Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-11-2010) 02-03-2011, n. 8019 Detenzione abusiva e omessa denuncia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1- Con sentenza del 30/11/2009 la Corte di Assise di Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza 17/12/2007 della Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere, ha – per quello che qui rileva – dichiarato B.F. responsabile dei reati ascrittigli (concorso in qualità di mandante nell’omicidio di M.G. e concorso nella detenzione e porto di armi), con esclusione dell’aggravante prevista dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, e lo ha condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per mesi sei; ha confermato per il resto la sentenza impugnata che aveva altresì affermato la responsabilità in ordine ai medesimi reati di L.R., P.G. ed Z.A., tutti condannati all’ergastolo con isolamento diurno di mesi sei, oltre che di altri coimputati.

2- Secondo la ricostruzione dei fatti operata in sentenza la vicenda andava inquadrata nell’ambito del conflitto che aveva visto contrapposti il clan dei "casalesi" ed il clan dei "bardelliniani";

l’omicidio di M.G., rimasto fedele al gruppo di Ba.An. dopo la morte di costui, era stato voluto e perpetrato dagli appartenenti al clan avverso perchè egli si era inoltre reso responsabile dell’uccisione di un giovane "vicino" ai "casalesi" e perchè aveva partecipato all’assalto di una bisca di (OMISSIS) riconducibile a I.M.. L’omicidio era stato perpetrato all’interno del negozio di frutta e verdura della fidanzata del M., alla presenza della donna, ed era stato materialmente portato a termine da S.P. e M. C., rei confessi, che avevano esploso all’indirizzo della vittima vari colpi di arma da fuoco; gli esecutori materiali del delitto erano giunti sul posto con una auto Lancia Thema condotta da F.C., coimputato nel procedimento e reo confesso, che era stata poi bruciata.

3- La Corte di merito, sintetizzate le dichiarazioni rilasciate in ordine alla vicenda da alcuni collaboratori di Giustizia ( A. A., S.P., Ma.Cl., D.L.), ha ritenuto che sulla base delle stesse ben potesse essere affermata la responsabilità degli imputati sopra citati – B., L., P. e Z. – attesi il positivo giudizio circa l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni e circa la loro idoneità, per la sostanziale convergenza e per la assoluta irrilevanza delle sottolineate discrasie, a fungere reciprocamente da riscontro. Ha quindi concluso per l’infondatezza dei rilievi al proposito avanzati dagli imputati L., P. e Z..

La Corte ha poi esaminato le ulteriori censure da costoro volte alla sentenza di primo grado. In relazione all’imputato Z.A. ha escluso che si fossero verificate violazioni degli artt. 523, 524 e 525 c.p.p., non implicante alcuna nullità il rinvio ad altra udienza per la decisione dopo le conclusioni delle parti, nonchè dell’art. 37 c.p.p., essendo il giudice ricusato legittimato a prendere parte alla decisione ancorchè pendente il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’istanza di ricusazione pronunciata dalla Corte di Appello; ha negato rilevanza decisiva alle ulteriori prove richieste; ha sottolineato il carattere tutt’altro che marginale del contributo dello Z. all’omicidio.

In relazione all’imputato P.G. ha escluso la rilevanza delle prove ulteriori richieste. In relazione all’imputato L. R. ha escluso che fosse ravvisabile la violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto, rilevando come il ruolo di mandante genericamente contestatogli non fosse stato contraddetto dall’istruttoria dibattimentale che aveva solo meglio precisato le emergenze a carico dell’imputato il quale aveva sempre avuto la piena conoscenza di esse e la possibilità di esercitare in maniera esaustiva il diritto di difesa; ha escluso la fondatezza dell’assunto difensivo per il quale non sarebbe nella specie ravvisabile l’aggravante della premeditazione.

In ordine a tali imputati la Corte ha infine negato fondatezza ai rilievi avanzati in punto di trattamento sanzionatorio e di diniego delle attenuanti generiche.

In relazione all’imputato B.F. la Corte di merito ha condiviso il gravame proposto dal P.M. e rilevato come l’istruttoria dibattimentale di primo grado, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere, avesse fornito la prova certa circa la responsabilità dell’imputato. In proposito ha sottolineato: come anche la Corte di primo grado avesse ritenuto assolutamente attendibili le dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia e, quindi, anche le parti di esse riguardanti il B.; come le divergenze rilevate tra le dichiarazioni rese dai due collaboratori, che avevano fatto riferimento al B., non afferissero al ruolo rivestito da costui nel sodalizio che era in quel preciso momento storico di gran rilievo; come il delitto per cui è processo fosse stato un tipico omicidio di camorra teso ad eliminare un avversario; come il B. non si fosse limitato a prestare il suo consenso al delitto ma avesse personalmente conferito all’ A. il mandato di morte.

4- Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso i difensori degli imputati sopra indicati. Tutti i ricorrenti hanno dedotto la violazione dei canoni di valutazione della prova stabiliti dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, contestando che in sentenza si fosse seguito il corretto iter valutativo delle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, specie sotto i profili della credibilità e della intrinseca consistenza nonchè della loro autonomia, e che si fosse verificata quella convergenza fra le stesse necessaria al fine di loro attribuire efficacia di reciproco riscontro.

4.1- In particolare nel ricorso presentato nell’interesse degli imputati L. e P. si è sottolineato come la Corte si fosse limitata ad una mera acritica trascrizione di stralci delle dichiarazioni, inferendone in modo apodittico una loro consistenza probatoria e pervenendo alla conclusione della sicura attendibilità di quanto riferito dai collaboratori in ragione solo di una presunta sovrapponibilità delle dichiarazioni, trascurando ogni preventiva e positiva risoluzione circa la credibilità ed intrinseca consistenza delle dichiarazioni di ogni singolo collaboratore. E ciò: sia per quanto riguarda il concorso del L. e del P. nei delitti loro ascritti, oltre tutto insufficientemente e contraddittoriamente motivando sulla causale dell’omicidio desunta da dichiarazioni de relato e non convergenti; sia per quanto riguarda il coinvolgimento di tali imputati nella fase di organizzazione dell’omicidio e nella fase esecutiva, non essendo emerso alcun elemento sintomatico di un contributo causalmente rilevante, materiale o morale, da parte degli stessi, al proposito non essendo probante il mero dato di essersi il commando mosso dalla masseria del L. che era abitudinario punto di incontro dei sodali dell’associazione. Con altri articolati motivi il difensore degli imputati L. e P. ha dedotto inosservanza ed erronea applicazione di legge nonchè vizi di motivazione: con riguardo al rigetto della richiesta difensiva di rinnovazione del dibattimento, oltre tutto motivata in modo uniforme per tutte le analoghe richieste degli imputati e per relationem nonostante la diversità delle istanze di rinnovazione, con riguardo alla sottolineata non correlazione tra quanto contestato e quanto poi ritenuto in sentenza, con riguardo alla mancata esclusione della premeditazione, con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

4.2- Nel ricorso e nella memoria redatti da altri difensori dell’imputato P., sottolineati gli errori nella ricostruzione operata dalla Corte di primo grado in punto di ruolo e funzioni del P., indicato dai dichiaranti come capozona del territorio in cui il delitto doveva essere compiuto, in punto di partecipazione del detto imputato ai sopralluoghi in Vairano Scalo ed in punto di partecipazione al descritto tentativo di omicidio attuato il giorno prima della sua effettiva consumazione, si è rilevato: come la Corte napoletana avesse adottato una regola di giudizio quanto meno discutibile, attribuendo credito agli accusatori anche in relazione alla asserita partecipazione del P. unicamente in virtù della convalida processuale delle responsabilità di A., Ma. e S.; come si fosse negata la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale basandosi su assunti palesemente errati o vistosamente illogici (così come ancora più articolatamente dedotto con i motivi aggiunti, con i quali si è altresì sottolineato che l’esigenza di approfondimento probatorio era emersa solo nel corso del giudizio di primo grado e che nella specie doveva farsi riferimento non già al concetto della assoluta indispensabilità richiamato dall’art. 603 c.p.p. ma ai parametri di cui all’art. 495 c.p.p., comma 1 e quindi ai canoni di ammissibilità di cui agli artt. 190 e 190 bis c.p.p., nel pieno rispetto dell’art. 6 CEDU e del diritto dell’imputato all’elaborazione dibattimentale della controprova oltre che del disposto dell’art. 111 Cost.); come la decisione impugnata si risolvesse in una acritica riproposizione delle tesi d’accusa, con aprioristica svalutazione di ogni apporto difensivo; come in sentenza, con riguardo alla ritenuta condotta concorsuale del P., si fosse proposta una interpretazione della disciplina del concorso di persone nel reato palesemente errata ed in contrasto con le consolidate regole di giudizio in materia, esaltando contro ogni evidenza processuale la portata dimostrativa delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Con altro motivo, infine, si è dedotta erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al riservato trattamento sanzionatorio.

