2007, dep. 11/04/2008, Sitzia, Rv. 239636). E’ soltanto possibile prospettare in sede di legittimità una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, sempre che la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 2, n. 38915 del 17/10/2007, dep. 19/10/2007, Donno, Rv. 237994).

Fatte queste necessarie premesse, le censure del ricorrente risultano prive di pregio.

4. Quanto alla pretesa necessità che la valutazione probatoria delle conversazioni intercettate richieda la presenza di riscontri esterni, va ricordato che questa Corte ha costantemente affermato che il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, (tra le tante, Sez. 5, n. 21878 del 26/03/2010, dep. 08/06/2010, Cavallaro, Rv. 247447). La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in tale evenienza, il conversante, non sapendo che le sue conversazioni sono intercettate, non può essere paragonato a coloro che scelgono deliberatamente di accusare qualcuno all’autorità giudiziaria. E’ allora evidente che tutte le riserve e tutte le prudenze necessarie per valutare la genuinità delle dichiarazioni del collaboranti non sussistono quando si tratta di conversazioni intercettate, perchè in siffatte situazioni la spontaneità e la genuinità sono più semplici da accertare.

5. La censura relativa ai rapporti tra l’imputato e i p. si limita a proporre una alternativa lettura delle risultanze processuali esaminate e valutate dai giudici, omettendo di evidenziare contraddittorietà o illogicità motivazionali intrinseche alla sentenza. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per il rilievo difensivo con cui si contesta la logicità del ricorso da parte dell’imputato alla fatturazione "trasversale", in quanto propone soltanto una diversa valutazione dei fatti ritenuta maggiormente plausibile, ma che non inficia la complessiva tenuta logica della motivazione.

6. Manifestamente infondata è anche la censura relativa alla dimostrazione (della lecita dazione degli appartamenti dal p. all’imputato, posto che l’acquisto in questione non è oggetto di contestazione e comunque non è stato valorizzato a fini probatori dai giudici di merito. In ogni caso, la censura qualora proposta per denunciare il vizio di travisamento della prova doveva non solo essere assistita dall’autosufficienza (rappresentazione completa dell’atto nelle forme più opportune), ma anche dalla esplicazione della decisività (ovvero della efficacia "scardinante" dell’impianto motivazionale) dell’elemento di prova pretermesso.

7. Quanto alla doglianza avente ad oggetto la conversazione intercettata del maggio 2006, deve osservarsi che il ricorrente essenzialmente ripropone motivi già dedotti in appello, motivatamente esaminati e disattesi dalla corte di merito. Le censure non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso, in quanto omettono di considerare che i giudici di appello non hanno, come si è detto in premessa, utilizzato la controversa frase "la promessa delle paure" per provare l’avvenuta minaccia nei confronti dei p..

8. Nessun rilievo ha la valutazione espressa in sede cautelare da questa; Corte sul quadro probatorio riguardante la posizione del correo B.S.. In ogni caso, il ricorrente omette di considerare che successivamente questa Corte con sentenza n. 48086 del 2009 ha rigettato il ricorso del predetto correo avverso la decisione, quale giudice del rinvio, del Tribunale del riesame.

9. Nessun pregio ha Infine la censura relativa alla valutazione delle dichiarazioni dei p.. Va qui ribadito che la valutazione circa l’attendibilità del teste, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, è precluso in sede di legittimità, quando il giudice del merito, come nel caso in esame, ha fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria.

10. A diverse conclusioni deve pervenirsi relativamente al motivo di ricorso relativo alla ritenuta partecipazione dell’imputato all’associazione mafiosa, con il quale si denuncia la violazione della legge penale sostanziale ed il vizio di manifesta illogicità del ragionamento probatorio.

Deve preliminarmente osservarsi che il ricorrente in sede di appello aveva devoluto al giudice dell’impugnazione, relativamente al capo A), il solo punto dell’attribuzione del fatto all’imputato, rendendo così intangibile la decisione formatasi sul punto dell’accertamento dell’esistenza dell’associazione criminale. La mancata devoluzione in sede propria preclude quindi la doglianza presentata con l’odierno ricorso concernente tale ultimo punto della sentenza impugnata.

