T.A.R. Campania Napoli Sez. II, Sent., 28-02-2011, n. 1232 Competenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il presente ricorso la nominata in epigrafe agisce in ottemperanza per sentire dichiarare che nel giudicato da eseguire è compreso anche il diritto a procedere al riscatto degli anni di laurea e degli anni del corso di specializzazione a fini pensionistici, secondo le aliquote stipendiali vigenti al momento di presentazione della domanda, e non a quelle – maggiori- del periodo successivo in cui è stata messa in condizione di farla.

Va infatti premesso che parte ricorrente ha intrattenuto con l’Università degli Studi di Napoli "Federico II" e con l’Azienda Policlinico della predetta università, un rapporto che l’amministrazione ha sempre univocamente voluto qualificare come rapporto di collaborazione libero professionale esterna, senza alcun vincolo, né alcuna convenzione, peraltro contrastando sempre, ed in ogni sede, anche di natura sindacale, la possibilità di una diversa qualificazione giuridica.

Visto che la normativa all’epoca vigente ( legge 25 ottobre 1977, n. 808, a.18; legge 19 febbraio 1979, n. 54; DPR 11 luglio 1980, n. 382) poneva a carico delle università un chiaro divieto ad assumere personale in pianta stabile ed in violazione della procedura di reclutamento (concorso), il C.d.A. dell’Università "Federico II" si vedeva costretto, al fine di porre rimedio allo stato di necessità senza tuttavia infrangere la normativa appena citata, a predisporre un’apposita convenzione regolativa delle modalità di svolgimento di una nuova forma di collaborazione liberoprofessionale.

Parte ricorrente ha pertanto agito nel giudizio di cognizione per sentir accertare la natura di pubblico impiego di fatto dell’attività medico assistenziale svolta nonché il diritto al pagamento, ai sensi dell’articolo 2126 c.c., di tutte le differenze retributive maturate,ed al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale, con la conseguente condanna delle amministrazioni resistenti, ciascuna per i periodi di competenza, al pagamento di tutti i relativi contributi, anche in favore degli enti di competenza.

La sentenza della cui esecuzione si tratta ha previamente affermato sussistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto, sia pure ai limitati fini della retribuzione, l’a. 2126 c.c. pone una fictio juris di validità del rapporto nullo (Cassazione n. 2490 del 1988 e n. 2993 del 1986), sicché, ne consegue,che il lavoratore… può far valere i crediti retributivi, nonché i diritti relativi al versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (Cassazione n. 4288 del 1986 e n. 229 del 1975) limitatamente al periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione.

La domanda è stata accolta in parte, nel senso che la domanda di accertamento del rapporto di pubblico impiego – o, in via gradata, del rapporto di lavoro subordinato, di pubblico impiego di fatto – intercorso tra le convenute amministrazioni e i ricorrenti, secondo il Tribunale, è stata così qualificata:" deve interpretarsi come meramente propedeutica alla successiva domanda di condanna ex articolo 2126 c.c. (ferma l’inammissibilità di una domanda di conversione del rapporto o di stabilizzazioneinstaurazione di esso come rapporto di impiego di ruolo).

Per il resto la domanda è stata accolta limitatamente alla regolarizzazione della posizione previdenziale, assicurativa e assistenziale degli istanti. Ne è conseguito l’accoglimento del ricorso con conseguente condanna delle amministrazioni, ciascuna per il proprio periodo di competenza, a richiedere in favore dei ricorrenti l’iscrizione ad un ente previdenziale per il periodo, relativo a ciascun ricorrente, indicato.

Con il presente ricorso per ottemperanza parte ricorrente lamenta che la ricostruzione della posizione previdenziale non sia stata integralmente soddisfatta, in quanto si è vista precludere la domanda di riscatto del periodo di studi universitari, relativa agli anni del corso di laurea e di quello di specializzazione, secondo i parametri di retribuzione erogata alla data di instaurazione del rapporto.