4.3- Nel ricorso proposto nell’interesse dell’imputato Z. A., oltre alla già indicata comune (con gli altri imputati) deduzione in ordine alla violazione del canone di valutazione probatoria delle dichiarazioni dei collaboratori, si è eccepita la nullità della sentenza per violazione degli artt. 523, 524 e 525 c.p.p. in reazione all’art. 178 c.p.p., lett. c), avendo la Corte pronunciato la decisione dopo sospensione del dibattimento successivamente alla discussione ed alle conclusioni finali. Con altro motivo si è eccepita la nullità di entrambe le sentenze di merito per violazione dell’art. 37 c.p.p. in quanto pronunciata la sentenza di primo grado in pendenza del ricorso per cassazione avverso la declaratoria, emessa de plano dalla Corte di Appello, di inammissibilità della dichiarazione di ricusazione. Con ulteriore motivo il ricorrente ha lamentato la mancata riapertura dell’istruttoria dibattimentale nonostante la assoluta decisività delle prove richieste in relazione alla posizione dello Z. ed alla verifica della chiamata in correità di A.A., da intendersi quale prioritaria rispetto alla verifica delle ulteriori chiamate in correità assunte come riscontro. Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 192 c.p.p. si è altresì sottolineato:

come gli elementi indicati a riscontro dei fatti fossero in realtà conosciuti sin dal momento della consumazione dei reati e di dominio pubblico, come non fosse stato osservato l’obbligo di specifica motivazione con riguardo alla posizione di tale imputato, come si fosse omesso di vagliare i plurimi rilievi difensivi con i quali l’atto di appello aveva sottoposto a critica serrata punti precisi delle dichiarazioni dei collaboratori (specie su causale dell’omicidio, indicazione delle persone nei fatti coinvolte a vario titolo, movimenti dei soggetti implicati, mezzi utilizzati, contributi forniti, etc.) nonchè di motivare al riguardo, non certo soddisfacente essendo la adottata motivazione generica e collettiva.

Con un ultimo motivo, infine, il ricorrente ha lamentato l’apoditticità della motivazione di diniego dell’attenuante della minima partecipazione al fatto e delle attenuanti generiche.

4.4- Con il ricorso proposto nell’interesse di B.F. si sono dedotte violazione di legge e vizi di motivazione nonchè violazione dell’obbligo del Giudice di giustificare il proprio convincimento vincolandolo alle risultanze processuali. In particolare il ricorrente ha censurato la rilevanza attribuita, al fine di affermare la responsabilità del B., al contenuto della sentenza emessa dal GUP nei confronti dei collaboratori Ma.Cl. e S.P. nonostante non fosse ancora passata in giudicato; ha inoltre sottolineato: come i fatti oggetto di prova ritenuti decisivi per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato fossero in realtà contrastanti con quanto parimenti sostenuto in sentenza; come si fosse sovvertita la statuizione di assoluzione del B. senza specificare rispetto a quali atti processuali i primi Giudici sarebbero dovuti addivenire ad una pronuncia di condanna anzichè di assoluzione; come si fossero ignorati fatti oramai acclarati nel corso della storia giudiziaria del "clan dei casalesi" e come nel lasso di tempo dal 1988 al 1990 il B. non avesse assunto alcun ruolo di vertice e non fosse mai risultato mandante od organizzatore di eventi omicidiari.
Motivi della decisione

5- Si impone, per la loro evidente rilevanza pregiudiziale, la prioritaria disamina delle eccezioni formulate dall’imputato Z. A. con riferimento all’art. 37 c.p.p. ed agli artt. 523, 524 e 525 c.p.p..