Così delimitato il controllo di questa Corte, deve osservarsi che, con l’atto di appello, la difesa aveva eccepito l’insufficienza degli elementi raccolti per ritenere provata la partecipazione dell’imputato al sodalizio criminale e la presenza invece di elementi di segno contrario, non conciliabili con la tesi accolta dal giudice di prime cure. In particolare, la difesa aveva valorizzato alcune conversazioni intercettate dalle quale era emersa la inaspettata "irruzione" dell’imputato nella scena dei rapporti già avviati tra la società facente capo al L. e i committenti p. nel cantiere di (OMISSIS), che aveva alterato le condizioni di "ingaggio" dei lavori commissionati, come dimostrava la sorpresa del L. nell’apprendere dell’intervento del P..

Il giudice di appello ha ritenuto che proprio "l’effetto destabilizzante", invocato dalla difesa, dimostrava la saldezza del legame associativo, in quanto grazie a quel legame P. P., giovandosi dell’appoggio del capo dell’associazione, aveva fatto ingresso nell’affare relativo ai lavori già in corso, ingresso garantito soltanto alle persone legate all’associazione per delinquere, ed era riuscito ad imporre la corresponsione anche in suo favore di una somma di danaro con riferimento a lavori di sbancamento. Il suo ingresso improvviso dimostrerebbe, secondo i giudici a quibus, anche lo spessore della sua figura nell’ambito della struttura illecita, capace di imporre la sua presenza e la negoziazione di ulteriori quote di pagamento indebito rispetto a quelle già stabilite in favore dell’associazione facente capo a B.S..

La prova della sua affiliazione, per i giudici di merito, non risultava scalfita nè dalla conversazione del 13 maggio 2005, nella quale B.S. avrebbe detto al L., riferendosi ai lavori nel cantiere, "se non li fa P., li facciamo noi", da intendersi nel senso che B.S. teneva al corrente quest’ultimo che, per quanto rilevava all’esterno dell’associazione per delinquere, la partecipazione o meno dell’imputato alla illecita spartizione del danaro non produceva alcuna modifica di rilievo, dal momento che, oramai, la partecipazione illecita alla spartizione del danaro rappresentava un affare gestito in prima persona ed in via esclusiva dalla compagine associativa; nè dalla conversazione del 3 giugno 2005, ad avviso della difesa dimostrativa della mancanza di confidenza tra il P. e il L. (quest’ultimo chiede al P. come si chiami la sua ditta), dai giudici di merito invece da riferirsi ad altri lavori svolti a (OMISSIS), nei quali era accertata la presenza di tre camion di P.;

nè dalla conversazione del 13 maggio 2005, che lungi dal provare la sorpresa del L. per la presenza nel cantiere anche del P., doveva spiegarsi con il fatto che L. inizialmente, ignorava che, in corso d’opera, anche P. P., già presente in (OMISSIS), fosse entrato anche nell’accordo relativo all’area di (OMISSIS), nonostante che fossero già stati sottoscritti i contratti e fossero state stabilite le quote di danaro da corrispondere a B.S. ed al suo gruppo criminale.

Di contro, ad avviso dei giudici a quibus, la prova della sua intraneità al sodalizio mafioso emergeva da alcune intercettazioni nelle quali il P. è definito da B.S. come un associato, uno di loro ("digli che ci sono i nostri camion qui e devono viaggiare prima i nostri camion"); dalla conversazione del 17 maggio 2005 – presenti il L., B.S. e P.P. – nella quale è definita la nuova mappa dei pagamenti da assicurare all’associazione per delinquere per effetto dell’ingresso, successivo alla conclusione delle precedenti trattative, dell’associato P. nel contratto che vede come controparte i p. ("lui deve mantenere che ci da il 90%, m’ha detto dei lotti lì, all’interno"); dalla conversazione del 12 luglio 2005, nella quale il L. e B.D. commentavano l’irruzione del P. nel cantiere di (OMISSIS), dicendo che tanto quel lavoro, anche senza B.S. e P., "lo prendevamo lo stesso".

Con la presente impugnazione, il ricorrente denuncia sostanzialmente il permanere nella risposta fornita dai giudici di appello di quelle stesse carenze ed illogicità già segnalate nel gravame di appello.

La doglianza coglie nel segno.

Invero, il quadro fattuale ricostruito dai giudici del merito non appare assistito da un corredo motivazionale del tutto appagante, sia sul piano della univocità e convergenza degli elementi assunti quali dati probatoriamente significativi, sia per ciò che attiene alla cosciente adesione al contestato sodalizio, avuto riguardo ai rapporti parentali che legavano l’imputato a B.S. e ad altri associati ed alla corretta valenza assegnata alle conversazioni intercettate.

