Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-05-2011, n. 9603 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Firenze, in riforma della sentenza di prime cure, ha, per quanto rileva ancora nel presente giudizio, dichiarato l’illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati da Poste Italiane s.p.a. con D.C., L. E. e M.V. e la conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fra le stesse parti a decorrere rispettivamente dal 2 luglio 2002 ( D.), dal 11 luglio 2002 ( L.) e 1 giugno 2002 ( M.).

Come si evince dalla sentenza impugnata le lavoratrici sono state assunte con contratti a termine, con le decorrenze sopra indicate.

Tali contratti recavano la seguente causale: esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile 2002, congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie contrattualmente dovute a tutto il personale nel periodo estivo.

La Corte territoriale, premetteva che, a norma del citato D.Lgs. n. 368 del 2001, è necessario specificare nell’atto scritto le concrete ragioni poste a fondamento dell’apposizione del termine al fine di consentire la verifica, in sede giudiziale, della sussistenza delle stesse, e che pertanto tale obbligo poteva ritenersi ottemperato solo con la descrizione delle ragioni concrete poste a fondamento della temporaneità dell’assunzione e con l’individuazione del nesso fra le suddette ragioni e l’assunzione temporanea. Osservava altresì che, pur essendo stata indicata la causale prevista dall’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, si applicava alla fattispecie la disciplina dettata dal citato D.Lgs. n. 368 del 2001, atteso che il suddetto c.c.n.l. era già scaduto alla data di stipulazione dei contratti individuali non essendo più applicabile il regime transitorio previsto dall’art. 11 del D.Lgs. suddetto.

Ciò premesso riteneva che la clausola giustificatrice del termine non fosse idonea, in quanto sostanzialmente generica e tautologica, a soddisfare i requisiti sopra enunciati.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a due motivi; D.C. e L. E. resistono con controricorso. M.V. è rimasta intimata.
Motivi della decisione

Preliminarmente deve osservarsi che il ricorso per cassazione non è stato ritualmente notificato alla lavoratrice M.V.. Ed infatti, premesso che la notificazione del ricorso è stata effettuata ai sensi dell’art. 149 cod. proc. civ., a mezzo del servizio postale, non risulta in atti l’avviso di ricevimento attestante l’avvenuta ricezione dell’atto da parte della destinataria.

Le Sezioni Unite di questa Corte di cassazione (Cass. SU. 14 gennaio 2008 n. 627) hanno in proposito precisato che la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ai sensi dell’art. 149 cod. proc. civ., è richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. Ne consegue che, in caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento, ed in assenza di attività difensiva da parte dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile.

In applicazione del suddetto principio, e tenuto conto della mancata comparizione, all’udienza di discussione, del difensore dell’intimata, il ricorso nei suoi confronti deve essere dichiarato inammissibile.

I due motivi di ricorso nei confronti delle altre lavoratrici possono essere sintetizzati nei termini che seguono.

Col primo motivo la società ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e dell’art. 115 cod. proc. civ. e art. 2697 cod. civ., nonchè vizio di motivazione con riferimento alla statuizione relativa alla nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati con D. e L.. Contesta, in particolare, le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte territoriale sulla mancanza di specificità della clausola giustificativa dell’apposizione del termine. Deduce altresì che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto degli accordi sulla mobilità interaziendale menzionati nei contratti di assunzione de quibus. Lamenta, infine, la mancata ammissione della prova per testi ritualmente richiesta in primo grado e ribadita nel giudizio di appello.

Col secondo motivo di ricorso si denuncia il vizio di omessa motivazione e la violazione degli artt. 210 e 421 cod. proc. civ., sull’assunto che la Corte di merito avrebbe omesso di decidere in merito alla richiesta di esibizione dei documenti (libretti di lavoro e buste paga) finalizzata a valutare gli eventuali corrispettivi percepiti dai lavoratori per attività svolte alle dipendenze di terzi.

Il primo motivo di ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile.

Questa Corte, decidendo su fattispecie analoghe a quella in esame, ha stabilito (cfr., in particolare, Cass. 27 aprile 2010 n. 10033) che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare – con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto (in argomento cfr., altresì, Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi avendo motivato in modo idoneo e privo di vizi logici le proprie conclusioni circa la mancanza del requisito di specificità della clausola giustificativa dell’apposizione del termine. E’ pertanto infondata la censura nella parte in cui contesta l’applicazione, da parte della Corte territoriale, della normativa richiamata in ricorso. La stessa censura è invece inammissibile, per violazione del principio di autosufficienza, nella parte in cui contesta la mancata valutazione, da parte della Corte di merito, degli accordi sindacali menzionati nei contratti di assunzione a termine. Ed infatti, se è vero che questa Corte ha affermato, nei precedenti sopra richiamati, che la specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro ove questo rinvii per relationem ad altri testi scritti accessibili alle parti – in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale – è anche vero che, nel caso in esame, la società ricorrente, ancorchè abbia affermato che un articolato sviluppo di tali indicazioni è contenuto negli accordi ivi richiamati, non ne evidenzia poi, almeno attraverso la riproduzione degli snodi essenziali, il contenuto, limitandosi ad un generico richiamo ad esigenze nascenti dall’attuazione della mobilità interaziendale. Ciò in violazione del principio, più volte enunciato da questa Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 19 maggio 2006 n. 11886), secondo cui il ricorrente che deduce l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di atti documentali ha l’onere di indicare – mediante l’integrale trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e non valutata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative. E’ infine inammissibile in quanto inconferente la censura relativa alla mancata ammissione della prova per testi. A parte ogni altra considerazione basterà osservare in proposito che tale prova attiene alla verifica della sussistenza in concreto delle circostanze poste a giustificazione dell’assunzione a termine, e quindi si riferisce ad un profilo non rilevante nel presente giudizio nel quale si discute di un aspetto antecedente in ordine logico, e cioè della mancanza di specificità della clausola giustificativa del termine.

Quanto al secondo motivo di ricorso, che attiene, in senso lato, al profilo delle conseguenze derivanti dalla declaratoria di illegittimità del termine, deve essere preliminarmente esaminato il problema dell’applicazione alla fattispecie in esame dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ..

In proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare ne giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; in particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine e che siano ammissibili; in caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Nel caso in esame la censura è inammissibile in quanto formulata in modo affatto generico. Ed infatti la società ricorrente non solo non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum, ma non ha nemmeno indicato, in violazione del principio di autosufficienza, in quale atto del processo è stata formulata la richiesta di esibizione di documentazione ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ..

Il ricorso nei confronti di D.C. e L. E. deve essere in definitiva rigettato.

In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento, nei confronti delle lavoratrici costituite, delle spese processuali liquidate come in dispositivo.

Nulla deve essere stabilito in tema di spese per quanto concerne la M. che non ha svolto alcuna attività processuale.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso nei confronti di D.C. e L.E.; dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di M.V.; condanna Poste Italiane s.p.a. al pagamento, nei confronti delle prime due, delle spese del giudizio di Cassazione liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorario unico difensivo, oltre a Euro 25,00 per esborsi e oltre accessori di legge;

nulla spese nei confronti di M.V..

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