5.1- L’assunto difensivo -per il quale le due sentenze di merito sarebbero nulle per avere il Giudice di primo grado pronunciato la sentenza in pendenza del ricorso per cassazione avverso la declaratoria di inammissibilità della dichiarazione di ricusazione- è infondato. Ritiene infatti il Collegio, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale oramai consolidatosi in proposito (cfr. Cass. sentenze n. 14852/2007, n. 7220/2007, n. 275/2000), che, da un lato, il giudice ricusato può continuare a svolgere la sua funzione, solo imponendogli la norma di astenersi dal pronunciare sentenza fin tanto che non sia intervenuta declaratoria di inammissibilità o di rigetto della ricusazione, e che, dall’altro lato, la sentenza pronunciata in violazione di siffatto divieto è nulla solo nel caso di accoglimento della ricusazione, di contro mantenendo essa piena validità quando la ricusazione sia dichiarata inammissibile o rigettata; il divieto de quo integra infatti un temporaneo difetto di potere giurisdizionale, limitato alla possibilità di pronunciare il provvedimento conclusivo e condizionato all’accoglimento o rigetto della dichiarazione di ricusazione, e la valutazione di validità o meno della sentenza irritualmente adottata avviene secundum eventum (cfr. Cass. S.U. sent. n. 6925/95). E dunque già in conseguenza di quanto appena detto, non avendo avuto nella specie la ricusazione esito positivo, ove anche si ravvisasse la dedotta violazione del disposto dell’art. 37 c.p.p., comma 2, la sentenza di primo grado conserverebbe piena validità e la sentenza di secondo grado non risulterebbe inficiata da alcuna pregressa nullità. Ritiene peraltro il Collegio di dover sottolineare come in realtà non vi sia stata nel caso qui sottoposto (tenuto conto che la sentenza di primo grado è stata pronunciata dopo la declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Appello) alcuna violazione di legge. E ciò perchè il giudice ricusato ben può pronunciare nel merito, senza attendere la decisione definitiva del ricorso medio tempore proposto avverso la decisione della Corte di Appello, atteso: che quest’ultima è adottata con ordinanza; che le ordinanze, a differenza delle sentenze e dei decreti – come si evince dall’art. 650 c.p.p. – sono immediatamente esecutive, a meno che non sia disposto diversamente;

che l’art. 37 c.p.p., comma 2 collega il divieto di emettere sentenza alla mera pronuncia dell’ordinanza di inammissibilità o rigetto e non alla sua definitività (cfr. in proposito: Cass. sent. n. 7220/2007). Nè possono trarsi elementi per diversamente opinare dal fatto che solo all’art. 41 c.p.p., comma 3 si fa espresso richiamo all’art. 127 c.p.p. (nel quale, al comma 8, esplicitamente si dispone la immediata esecutività dei provvedimenti adottati) mentre analogo richiamo non è contenuto nell’art. 41 cit., comma 1, che disciplina l’adozione de plano della statuizione di inammissibilità per inosservanza di termini e forme e per manifesta infondatezza dei motivi addotti; è infatti evidente come con siffatto richiamo il legislatore abbia soltanto inteso riservare la procedura partecipata alla sola decisione sul merito, senza peraltro introdurre differenziazioni di sorta in punto di valenza ed esecutività delle ordinanze, sia se adottate de plano sia se adottate a conclusione della procedura più garantista. A conforto di tale interpretazione (ed in consapevole divergenza dalla sentenza di questa Corte n. 40511/2001) si rimarca la irragionevolezza di una esecutività riservata alle sole decisioni di merito e, di contro, di una non esecutività proprio di quelle decisioni che attestano la palese infondatezza della ricusazione ovvero la sussistenza di cause (proposizione da parte di soggetto non legittimato o inosservanza di termini o forme) immediatamente impositive di una declaratoria di inammissibilità. Alla stregua di quanto sopra il motivo va dunque rigettato.

5.2- Parimenti infondata è l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado (e degli atti successivi) per violazione degli artt. 523, 524 e 525 c.p.p., in conseguenza della differita pronuncia della sentenza rispetto alla discussione delle parti. Come più volte enunciato da questa Corte l’inosservanza del disposto di cui all’art. 525 c.p.p., comma 1, impositivo della immediatezza della deliberazione dopo la chiusura della discussione, non determina alcuna nullità, attesa la mancata previsione di sanzione al riguardo ed assumendo valenza al proposito il principio di tassatività delle nullità (cfr. ex multis Cass. sentenze n. 32228/2009, n. 25148/2005, n. 32412/2004).

6- Passando all’esame degli ulteriori motivi di ricorso aventi ad oggetto il merito della decisione si osserva quanto segue.