Nel tracciare il criterio discretivo tra le rispettive categorie concettuali della partecipazione interna e del concorso esterno, questa Corte ha stabilito che si definisce "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo "è" ma "prende parte" alla stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perchè l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, dep. 20/09/2005, Mannino, Rv. 231670).

Di talchè, si è affermato che, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la "stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio". Deve trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, anche la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati, ma comunque significativi facta concludentia) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, nonchè della duratura, e sempre utilizzabile, "messa a disposizione" della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.

In proposito, è sufficiente considerare come la forma libera che caratterizza la fisionomia del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, e dunque la mancanza di tipizzazione della relativa condotta, consentono al giudice di merito di cogliere i contenuti dell’appartenenza anche in forme comportamentali nuove e più evolute o sofisticate rispetto alla classica iconografia del mafioso. E l’opportunità della formula libera è proprio quella di evitare l’ingessamento del tipo normativo di mafioso, consentendo al giudice di cogliere, nel processo di metamorfosi della mafia nel tessuto sociale ed economico, anche forme di adattamento o di mimetizzazione ancor più insidiose, proprio perchè non appariscenti.

Muovendo da tali principi, questa Suprema Corte ha anche precisato che l’adesione al sodalizio criminale può essere ritenuta anche in base alla partecipazione ad un solo reato-fine, sempre che il ruolo svolto e le modalità dell’azione presuppongano un sicuro rapporto fiduciario con gli altri compartecipi e siano perciò tali da evidenziare "con certezza" la sussistenza del vincolo (Sez. 3, n. 43822 del 16/10/2008, dep. 25/11/2008, Romeo, Rv. 241628).

Al contrario, non possono di per sè essere utilizzati come prove indirette o logiche dell’appartenenza a sodalizi criminali le mere frequentazioni e contatti per motivi di parentela o di affari, che, se qualificati da abituale o significativa reiterazione, non giustificata da usuali modalità di convivenza in contesti territoriali ristretti, possono – se connotati dal necessario carattere individualizzante – essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3 (Sez. 6, n. 24469 del 05/05/2009, dep. 12/06/2009, Bono, Rv. 244382).

Orbene, la sentenza impugnata non individua quegli elementi obiettivi della condotta dell’imputato, rivelatori, alla stregua della logica e della comune esperienza, di una stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio.

Invero, l’elemento sintomatico della adesione dell’imputato alla cosca mafiosa capeggiata da B.S. è sostanzialmente tratto dai giudici di merito dalla partecipazione di costui all’estorsione attuata nei confronti dei p..

Peraltro, tale episodio, come evidenziato dalla difesa, svela piuttosto il prepotente quanto inaspettato inserimento dell’imputato nel cantiere gestito, quanto ai movimenti-terra, dal cugino acquisito B.S., ingresso che impone al "cartello" già fissato dagli associati di rivedere le spartizioni degli introiti. La spiegazione fornita dalla sentenza impugnata che solo l’adesione al sodalizio poteva consentire questa partecipazione improvvisa appare non tener conto che la collocazione dell’imputato nella compagine familiare di B.S. attribuiva all’imputato una posizione "privilegiata" al cospetto di costui, che, lungi dal rivelare ex se l’adesione al sodalizio criminale, poteva giustificare una maggiore tolleranza da parte del capo del gruppo criminale ad accettare la presenza di costui (rispetto ad altri concorrenti che cercavano di inserirsi) nei cantieri da loro gestiti (emblematica è la frase del L. rivolta al padre di B.S., in ordine alla presenza "scomoda" del P. ottenuta grazie alla protezione del parente: "D’altra parte cosa facciamo? Andiamo sempre lì a scontrarci con tuo figlio, che diventiamo matti e basta").

Proprio le censure avanzate in sede di appello si erano appuntate sulla esclusiva valorizzazione dei rapporti di parentela dell’imputato con conclamati esponenti mafiosi della zona, senza tuttavia aggiungere a tale condizione, in sè oggettivamente equivoca, elementi di fatto di incontrovertibile valenza per dimostrare la totale ed incondizionata partecipazione e condivisione del programma criminale del gruppo.

La sentenza impugnata, glissando sui rapporti parentali, non spiega come il suo ingresso improvviso negli affari del gruppo – e quindi un atteggiamento di dissenso e di apparente autonomia rispetto alla strategia mafiosa – non sia distonico rispetto all’impostazione accusatoria.