Nel presente giudizio l’intimata amministrazione universitaria resiste, sostenendo l’ inammissibilità della domanda proposta nelle forme del giudizio di ottemperanza, trattandosi di petitum nuovo, non compreso nella decisione da eseguire. In ogni caso, ha concluso per la infondatezza della pretesa nel merito.

Non si sono costituite l’Azienda Universitària Policlinico né l’INPDAP.

Alla udienza del 20.1.2011 il ricorso è stato ritenuto in decisione.
Motivi della decisione

Va preliminarmente ritenuta la legittimazione passiva anche dell "INPDAP come parte evocata nel giudizio conclusosi con la sentenza da eseguire, sì che quindi il relativo accertamento fa stato anche nei suoi confronti.

In ogni caso, deve rilevarsi che non sarebbe preclusiva la contraria ipotesi in cui l’Ente non fosse stato evocato in giudizio, atteso che, qualora un giudicato abbia condannato l’autorità amministrativa a corrispondere all’avente diritto una prestazione pecuniaria, che dev’essere erogata da altra pubblica amministrazione, l’autorità soccombente deve assicurare che l’amministrazione erogativa, ancorché formalmente estranea al giudicato, corrisponda le somme dovute (C. stato, Sez.IV, 17.4.1990, n.268).

Il ricorso per ottemperanza può essere esperito anche nei confronti di un soggetto pubblico che sia stato estraneo al giudizio di merito, quando tale soggetto venga chiamato a porre in essere un’attività vincolata o adempitiva in fase di esecuzione del giudicato, avuto riguardo al carattere peculiare del rimedio, che è quello di essere preordinato a garantire la completa attuazione del contenuto decisorio della sentenza (C. Stato, Sez.VI, 6.5.1997, n.690).

Invero non ignora il Collegio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale deve considerarsi " inammissibile il ricorso per l’esecuzione del giudicato, quando sia stato proposto nei confronti di un’amministrazione che non sia stata parte nel giudizio conclusosi con la sentenza di cui si deduca il mancato adempimento. Infatti, il giudizio di ottemperanza presuppone che l’amministrazione, cui si rivolge la statuizione giudiziale, non abbia soddisfatto la pretesa di colui che abbia conseguito la

sentenza favorevole e può essere proposto solo quando l’amministrazione non abbia dato esecuzione ad un "dictum" giudiziale, contenuto in una sentenza che abbia disposto la sua soccombenza. (Consiglio Stato, sez. VI, 31 maggio 2006, n. 3320).

Detto insegnamento non è tuttavia predicabile nel caso di specie, ove assume nodale importanza la considerazione che – con riguardo alle pretese prospettate in sede di giudizio cognitorio -pacificamente si rientrava nella giurisdizione esclusiva del plesso giurisdizionale amministrativo.

Si era in presenza, quindi, di un giudizio non limitato all’atto, ma esteso al rapporto.

Ed a questo proposito, deve evidenziarsi che costituisce affermazione consolidata, in giurisprudenza, quella per cui "nell’ambito della giurisdizione esclusiva il giudicato sul rapporto controverso si estende,oltre che sulle questioni effettivamente proposte in giudizio (dedotto), anche

su quelle deducibili in via di azione ed eccezione (deducibile) che costituiscono precedenti logici essenziali e necessari alla pronuncia." (Consiglio Stato,sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 38).

Va quindi esaminato il secondo ordine di eccezioni, con il quale sostanzialmente si rileva che la pretesa azionata in ottemperanza non rientrerebbe nell’ambito del giudicato da eseguire, facendosi valere non un diritto previdenziale riconosciuto in sentenza, ma un quid novi richiesto per la prima volta con la presente domanda giudiziale. Obietta la difesa dell’amministrazione resistente che nel giudizio di ottemperanza non sono ammissibili questioni nuove rispetto a quelle che fanno parte del decisum della sentenza in esecuzione (CdS IV n. 4269/01; VI sez. n. 4884/03).

Al riguardo il Collegio ritiene di dover premettere alcune considerazioni sulla natura ed ambito del giudizio di esecuzione del giudicato amministrativo.