I ricorrenti L., P. e Z. hanno tutti lamentato la violazione del canone di valutazione delle prove (primo motivo del ricorso L. – P., parte del primo motivo dell’ulteriore ricorso presentato nell’interesse di P., motivo sub 4 del ricorso Z.), in particolare di quelle rappresentate dalle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, assumendo, da un lato, che nella valutazione di siffatte prove la Corte di merito non avesse seguito il corretto iter e, dall’altro lato, che da esse non potessero comunque ricavarsi elementi di responsabilità a carico degli imputati, non essendo ravvisabile alcuna convergenza fra le raccolte dichiarazioni, non essendosi chiariti i ruoli che sarebbero stati ricoperti dagli attuali ricorrenti nella vicenda nè indicata alcuna reale implicazione degli stessi nei fatti per cui è processo, essendosi attribuita valenza ad elementi inconferenti o equivoci o non comprovati. I sintetizzati motivi di ricorso (l’analogia delle doglianze ne consente una trattazione unitaria) non meritano condivisione alcuna.

6.1- Quanto al primo comune profilo di doglianza si osserva che le Corti di merito (essendo le decisioni di primo e secondo grado concordanti nell’analisi e nella valutazione degli elementi probatori, esse ben possono integrarsi per formare un unico complesso corpo motivazionale) hanno fatto precedere la disamina delle dichiarazioni dei collaboratori da un attento vaglio della credibilità soggettiva dei dichiaranti, sottolineando le posizioni ed i ruoli da costoro ricoperti all’interno dei sodalizi, la loro conoscenza delle dinamiche del gruppo di appartenenza, l’origine e l’ambito della scelta collaborativa (cfr. sentenza di primo grado: in relazione ad A.A.: pagg. 57/59, in relazione a S.P. pagg.61/63, in relazione a Ma.Cl. pagg. 64/65, in relazione a D.L. pagg. 69/70; nonchè sentenza di secondo grado laddove, sia pure in maniera più sintetica atteso l’ovvio collegamento con l’argomentare dei primi giudici, si rimarca la condivisione delle valutazioni espresse dalla prima Corte e si procede a nuovo vaglio delle chiamate in correità e reità:

pag. 10 e segg.). All’espresso giudizio positivo circa la credibilità soggettiva dei dichiaranti le Corti di merito hanno quindi fatto seguire una approfondita disamina delle loro dichiarazioni, rilevando la intrinseca consistenza ed autonomia dei racconti (cfr. le pagine delle sentenze immediatamente successive a quelle sopra indicate) nonchè ponendo in rilievo le plurime emergenze processuali a riscontro del dichiarato. A fronte di ciò la censura – da tutti e tre i ricorrenti avanzata – di un non corretto iter valutativo delle chiamate in correità e reità appare palesemente infondata.

6.2- Quanto ai rilievi in ordine alla scarsa valenza probatoria delle accuse perchè lacunose, non corroborate da altro, non convergenti, osserva il Collegio che nella sentenza impugnata si è esaurientemente e mai illogicamente argomentato in ordine al coinvolgimento nei fatti degli imputati L., P. e Z., richiamando e condividendo le articolate argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado ed ulteriormente precisando la valenza degli elementi a carico alla luce delle censure mosse con gli atti di appello. In particolare la Corte di merito ha sottolineato: la partecipazione di L., P. e Z. ai "pedinamenti e sopralluoghi" per individuare la vittima ed il luogo ove portare a termine il mandato omicidiario (dich.ni A. e Ma.), il convergere dei vari soggetti implicati nell’organizzazione e nell’esecuzione dell’omicidio, fra essi compresi P. e Z., presso la casa del L. (dich.ni A., S. e Ma.) sia nel giorno in cui venne effettuato un primo tentativo di portare a termine il delitto sia nel giorno in cui l’omicidio venne effettivamente eseguito, l’apprensione dall’arsenale sito in casa L. delle armi utilizzate dagli esecutori dell’omicidio (dich.ni A., S. e Ma.); ha altresì richiamato quanto emerso in ordine al movente dell’omicidio, congruamente inquadrando la vicenda nell’ambito del conflitto che aveva visto contrapposti il clan dei "casalesi" ed il clan dei "bardelliniani"(in proposito hanno effettuato dichiarazioni sostanzialmente convergenti i tre collaboratori già indicati nonchè D.L., sicchè la doglianza di vaghezza del movente e di contraddittorie dichiarazioni al riguardo appare priva di fondamento); ha posto in evidenza come F.C. avesse ammesso la sua partecipazione all’omicidio, riferendo in particolare di avere guidato l’auto che aveva portato sul luogo gli esecutori materiali Ma. e S., con ciò offrendo un ulteriore e significativo elemento di riscontro ai racconti dei collaboratori che avevano indicato il F. quale partecipe del delitto nel ruolo da quest’ultimo confessato; ha argomentato in ordine alla integrazione ad al rafforzamento reciproco delle chiamate in correità, sottolineando la convergenza dei narrati, la irrilevanza delle poche discrasie e la valenza degli elementi emersi -pur valutate le censure difensive- in senso accusatorio per gli imputati sopra indicati.