D’altra parte, la sentenza di primo grado aveva proprio lumeggiato sugli "squilibri" che la decisione di B.S. di assecondare l’ingresso nel cantiere di (OMISSIS) del cugino aveva creato all’interno della compagine associativa (il L. si lamenta con B.D.: "Questo lavoro qua era un bel lavoro se non rompeva i coglioni lui ( B.S.) e P..

Che noi questo lavoro qua, D., anche se non c’era lui e P., lo prendevamo lo stesso"). Squilibri motivati soprattutto dall’alterazione dei programmati introiti, secondo la logica spartitoria oggetto dell’accordo associativo (in tal senso, la preoccupazione del L. che l’ingresso dell’imputato nel cantiere di (OMISSIS) avrebbe fatto saltare i prezzi normalmente praticati negli altri cantieri ed i guadagni della sua ditta).

La sentenza in definitiva non appare sufficientemente e logicamente motivare sul perchè il P., asseritamente aderente al sodalizio criminale e quindi al monopolio imposto dal gruppo sui lavori di movimento-terra nei cantieri di zona, sia stato pretermesso dall’affare nel cantiere dei p. – affare tipico dell’attività del gruppo – per il quale l’associazione aveva già stabilito le spartizioni per gli associati, per poi farvi ingresso improvvisamente e prepotentemente, imponendo la sua "scomoda" presenza in primo luogo ai p. (come si è visto nel paragrafo che precede) e poi al gruppo in quanto tale.

La Corte di merito a tal riguardo non fornisce una logica spiegazione neppure sul perchè il L., personaggio strategico e centrale nel medesimo sodalizio, dimostri di non conoscere la ditta dell’imputato, tanto da chiederne gli estremi per la fatturazione dei lavori di (OMISSIS), ovvero sul perchè non solo ignori l’ingresso del P. nell’affare di (OMISSIS), ma anche mal tolleri la presenza di costui per aver alterato, con il suo autonomo Intervento estorsivo presso i p., gli equilibri spartitori nel cantiere.

La sentenza impugnata appare non offrire una logica spiegazione neppure alla frase rivolta da B.S. all’associato L. "faglieli fare a P., se non li fa P. li facciamo noi", che si prestava, secondo la difesa, ad essere intesa come la prova dell’estraneità del P. agli affari del gruppo.

Secondo la Corte di appello, B.S. teneva al corrente il L. che, per quanto rilevava "all’esterno" dell’associazione per delinquere, la partecipazione o meno di P. all’illecita spartizione del danaro non produceva alcuna modifica di rilievo, dal momento che, oramai, la partecipazione illecita alla spartizione del danaro rappresentava un affare gestito in prima persona ed in via esclusiva dalla compagine associativa. Lo sforzo dei giudici di appello di conciliare tale frase con l’adesione dell’imputato all’associazione mafiosa non solo non tiene conto del contesto in cui la stessa fu pronunciata (un colloquio tra gli associati B. D. ed il L., avente ad oggetto la decisione di B.S., mal tollerata dal gruppo, di consentire l’ingresso del parente nel cantiere di (OMISSIS)), ma appare di fatto contraddire la stessa tesi dell’inserimento stabile dell’azione di costui nell’attività del sodalizio criminoso.

Neppure assumono una valenza dimostrativa univoca e certa gli altri elementi richiamati dalla sentenza impugnata come fatti sintomatici della partecipazione dell’imputato al sodalizio criminale.

Così, ad esempio, la conversazione del 17 maggio 2005 che rivela il nuovo assetto degli equilibri spartitori nel cantiere di (OMISSIS) tra gli associati e il P., a seguito dell’ingresso improvviso di quest’ultimo nell’affare, e la preoccupazione del nuovo "cartello" dell’arrivo di altri scomodi concorrenti, ma in ordine alla quale la Corte di appello non offre una motivazione del perchè tale episodio sia dimostrativo – al di là degli effetti scaturenti dalla partecipazione all’estorsione in atto nei confronti dei p. (che poteva giustificare un accordo ad hoc tra il gruppo criminale ed il P. sulla futura gestione dei restanti lotti nel medesimo cantiere) – anche dell’intraneità del P. al sodalizio criminale.

11. I rilevati vizi della sentenza impugnata ne giustificano pertanto l’annullamento in ordine alla ritenuta partecipazione al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. (restando assorbite le doglianze sul trattamento sanzionatorio prospettate in subordine dal ricorrente), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Deve rigettarsi il ricorso nel resto.
P.Q.M.

Annulla con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo giudizio sul capo. Rigetta nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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