Posto che in sede di giurisdizione esclusiva il giudicato si forma anche in relazione all’intero rapporto dedotto in giudizio, pare alla Sezione potersi affermare che risponde ad un criterio di economia dei mezzi processuali, e che sia rispettoso del precetto di cui al comma II del novellato art. 111 della Costituzione prescrittivo della necessità che i processi abbiano una durata ragionevole, consentire il ricorso al Giudice dell’ottemperanza al fine di determinare le condizioni affinché l’amministrazione ottemperi ai precetti contenuti nelle decisioni rese in materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo (si veda, in particolare, Consiglio Stato, sez. IV, 21 dicembre 1999, n. 1901 in ordine alla finalità del giudizio di ottemperanza, laddove si è avuto modo di precisare che "nel giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi, che sarebbero comunque devoluti alla propria giurisdizione, ma non può esercitare analoghi poteri di integrazione allorché la sentenza da eseguire sia stata adottata da un giudice appartenente ad un diverso ordine giurisdizionale e la questione rientri nella giurisdizione di quest’ultimo ").

Il giudizio di ottemperanza secondo la prevalente giurisprudenza ha natura mista, di esecuzione e di cognizione: ciò perché spesso la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita o incompleta, che spetta al giudice dell’ottemperanza esplicitare o completare. Non a caso si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, ovvero di giudicato a formazione progressiva, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa.

Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell’ottemperanza dare un contenuto concreto all’obbligo conformativo che discende dalla sentenza, risolvendo i problemi possibili al riguardo.

Il giudice amministrativo, cioè, in sede di giudizio di ottemperanza, può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l’originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera "esecuzione", ma "attuazione" in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione progressiva (cfr. Consiglio di Stato Sezione VI sentenza 3 marzo 2008 n. 796 e Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409).

Tanto consente conclusivamente di respingere l’eccezione di inammissibilità della domanda, formulata sotto il profilo che si tratterebbe non di dare corso alle statuizioni contenute nel giudicato, ma della proposizione di una domanda nuova, che non ha formato oggetto del giudizio di cognizione.

A tal proposito deve rilevarsi che, oltre alle suesposte considerazioni, è determinante il fatto che la pronuncia da eseguire, nel respingere la domanda diretta all’accertamento della costituzione tra i medici cd. gettonati e l’Azienda universitaria di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato, ha riconosciuto sussistere gli estremi del rapporto di lavoro di fatto nullo, in quanto costituito in violazione di legge, con applicazione della disciplina di cui all’art 2126 c.c.

La sentenza ha quindi riconosciuto:

a) che l’incarico attribuito ai medici "gettonati", a prescindere dal "nomen iuris" contenuto nell’atto costitutivo del rapporto, si sia realizzato in effetti come un rapporto con tutti gli indici rilevatori propri del rapporto di pubblico impiego; b) che il rapporto in questione, essendosi espletato in contrasto con norme imperative, sia affetto da nullità; c) che al rapporto predetto, soggetto alla cognizione del giudice amministrativo quanto alle retribuzioni spettanti e agli obblighi previdenziali e assicurativi dovuti dall’Amministrazione, si applichi l’art. 2126 c.c., anche nel rispetto dei principi costituzionali (in particolare, degli artt. 36 e 38 Cost.).

Il legislatore, dunque, per limitare gli effetti (certamente pregiudizievoli per l’erario) è intervenuto con la normativa (più rigida), impedendo con ciò la trasformazione in rapporti di pubblico impiego con le Università di numerosi contratti ed incarichi a tempo indeterminato, che erano il mezzo più diffuso per assumere nuovo personale necessario a soddisfare le crescenti esigenze organizzative e istituzionali delle stesse Università.

E’ stato osservato dal Consiglio di Stato in fattispecie analoga (sentenza n. 4134/2001) che: "l’improduttività di effetti a carico dell’amministrazione stessa, di cui al menzionato art. 18, ha rilevanza sotto il profilo della valida costituzione e della stabilità del rapporto di pubblico impiego (effetti questi impediti dalla nullità per violazione di norme imperative) ferma comunque restando l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. ai fini retributivo – previdenziali.