A fronte di ciò ritiene il Collegio che la sentenza impugnata, per quanto concerne il profilo sopra esaminato, non meriti censura alcuna essendo supportata da adeguato e logico apparato argomentativo immune da vizi sindacabili in sede di legittimità. 7- Nè colgono nel segno le censure tendenti a sostenere (cfr. il primo articolato motivo del ricorso a firma dell’avv. Martino per gli imputati L. e P., nonchè parte del primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del solo P.) l’inconfigurabilità del concorso del L. e del P. nei delitti loro ascritti, dovendosi in proposito considerare: che la ricezione del mandato omicidiario da parte dei "casalesi" non va limitata all’ A. il quale, di contro, risulta averlo condiviso con il L.; che entrambi si occuparono dell’organizzazione del delitto, attesa la loro comune posizione di preminenza nella zona dove il delitto è stato consumato; che il coinvolgimento nella vicenda del L. e del P. è stato, congruamente, ritenuto comprovato dagli elementi più sopra ricordati (partecipazione dei due ai "sopralluoghi" funzionali all’esecuzione dell’omicidio, azione di sostegno al commando incaricato di portare a termine il delitto, sia in occasione del primo tentativo di esecuzione sia in occasione della successiva effettiva esecuzione); che la messa a disposizione della masseria del L., da dove si è mosso il commando e dal cui arsenale sono state – pacificamente – tratte le armi utilizzate dagli esecutori dell’omicidio, è al proposito elemento tutt’altro che irrilevante; che non già la mera presenza fisica in loco del L. e del P. è stata indicata quale prova della loro responsabilità nei fatti ma l’insieme degli elementi sopra ricordati.

7.1- Parimenti non colgono nel segno le censure avanzate dal ricorrente Z. (cfr. motivo sub 4 del ricorso), considerato, da un lato, che la Corte di Assise di Appello non si è limitata ad un esame generalizzato delle questioni di interesse e ad una "motivazione generica e collettiva" per tutti gli imputati, ma ha vagliato gli elementi probatori emersi con riguardo alla posizione di ciascuno di essi, e, dall’altro lato, che i rilievi di cui in ricorso, peraltro, piuttosto che sottolineare illogicità e contraddittorietà del percorso argomentativo, si risolvono sostanzialmente in una mera prospettazione delle proprie e diverse valutazioni delle emergenze processuali, come tali improponibili in questa sede di legittimità. 8- In ordine alle censure circa le prove disattese e la non effettuata rinnovazione del dibattimento (cfr. secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di L. e P.; parte del primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del solo P. e motivi nuovi successivamente depositati; motivo sub 3 del ricorso Z.) ritiene il Collegio che le stesse non meritino condivisione. Se è vero che i commi primo e secondo dell’art. 603 c.p.p. regolano diversamente le ipotesi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, subordinando esclusivamente la prima ipotesi alla condizione che il giudice ritenga, nell’ambito della propria discrezionalità, che le prove richieste presentino carattere di decisività, deve tuttavia sottolinearsi come pur sempre, anche nell’ipotesi di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado valga il limite generale di cui all’art. 190 c.p.p., comma 1; sicchè il diritto alla prova riconosciuto alle parti implica la corrispondente attribuzione del potere di escludere le prove manifestamente superflue ed irrilevanti, secondo una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità ove abbia formato oggetto di apposita motivazione immune da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. S.U. sent. n. 15208/2010). Ebbene nella specie sia la Corte di primo grado (sollecitata ad avvalersi dei suoi poteri discrezionali di integrazione probatoria ex art. 507 c.p.p.), sia la Corte di secondo grado hanno motivatamente non solo escluso la decisività delle prove richieste ma altresì rilevato la loro assoluta superfluità od irrilevanza, considerato: per quanto concerne l’esame di m.

