Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-05-2011, n. 9634 Pensione di anzianità e vecchiaia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Torino, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda del pensionato in epigrafe, proposta noi confronti della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Ragionieri e Periti Commerciali, avente ad oggetto la condanna della predetta Cassa a corrispondergli la pensione di anzianità da computarsi, in virtù del principio pro rata stabilito dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, sino al 22 giugno 2002 – data della delibera di modifica dell’art. 49 del Regolamento della Cassa – in base al previgente criterio riferito ai migliori quindici redditi dichiarati negli ultimi venti anni e non a quello nuovo della media di tutti redditi professionali annuali applicabile solo per il periodo successivo alla indicata delibera.

La Corte territoriale poneva a base del decisum il rilevo fondante secondo il quale la lettera della norma non consentiva di ritenere che il principio del pro rata non fosse generale sì da essere applicato anche al caso di specie. Tanto, precisava, la Corte del merito in dissenso con il diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 14701 del 2007 della Cassazione in base al quale la regola del pro rata non era applicabile a parametri non suscettibili di frazionamento nell’arco dell’intero periodo contributivo e, quindi, ai sistema di calcolo della pensione, il cui computo doveva essere effettuato con riferimento alle norme in vigore al momento della domanda di pensionamento. Nè mancava di sottolineare la Corte del merito la non operatività dello ius superveniens, di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763, trattandosi di pensionamento anteriore alla entrata in vigore della precitata legge.

Avverso questa sentenza la Cassa in epigrafe ricorre in cassazione in base a quattro censure.

Resiste con controricorso il pensionato.
Motivi della decisione

Con la prima censura la Cassa, denuncia violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12 e della L. n. 414 del 1991, art. 1.

Con la seconda censura la parte ricorrente, deduce violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12 e della L. n. 414 del 1991, art. 1.

Con il terzo motivo la Cassa ricorrente, allega violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, come modificato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763 e della L. n. 414 del 1991, art. 1.

Con l’ultima censura la parte ricorrente, prospetta vizio di motivazione.

Rileva la Corte che il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Infatti trattandosi di sentenza di appello pubblicata il 27 febbraio 2009 trova applicazione, del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ex art. 27, comma 2, la richiamata norma di rito secondo la quale nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto e nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Nè ratione temporis, è applicabile la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), che ha abrogato il precitato art. 366 bis c.p.c., trovando tale norma, ai sensi della predetta L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5, applicazione relativamente alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato successivamente (ossia dal 4 luglio 2009) alla data di entrata in vigore della citata L. n. 69 del 2009 (Cass. 13 gennaio 2010 n. 428).

Nella specie difetta del tutto il quesito di diritto nonchè la specifica indicazione del fatto controverso, intesi quale sintesi logico giuridica della censura che s’intende sottoporre a giudice di legittimità (Cass. S.U. 23 settembre 2007 n. 20360).

Il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.040,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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