L’art. 18 appena richiamato, unitamente alle altre disposizioni sopra citate, si inserisce in effetti nell’ambito di quei precetti che esprimono un netto orientamento del legislatore, volto allo scopo evidente di contenere la spesa pubblica e di garantire nello stesso tempo l’imparzialità amministrativa, a reprimere in modo più specifico ed incisivo le frequenti illegalità nel campo delle assunzioni, in particolare, di personale presso le Università; e ciò attraverso una tecnica normativa consistente, in genere – come evidenziato nella sentenza dell’Adunanza plenaria 29.2.1992 n. 2 – nello stabilire la sanzione di nullità dell’assunzione illegittima, la quale viene formalmente ed espressamente dichiarata improduttiva di alcun effetto a carico dell’Amministrazione, e nel prevedere la responsabilità degli impiegati (o degli amministratori) che hanno provveduto all’assunzione stessa; criterio rigoroso questo recepito per gli Amministratori statali ai fini delle assunzioni di ruolo, dall’art. 3, VI comma del T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 e, per le assunzioni non di ruolo, dagli artt. 12 D.L.C.P.S. 4 aprile 1947 n. 207 e 4 DPR 31 marzo 1971 n. 276 e anche, con un modello legale poi generalizzatosi, per enti pubblici, tra i quali, appunto, anche le Università."

Da ciò discende una serie di conseguenze (cfr. Ad. Plen. 29.2.1992 n. 1), tra le quali, la prima è che il rapporto di lavoro instaurato in contrasto con le disposizioni che lo disciplinano, ove sia espressamente prevista una sanzione di "nullità" del tipo sopra menzionato, sia esso rapporto a termine o a tempo indeterminato, nasce e vive come rapporto di fatto, rispetto al quale gli indici rilevatori del pubblico impiego assumono solo funzione di astratta qualificazione al fine della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale cui debbono essere sottoposte le prestazioni lavorative.

In definitiva, il Consiglio di Stato, nelle sentenze dell’Ad. Plen. 29.2.1992, nn. 1. e 2 e 5.3.1992 nn. 5 e 6, pur sancendo la nullità del rapporto avente le caratteristiche del pubblico impiego, ma sorto in violazione di norme imperative che disponevano la sanzione della nullità, ha statuito anche l’applicabilità, in tale caso, dell’art. 2126 c.c., affermando che sulla base di tale norma spettano comunque al dipendente di mero fatto della P.A. le prestazioni retributivo – previdenziali.

La pronuncia della quale è chiesta l’esecuzione conclude che nel caso dei "gettonati" di cui si discute – una volta considerato superato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui le prestazioni in contrasto con il divieto legale di assunzione sono affette da nullità assoluta con conseguente improduttività di ogni effetto giuridico ed esclusione anche della tutela ex art. 2126 c.c. per le pretese retributive, essendo esperibile solo l’azione ex art. 2041 c.c. – si deve ritenere, alla luce della citata giurisprudenza (in particolare dell’Ad. Plen. nn. 1 e 2/1992, che ha affermato anche per i rapporti di lavoro affetti da nullità per violazione di norme imperative, l’applicabilità dell’art. 2126 c.c.), che il rapporto di lavoro di fatto è comunque esistito, sia pure in violazione di un divieto assoluto, con collegamento ad esigenze reali, sicché da esso non possono che scaturire tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse derivanti dall’applicabilità dell’art. 2126 c.c..