a. (in relazione al trasporto dell’ A. da Vairano Scalo a Pi. nella giornata in cui era stato effettuato un primo tentativo di portare a termine l’omicidio) nonchè del titolare e dei camerieri del ristorante ove secondo A. erano convenuti (oltre allo stesso) P., Z. e D.G. al fine di crearsi un alibi per il giorno dell’omicidio, che le circostanze oggetto di prova, oltre a non essere decisive, non avevano valenza tale da consentire, a seconda dell’esito della prova, di corroborare od escludere l’attendibilità dell’ A., tanto più considerata l’incidenza del notevole decorso del tempo sulla possibilità di ottenere un attendibile esito probatorio; per quanto concerne la richiesta di escussione dei collaboratori D.S.D. e Ma.Cl., che parimenti tali prove non presentavano alcuna utilità e tanto meno decisività, attese la irrilevanza delle circostanze indicate quali oggetto delle stesse, avuto riguardo a tutte le acquisite emergenze processuali, e la già assicurata possibilità per la difesa di esperire in sede di giudizio di primo grado tutti i diritti difensivi (avendo la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere acquisito agli atti le dichiarazioni rese dal primo in altro procedimento ed essendo stato il Ma. già lungamente sentito nel corso del giudizio di primo grado).

La esaustività della pur sintetica – ma chiara e logica – motivazione non consente di ritenere sussistente nella specie alcun vizio deducibile in sede di legittimità nè altresì alcuna violazione del diritto alla prova alla stregua dei canoni di cui all’art. 6 CEDU. 9- In ordine alla dedotta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. (cfr. terzo motivo del ricorso L. – P.) ed alla connesse censure di motivazione apparente ovvero di manifesta illogicità della stessa con riferimento alla posizione dell’imputato L., ritiene il Collegio che i rilievi al proposito avanzati siano privi di giuridico fondamento, atteso che i giudici del merito, ben lungi dal mutare la originaria contestazione, hanno provveduto a meglio chiarire il contenuto della stessa sulla base delle acquisite emergenze processuali, sottolineando il ruolo di mandante per così dire "mediato" del L. che unitamente all’ A., una volta condiviso il mandato omicidiario dei capi del "clan dei casalesi", ha agito quale longa manus di costoro nel territorio da lui controllato, occupandosi della organizzazione del delitto, mettendo a disposizione la propria abitazione e l’arsenale di armi ivi costituito, così partecipando alla fase creativa e preparatoria del crimine con specifiche condotte di determinazione e agevolazione degli altri concorrenti, fra essi compresi i materiali esecutori dell’omicidio. E poichè la motivazione in proposito svolta risulta chiara ed esaustiva, senza illogicità di sorta ed in linea con i principi giurisprudenziali in materia enunciati, e poichè, altresì, si è congruamente sottolineato che l’imputato "ha sempre avuto la piena conoscenza di quanto emergeva a suo carico e la possibilità in concreto di esercitare in maniera esaustiva il diritto di difesa", non si vede come i rilievi difensivi possano trovare un qualche spazio di condivisione.

10- Parimenti non meritano condivisione i motivi di ricorso subordinati.

10.1- Del tutto evidente, considerato il ruolo ricoperto nella vicenda dal L. quale testè sottolineato, la sussistenza nei suoi confronti dell’aggravante della premeditazione; ma parimenti nessun dubbio può sussistere in ordine alla correttezza dell’attribuzione di siffatta aggravante anche nei confronti del coimputato P., considerato il suo coinvolgimento nel delitto da subito dopo la deliberazione omicidiaria, la sua partecipazione attiva alla fase organizzativa e preparatoria, il mantenuto collegamento con i concorrenti fino alla fase conclusiva, l’appoggio fornito per la materiale esecuzione dell’omicidio, quali sottolineati nelle sentenze di merito.

10.2- La sostenuta ricorrenza in favore dell’imputato Z. dell’attenuante della minima partecipazione ai fatti è stata correttamente negata dai giudici del merito che hanno rilevato il contributo tutt’altro che marginale offerto da tale imputato, con ruolo di collegamento tra il "clan dei casalesi" ed i loro alleati nella zona dove l’omicidio doveva essere consumato, sempre presente nei momenti salienti della vicenda, partecipante ai "pedinamenti" e "sopralluoghi" funzionali all’omicidio, fornitore dell’auto utilizzata nell’esecuzione del delitto in sostituzione di altra rivelatasi non efficiente. La ritenuta consistente valenza del contributo offerto da tale imputato appare dunque congruamente motivata ed in linea con i principi al proposito più volte enunciati da questa Corte, per i quali la sussistenza dell’attenuante in questione è ravvisabile solo quando il contributo sia di efficacia causale talmente lieve da risultare del tutto trascurabile rispetto alla preparazione ed esecuzione del delitto (cfr. ex multis Cass. sentenze n. 12811/2007, n. 33435/2006, n.11380/2006).

10.3- Quanto ai rilievi circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il trattamento sanzionatorio (censure formulate da tutti e tre gli imputati L., P. e Z.), gli elementi valutati nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado e le congrue argomentazioni che hanno accompagnato tale valutazione non consentono di porre in dubbio la correttezza del censurato diniego e dell’applicato trattamento sanzionatorio, tanto più considerate: 1) la assoluta genericità del quinto motivo in proposito formulato dal ricorso L. – P.;

2) la non condivisibilità dei rilievi di cui al secondo motivo dell’ulteriore ricorso proposto nell’interesse dell’imputato P. (avendo la Corte di merito tenuto conto della necessità di adeguare la pena alla natura del reato -omicidio di camorra accuratamente preparato- ed alla personalità del reo -gravato da numerosi e gravi precedenti penali e carichi pendenti nonchè partecipe al delitto esclusivamente nella logica di appartenenza ad un sodalizio criminoso- ed avendo quindi la Corte esaustivamente giustificato l’uso del potere discrezionale riconosciutogli al riguardo); 3) la assoluta genericità ed apoditticità dell’assunto dello Z. circa l’applicabilità nei suoi confronti delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestate e riconosciute aggravanti e circa il possibile contenimento della pena nei minimi edittali.

Alla stregua delle considerazioni sopra svolte i ricorsi degli imputati L., P. e Z. devono pertanto essere rigettati.

11- A diversa conclusione deve pervenirsi in relazione all’imputato B.F.. Coglie infatti nel segno la censura da costui avanzata in ordine alla violazione del canone di valutazione probatoria di cui all’art. 192 c.p.p..

Osserva il Collegio che la chiamata in correità proveniente da A.A. – che ha riferito di un suo incontro con B. e del proposito omicidiario espressogli da costui nei confronti del M. – non ha trovato alcun solido riscontro in altre emergenze processuali, a tal fine essendo di assai scarsa valenza le dichiarazioni del collaboratore D.L., avendo costui fatto riferimento a notizie, direttamente percepite nel corso di varie riunioni od apprese nell’ambito del suo più ristretto gruppo, relative agli omicidi da compiersi al fine di sterminare gli avversari "bardelliniani" ed affermare il predominio assoluto della fazione a costoro contrapposta, ma senza addurre alcun elemento certo e seriamente convergente con il narrato dell’ A. in punto di ricezione del mandato omicidiario anche dal B..

E ciò:

perchè il resoconto del D. appare afferente alla storia del sodalizio in quel particolare contesto storico piuttosto che all’omicidio M., perchè – secondo quanto è dato desumere dagli stralci delle dichiarazioni riportati in sentenza – egli non riferisce di un esplicito mandato di morte proveniente dal B., perchè le divergenze sottolineate dalla difesa non hanno trovato ragionevole componimento o spiegazione da parte della Corte di Assise di Appello, perchè il rilievo attribuito nella sentenza impugnata al ruolo di vertice asseritamente ricoperto dal B. già in quel periodo ed alla sua generica condivisione di un progetto di espansione ai danni degli avversali non valgono – di per sè soli – a ricondurre a quest’ultimo la responsabilità di tutti i crimini perpetrati dal sodalizio di appartenenza e quindi dell’omicidio de quo.

Pertanto, non risultando la chiamata in correità di A.A. – in base a quanto esplicitato in sentenza – confortata da idonei riscontri, la statuizione di responsabilità pronunciata nei confronti di B.F. risulta fondata su una erronea applicazione del canone di valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3 e deve pertanto essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli che dovrà procedere a nuova disamina della posizione di tale imputato tenendo presente quanto più sopra argomentato.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di B.F. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. Rigetta i ricorsi proposti da L.R., P.G. e Z.A. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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