Anche la Cassazione sezione lavoro ha ribadito il principio che il rapporto di lavoro di fatto costituito con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, ancorché vietato da norma imperativa, rientra nella nozione di impiego pubblico e non impedisce l’applicazione dell’art. 2126 c.c. con conseguente diritto alla retribuzione ed alla contribuzione previdenziale propria di un rapporto di impiego pubblico " regolare"(cfr. Cass. Lavoro 14.6.1999 n. 5895; Cass. Sez. lavoro 3.7.2003 n. 10551). Inoltre il principio per cui la prestazione di lavoro subordinato svolta alle dipendenze di un ente pubblico non economico in violazione di norme imperative deve essere qualificata come pubblico impiego, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2126 cod. civ., con conseguente diritto del dipendente ai relativi compensi e alla regolarizzazione della posizione contributiva previdenziale, secondo le regole previste per gli impiegati pubblici, si applica anche ai dipendenti delle Università, per le quali, anche a seguito dell’autonomia loro riconosciuta, non è stata introdotta alcuna norma di modifica del regime pensionistico dei dipendenti, che rimane omogeneo a quello dei dipendenti delle altre amministrazioni statali (Cass. Lavoro Sentenza n. 12749 del 20 maggio 2008).

Tanto premesso, e rilevato che dal rapporto di fatto nella specie riconosciuto devono discendere tutte le conseguenze di un vero e proprio rapporto di lavoro regolare, eccezion fatta per la sola costituzione di un rapporto di impiego a tempo indeterminato, occorre scrutinare se nel concetto di prestazione assicurativo- previdenziale rientri anche la possibilità di riscatto degli anni di laurea, possibilità che indubbiamente deve ritenersi inclusa nel novero delle prestazioni erogate ed erogabili ai fini previdenziali, e soprattutto con quale contributo a carico del lavoratore.

Al quesito deve darsi risposta positiva.

Invero, non si fa questione della possibilità che a seguito del riconoscimento dei diritti previdenziali, parte ricorrente possa proporre il riscatto del periodo di laurea, tanto più che si tratta di una prestazione cd. onerosa, a carico degli interessati stessi, ma a quali condizioni sia subordinato detto riscatto. In particolare, nel sistema di computo del contributo dovuto ai fini del riscatto del corso legale di laurea viene in rilievo tra i parametri di riferimento, la retribuzione pensionabile spettante alla data della domanda. Orbene, tale coefficiente a detta delle amministrazioni resistenti deve essere individuato nel momento effettivo in cui è stata presentata la istanza, che ovviamente è successivo al passaggio in giudicato della sentenza che ha riconosciuto la costituzione del cd. rapporto di impiego di fatto.

Lamenta in contrario parte ricorrente che una reintegrazione integrale della propria posizione deve comportare la fictio juris di costituzione del rapporto, con conseguente retrodatazione del momento cui fare riferimento ai fini della presentazione della domanda.

In altri termini, ove il comportamento contra legem dell’amministrazione non si fosse verificato, essa avrebbe avuto titolo alla presentazione della domanda sin dal momento della immissione in servizio; si deve rendere possibile quindi il riferimento alla retribuzione ora per allora.

La tesi attorea merita favorevole considerazione, alla luce delle argomentazioni che seguono.

Una interpretazione letterale delle disposizioni citate, che indicano come voce parametrica la retribuzione alla data della presentazione della domanda, è possibile nelle ipotesi fisiologiche in cui il rapporto di lavoro sia nato e vissuto quale rapporto di diritto, atteso che fin dall’inizio il dipendente ha la certezza della costituzione e configurazione del regolare rapporto di pubblico impiego, ed è posto in grado di esercitare tempestivamente tutti i connessi diritti, ed oneri relativi. Sì che ove abbia presentato la domanda in un momento distante dalla costituzione del rapporto, con conseguente maggiore onerosità del riscatto, imputet sibi gli effetti della mancata tempestiva proposizione della istanza.

Quando però il rapporto si svolga, in base alla configurazione formale che ad esso hanno dato le parti, sulla base di schemi diversi da quelli del lavoro subordinato, tanto da portare a seguito del riconoscimento di un rapporto subordinato di fatto, alla condanna dell’ente alla costituzione della posizione previdenziale, come non appare corretto parlare di morosità, in senso proprio, da parte dell’ente datore di lavoro il quale ovviamente verserà i relativi contributi non mese per mese, ma a posteriori, in unica soluzione, così non può ritenersi intempestivamente esercitata la facoltà di riscatto del periodo legale del corso di laurea, ove la si faccia valere al momento in cui si è avuta la certezza giuridica della configurazione del rapporto stesso.

Sia pure con efficacia retroattiva, la natura del rapporto, e la sussistenza di obblighi o diritti diversi da quelli pattuiti, vengono accertati solo con la sentenza del giudice amministrativo che riconduce la fattispecie nell’ambito del pubblico impiego. Sicché non vi è ragione, una volta che l’obbligo contributivo sia stato per la prima volta affermato, di applicare alla lettera il riferimento alla retribuzione in godimento alla data di presentazione della domanda, anziché predicare la diversa possibilità, scaturente dalla fictio juris di costituzione del rapporto ora per allora, di fare riferimento alla retribuzione in godimento alla data in cui è stato rinnovato il primo contratto di lavoro, id est la prima delle reiterate convenzioni con l’Università.

Affrontando il problema (sostanzialmente affine) della ripartizione dell’obbligo contributivo nell’ipotesi in cui venga in giudizio riconosciuto il diritto di un dipendente alla qualifica superiore, la Corte di Cassazione (sezione lavoro, 7 febbraio 1986 n. 785) ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente operare le trattenute previdenziali nell’atto di corrispondere le differenze retributive, poiché il nuovo inquadramento, accertato con la sentenza, è fonte dell’obbligo contributivo, sicché "il termine utile per il pagamento dei contributi e per la rivalsa nei confronti del lavoratore non può identificarsi con le normali scadenze dei periodi di paga".

Anche nel caso sottoposto all’esame del Collegio, dunque, il momento utile cui fare riferimento per la retribuzione in godimento ai fini del riscatto della laurea non può identificarsi in quello di materiale presentazione della domanda, ma in quello antecedente in cui i ricorrenti avrebbero potuto presentare la relativa istanza ove fossero stati posti in condizione di farlo, se non si fosse interposta la convenzione posta in essere dall’Università.

Viceversa non merita adesione la richiesta di riscatto alle medesime condizioni degli anni di specializzazione.

Al riguardo è rilevante la considerazione che parte ricorrente, che nel frattempo è stata assunta a tempo indeterminato, non avrebbe titolo a riscattare il diploma della scuola di specializzazione non avendo peraltro precisato se tale conseguimento sia anteriore o posteriore alla assunzione stessa: invero, condizione necessaria per poter riscattare tale periodo di studio è che questo non coincida con l’attività lavorativa.

In altri termini, sebbene il decreto legislativo n. 184/1997 consenta di riscattare ogni titolo di laurea o di specializzazione non utilizzato per l’accesso in carriera, tuttavia non è ancora prevista la possibilità di riscattare un periodo di studi, come quello del corso di specializzazione, che si sia svolto contemporaneamente alla normale attività lavorativa.

Tali eccezioni non sono state smentite dal ricorrente, che ha chiesto genericamente di poter riscattare anche la scuola di specializzazione.

Ne deriva l’accoglimento parziale della domanda, con declaratoria del diritto della ricorrente a porre in essere tutti gli adempimenti per il riscatto del solo periodo del corso legale di laurea, prendendo come parametro di riferimento la retribuzione in godimento al momento in cui è stata rinnovata per la prima volta la convenzione con l’Università.

Sussistono giusti motivi per dichiarare integralmente compensate le spese di lite tra le parti, in ragione della novità e della complessità delle questioni giuridiche trattate.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda)

come in epigrafe proposto, così provvede:

accoglie la domanda nei limiti di cui in parte motiva e per l’effetto dichiara, ai fini della corretta esecuzione del giudicato in premessa, il diritto della ricorrente a porre in essere tutti gli adempimenti per il riscatto del periodo del solo corso legale di laurea, prendendo come parametro di riferimento la retribuzione in godimento al momento in cui è stata rinnovata per la prima volta la convenzione con l’Università.

Spese compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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